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QT n. 3, marzo 2023 Seconda cover

“Perfido”: giudizio abbreviato e (troppo) riservato

L’ultima svolta processuale: si accorciano i tempi ?ma a che prezzo?

Confusione, sconcerto, preoccupazione, quando non aperta ostilità. Queste alcune reazioni all’ultima piroetta giudiziaria del nostrano processo per mafia. Dal momento che il tema è importantissimo e decisiva è la consapevolezza sociale di quanto sta accadendo ed è accaduto, cerchiamo di spiegare al meglio una materia non semplice.

Dunque, all’udienza del 9 febbraio, la Pubblica Accusa e la Corte comunicano di aver prospettato agli avvocati difensori l’ipotesi di passare al rito abbreviato, e incominciano a sondare la disponibilità verso questo passaggio.

Nell’udienza del 22 la prospettazione è più serrata, alcuni difensori si dichiarano disponibili, altri meno, altri no, si deciderà il 16 marzo.

In soldoni, di cosa si tratta? Il rito abbreviato è uno degli escamotage ideati da uno Stato con l’acqua alla gola: è incapace di gestire una macchina della giustizia lenta, impacciata, gravata da una serie di bizantinismi utili solo a lievitare i costi e dilatare i tempi, per di più una macchina su cui si investe poco, con sempre troppo pochi giudici, Pm, cancellieri ed altro personale. E allora non si è trovato di meglio che “abbreviare”, “patteggiare” ecc, ridurre cioè la qualità della giustizia, pur di arrivare a sentenza in tempi accettabili. Secondo il principio della riduzione del danno, per cui una giustiziapiù o meno semplificata è meglio di nessuna giustizia.

Nel nostro caso, quindi, si prospetta questo scambio: gli imputati che accettano il giudizio abbreviato hanno diritto, se condannati, allo sconto di un terzo della pena (cui si potrà aggiungere un altro sesto – arrivando quindi a una pena dimezzata – se, una volta condannati, rinunceranno all’appello); dall’altra parte il processo non sarà pubblico, avverrà in Camera di Consiglio, e il numero dei testi sarà fortemente ridotto.

Come si vede, un risultato per niente soddisfacente per un processo dalle fortissime implicazioni sociali. Ma come? Sull’antimafia si dice sempre, in articoli, libri, convegni, che la criminalità organizzata non si combatte solo a livello giudiziario, ma soprattutto a livello sociale, e poi però ci si trincera in camera di consiglio rinunciando in gran parte al dibattimento? Quasi che la conoscenza sociale di quanto è avvenuto sia un intralcio alla giustizia, un disvalore?

C’è poi la questione dei testimoni che si intreccia al ruolo delle Parti Civili. Se gli imputati non chiedono che vengano sentiti loro testimoni, siamo di fronte al cosiddetto abbreviato secco: nessuno può indicare testimoni, il processo si farà solo sulle prove presentate dall’accusa (le intercettazioni, le informazioni della Polizia Giudiziaria, i documenti raccolti). Se invece gli imputati chiedono (come sembra) l'abbreviato condizionato alla presentazione di prove documentali e all'audizione di (pochi, sarà eventualmente il giudice a scremare) testi a difesa, le Parti Civili ancora non possono indicare loro testi a prova contraria, possono però sollecitare la Corte ad acquisirli d'ufficio o al Pm ad indicarli per lei. Starà al Tribunale stabilire se sono necessari al decidere e quindi se ascoltarli. Anche qui: il ruolo della società, che si esplica nelle Parti Civili (in “Perfido” a proporre testimoni sono Questotrentino da una parte e dall’altra il Coordinamento Lavoratori Porfido che patrocina gli operai offesi) viene decisamente compresso, ridotto a un optional. E non va proprio bene.

Così il CLP ha indetto una conferenza stampa di protesta, ed ha presidiato il Tribunale con un picchetto, ad evidenziare una dura opposizione a questo esito.

Le tappe di un iter contorto

Come si è giunti a questo risultato? Il fatto è che in questi mesi la posizione dell’accusa si è rafforzata. I due primi processi si sono chiusi con due secche condanne per associazione mafiosa, anche se in uno l’imputato (Saverio Arfuso) non aveva commesso altri reati se non quello di venire, da (presunto) mafioso in pensione, in Trentino, e qui collegarsi con i sodali locali oltre che con gli adepti in Calabria; nell’altro processo l’imputato Domenico Morello aveva altre attività al di fuori del giro del porfido. In entrambi i procedimenti ad inchiodare gli imputati erano state le intercettazioni, non contestate dalle difese e diventate pietra miliare dell’accusa. E anche per il grosso degli imputati le intercettazioni sono tantissime, e gravi.

A rafforzare la posizione dell’accusa, paradossalmente, è anche lo smacco subito nel processo a Giuseppe Paviglianiti e Arafat Mustafà. Lì si era arrivati ad un discutibile patteggiamento, con la Procura che rinunciava all’accusa di associazione mafiosa, per derubricarla a semplice “supporto ed assistenza” all’associazione, dove nel caso di Mustafà, già colpevole di aver massacrato l’operaio cinese Hu Xu Pai, il “supporto” consisteva in “atti intimidatori in pregiudizio di altri imprenditori, debitori e lavoratori”.

Noi avevamo duramente criticato questo esito (vedi “Lo sconcertante patteggiamento concesso a Mustafa Arafat” su QT del maggio 2022), che rimetteva in libertà un violento, picchiatore e torturatore. in nome – deducevamo - di una contorta strategia processuale: incamerare nel primo processo l’assistenza all’associazione criminale, il che implicava il riconoscimento dell’esistenza dell’associazione stessa.

Poi però questo esito era stato impugnato dalla Procura Generale, ed annullato dalla Cassazione. Quindi una smacco per l’accusa sullo specifico provvedimento, dicevamo, ma anche una conferma della solidità del più generale impianto accusatorio sull’esistenza dell’associazione ‘ndranghetista, che è il cuore del problema.

E’ in questa situazione che la Procura ha fatto i suoi conti: con le accuse che hanno retto, le intercettazioni praticamente dimostratesi inconfutabili, perché andare avanti con un maxi processo che magari dura cinque anni e assorbe forze già scarse? E così deve avere ragionato il Tribunale: perché tirare per il lungo, con la carenza di giudici del Tribunale trentino, costretto in questo caso (ma anche nel processo Morello) a farsi arrivare i giudici da Bolzano? Per non parlare delle difese: le condanne hanno iniziato a fioccare, meglio rifugiarsi nel rito abbreviato con la pena ridotta a un terzo se non alla metà.

Ecco quindi la situazione attuale. Semplifichiamo per non tediare: degli attuali 11 imputati la maggioranza sceglierà il rito abbreviato. Alcuni (di sicuro Innocenzio Macheda, il supposto capo della locale, e Federico Cipolloni, il commercialista di Morello) rimarranno sul rito ordinario, che si terrà di fronte a un’altra corte.

I reati addebitati, che prima formalmente erano Associazione mafiosa, Riduzione o mantenimento in schiavitù, ora sono anche Detenzione di armi da sparo e da guerra, Scambio elettorale politico-mafioso (con il senatore Mauro Ottobre, i sindaci Bruno Groff e Roberto Dalmonego), Intimidazioni, Spaccio di banconote contraffatte.

Materiale probatorio dell’accusa rimangono le migliaia e migliaia di ore di intercettazioni, eventualmente tradotte dal calabrese, ora a disposizione delle parti.

L’accusa ha anche tentato di far confluire nell’abbreviato anche tre bancarotte per le quali sono avviati altrettanti procedimenti; la cosa avrebbe potuto fornire un quadro più completo dell’attività dei sodali (le bancarotte programmate sono una classica piaga mafiosa, che desertifica il tessuto economico, e il distretto del porfido ne è stato duramente segnato), ma dei tre imputati (Nania, Casagranda, Giuseppe Battaglia) solo uno, Mario Nania, sceglieva l’abbreviato, per cui, essendo i tre accusati in concorso e il procedimento non si può spezzare, la bancarotta rimarrà fuori dal processo principale.

Non finirà qui. A seguire, oltre alle bancarotte ci aspettiamo i procedimenti per i colletti bianchi: in particolare è da definire la posizione di Giulio Carini, secondo il rinvio a giudizio elemento di raccordo (attraverso l’organizzazione delle “cene di capra”) con personaggi delle istituzioni, della politica, nonché della magistratura locale); come da definire è la posizione dei politici secondo l’accusa beneficiari dello scambio elettorale politico-mafioso: Ottobre, Groff, Dalmonego. Costoro erano relegati a un secondo processo (probabilmente nella – già discussa - strategia di affrontarli dopo avere una condanna per associazione mafiosa; rischiando però di perdere la visione d’insieme dell’infiltrazione criminale); ma ad oggi di questo procedimento non si hanno notizie. Con l’abbreviato si arriverà a sentenza prima; il processo con rito normale per quelli che restano fuori – pochi, sembra – si spera sia più breve proprio perché gli imputati (e gli avvocati) sono pochi. Nel frattempo bisognerà vigilare affinché, proprio nei confronti dei colletti bianchi, non scemi l’attenzione.

Punto interrogativo invece sui Carabinieri: D’Andrea, Amato, Cipolla, Mattedi, indagati per omissione di soccorso, omissione di denuncia di reato, ed altri reati connessi con il pestaggio di Hu-Xu-Pai, commessi con l’aggravante della finalità di agevolare un’associazione mafiosa. Niente si muove, nulla si sa.

La cosa desta preoccupazione, perché i fatti sono avvenuti nel 2014, e la prescrizione è dietro l’angolo. Ora, è vero che durante il processo a Domenico Morello il PM Ognibene ha ricordato il ruolo dei carabinieri della stazione di Albiano, ha sottolineato come i sodali li indicassero come “i nostri carabinieri”, ma proprio per questo, per l’estrema gravità di questa ipotizzata infiltrazione, non si dovrebbe assolutamente lasciar scorrere il tempo.

Tiriamo le conclusioni.

Questo zig zag processuale è indubbiamente legittimo. La legittimità di un passaggio al giudizio abbreviato in casi come quello che abbiamo davanti è già stata appurata in diversi casi. Anche le interlocuzioni tra Procura, Corte e difese, al fine di avere un procedere dell’azione giudiziaria meno dispersivo e possibilmente condiviso tra le parti, sono la norma nei film giudiziari americani, ma non sono certo estranee alla prassi italiana.

Convince meno lo spezzettamento e il riaccorpamento di procedimenti, in parte dovuto a inevitabili scelte giudiziarie divergenti delle parti, ma anche a cambiamenti della strategia processuale della Procura. La quale indubbiamente ha compiuto un lungo, poderoso lavoro di indagine e risulta molto ferrata in sede dibattimentale. Ed è anche vero che la decisione di ricorrere all’abbreviato è probabilmente figlia del provvedimento della Corte (presa contro il parere dei PM) di scarcerare gli imputati e del conseguente rischio che i tempi processuali si allungassero ulteriormente, per effetto dei continui rinvii che a quel punto le difese avrebbero potuto chiedere. Detto tutto questo, sta di fatto che tra reati prima contestati, poi ripescati, tra imputati sparpagliati in diversi procedimenti ed indagati ancora al palo di partenza e quindi nell’ombra, si rischia di far perdere la visione d’insieme sul Trentino aggredito dalla criminalità.

La mancata pubblicità del prossimo dibattimento aggrava questa situazione. Il tribunale, lo si è visto più volte, è un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale nei suoi riti e codicilli, non si cura, e manco se ne accorge, dei gravi e grandi effetti sulla società delle proprie decisioni.

Anche quando, come in questo caso, servirebbe proprio il contrario: la criminalità organizzata si combatte con la crescita della conoscenza e della coscienza civile. Qui invece ci si chiude. Non solo: è concreta la possibilità che vengano escluse o quantomeno limitate le testimonianze che la società (noi e il CLP) può e vuole portare nel processo. Sarebbe un vulnus gravissimo, inaccettabile.

Bene fa il Coordinamento Lavoro Porfido a protestare con grande vivacità.