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QT n. 6, giugno 2022 Servizi

Perfido: una sentenza decisiva

Prima conferma, è ‘ndrangheta. La sentenza del processo Arfuso conferma l’infiltrazione mafiosa e ne approfondisce le dinamiche.

La prima tranche del processo Perfido agli ipotizzati ‘ndranghetisti nostrani è giunta a sentenza, di cui il 12 maggio sono state pubblicate le motivazioni. Che confermano in pieno tutte le ipotesi accusatorie, e confermano ulteriori elementi. Stiamo parlando del processo con rito abbreviato a carico del carabiniere Fabrizio De Santis, operante nella succursale romana, e soprattutto di Saverio Arfuso, che ricoprendo un “ruolo di rango elevato nell’organizzazione criminale a Cardeto (RC)” fungeva da elemento di collegamento tra locale trentina e casa madre calabrese.

La sentenza del giudice Enrico Borrelli, che condanna Arfuso a 10 anni e 10 mesi di carcere, si diffonde su questi rapporti, li indaga ed approfondisce, e ricostruisce la genesi del radicamento criminale in Val di Cembra.

E’ un documento molto interessante, su cui ci ripromettiamo di tornare. Al momento, ne sottolineiamo alcuni punti centrali. Il primo è la sussistenza dei rapporti mafiosi, lo strettissimo collegamento con la casa-madre, “il lento e silente ingresso nella realtà trentina”.

Tutto nasce dalle guerre di mafia calabresi degli scorsi decenni, da cui “l’irradiazione delle consorterie e l’esodo di sing oli esponenti” ormai bruciati e a rischio nella terra natale. Nei nuovi territori, tra cui il Trentino, “per taluni soggetti vi è stato un lento radicamento, sociale ed economico” senza l’emersione di reati o di collegamenti con la consorteria criminale. Sembra la descrizione di quanto da noi riportato sui primi anni cembrani di Giuseppe Battaglia, giovane immigrato che frequentava anche una storica famiglia della sinistra cembrana, taceva, imparava, e si imparentava sposandone la giovane figlia.

Tale “ingresso silente per un verso ha evitato forme di allarme nelle comunità di insediamento, per altro verso ha consentito la selezione e l’emersione di figure che nel tempo potessero godere... di un grado di affidabilità ordinaria, quali soggetti imprenditoriali autonomi, senza che nulla potesse trapelare sugli stretti legami con le consorterie criminali”. Insomma, tra i calabresi fuggiti, i Battaglia prima, ed altri poi, con accorti comportamenti hanno saputo conquistarsi un posto nella nuova comunità. A questo punto, effettuato il radicamento, “i soggetti in esame sono passati alla conduzione spregiudicata dell’attività economica, con l’introduzione dei sistemi tipici della consorteria”. Non solo: si passava “dal mero trasferimento di persone nella provincia di Trento” alla consapevole “costituzione di una specifica struttura criminale locale, dotata di autonomia organizzativa e decisionale, con stretti collegamenti con la cosca d'origine”.

La sentenza è incisiva nel descrivere i vari aspetti del lento processo di infiltrazione; ed al contempo risulta decisamente allarmante, su di essa si dovrebbe studiare e riflettere. Illustra infatti le finalità e i metodi della locale: inserirsi nel tessuto economico trentino, “privo di cautele o di sospetti”; occupare “una serie di settori economici, a partire da quello dell'estrazione del porfido, per poi estendersi ad altri settori, con denaro proveniente da attività illecite; realizzare l'acquisizione delle singole imprese ed attuare lo svolgimento dell'attività economica con metodi mafiosi, sino ad ottenere progressivamente situazioni di monopolio indiscusso.” Con quali metodi? “L'assoggettamento delle maestranze a criteri schiavistici” l’utilizzo dell’“intimidazione nei confronti di ogni controparte economica, come avvenuto nella riscossione dei crediti”, ma anche nel depotenziare i concorrenti.

Tali operazioni sono state svolte con grande accortezza, operando su due livelli. Il primo è stato quello in cui si è cercato “di creare e di mantenere livelli di rispettabilità nei rapporti coi terzi” per non incorrere in “controlli, giudiziari e delle comunità locali” e soprattutto per “evitare qualsiasi forma di sospetto dell'operatività di una ‘locale’, intesa quale struttura o rganizzata”. Insomma, accettavano sì di passare per gente non particolarmente amante della legalità (in una situazione, aggiungiamo noi, il comparto del porfido, in cui tutti erano molto disinvolti rispetto a leggi e regole), ma evitavano come la peste di sollevare il sospetto di essere mafiosi. Per raggiungere questo scopo c’era chi (Innocenzio Macheda, il capo della locale) si dipingeva come “grande lavoratore”, e chi (i fratelli Battaglia) era riuscito ad accreditarsi come operatore economico in grado di gestire un settore molto importante nella comunità.

Ma questa era solo una parte della realtà. Poi c’era l’altra realtà, il secondo livello, più brutale “L'utilizzazione di tutti i metodi caratteristici della consorteria mafiosa, con elevati livelli di intimidazione e di violenza. In questi casi le vittime hanno rapidamente assistito e vissuto modalità operative inusitate, con particolare riferimento ai soggetti che non si sono rapidamente piegati ai dettami della consorteria e ai prestatori di lavoro, umiliati e schiavizzati. Per tutti costoro è emerso con la medesima rapidità l'impossibilità di far ricorso alle autorità, non tanto per il timore di infiltrazioni istituzionali della consorteria (a loro ignote e neppure sospettabili), quanto per il timore concreto ed attuale che ogni tentativo di segnalazione avrebbe comportato un immediato intervento della ‘locale’, con rischio della vita. In un tale quadro, si è avuta la creazione di un livello di omertà analogo a quello esistente nelle regioni con più alto tasso di criminalità mafiosa”.

E’ stato quindi il timore di violentissime ritorsioni, tra le quali viene ricordato il bestiale pestaggio all’operaio cinese Hu Xupai, a creare una situazione di omertà.

Eppure ancora non bastava. Ecco quindi la necessità di rafforzare la propria presenza ricercando collusioni ai vari livelli istituzionali: attraverso “una serie di attività illecite compiute nei rapporti con la politica e in particolare l'intervento in sede elettorale”; con i rapporti con alcuni esponenti della Stazione Carabinieri di Albiano, oggetto di altro procedimento giudiziario, ma che comunque la sentenza ipotizza come responsabili “di insabbiamento” nel caso del pestaggio dell’operaio cinese. Presenza infine rafforzata dai “collegamenti e connessioni con il mondo della politica, delle Forze dell'Ordine, della magistratura e, più in generale, con una serie di persone di vertice (un notaio, un primario dell'Ospedale pubblico cittadino, un vice-Questore, etc.)” operati nelle ormai celebri cene di capra di Giulio Carini (attualmente “soggetto non imputato” precisa la sentenza).

Come detto in precedenza, approfondiremo ancora le pagine della sentenza. Quello che comunque emerge - non da un’ordinanza di custodia, non dalla documentazione della pubblica accusa, ma da una sentenza per quanto di primo grado - è la dettagliata analisi e la conferma – a questo punto ufficiale anche se non definitiva – dell’infiltrazione mafiosa. Viene quindi confermato il giudizio già di alcuni anni or sono dell’Antimafia, il lavoro pluriennale degli investigatori e quello più recente dei PM, i decenni di denunce, tanto coraggiose quanto inascoltate del Coordinamento Lavoro Porfido, e – ci sia permesso – le decine e decine di pagine delle inchieste di QT, dalla metà degli anni ’80 ad oggi.

Questo è solo il primo, e uno dei minori, dei processi generati dall’Operazione Perfido. Ma già pone una serie di punti fermi. Dei quali il primo, decisivo, è la connotazione mafiosa dell’associazione ruotante attorno a Macheda e Battaglia. Gli altri processi non potranno, a meno di grossissime sorprese, prescindere da questo risultato.

Le sconfortanti reazioni della politica

Ma è un risultato che dovrebbe soprattutto interessare la società trentina. Invece vediamo come parte della politica non abbia proprio compreso quale sia la posta in gioco, o non se ne curi.

Ne sono un esempio le reazioni alle parole forti con cui il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, in occasione delle audizioni svoltesi a Trento il 10 maggio, aveva pronunciato commentando l’audizione del presidente Fugatti che – come altri peraltro - avrebbe minimizzato la presenza mafiosa affermando di non averne "avuto il minimo sentore". Da qui il commento molto duro di Morra: "Ci si deve domandare se è difetto di intelligenza o altro".

Ed ecco subito scattare in Consiglio provinciale l’indignazione non per chi ha minimizzato, ma per il pur poco diplomatico Morra. Claudio Cia (FdI) ha definite quelle del presidente dell’Antimafia “parole vergognose e offensive per l’autonomia”; gli ha fatto eco Giorgio Tonini (PD) parlando di “parole inopportune e sconsiderate”, mentre Filippo Degasperi (Onda Civica) ironizzava chiedendo a Morra di inviare a Trento un “prefetto di ferro”.

Peggio di tutti il presidente del Consiglio regionale, il leghista Roberto Paccher che ha testualmente affermato: “Tutti i presidenti che hanno guidato il Trentino hanno contrastato le infiltrazioni della criminalità”. Un’autentica stupidaggine: tutti i presidenti precedenti hanno sempre sostenuto l’inesistenza di tali infiltrazioni; è paradossale sostenere che un fenomeno negato possa essere stato “contrastato”. Altrettanto grottesche le parole di Vanessa Masè (Civica Trentina), secondo la quale “la comunità di Lona-Lases vive un’ingiusta umiliazione”, dove per umiliazione non si intende la disattenzione fin qui dimostrata verso la mafia dalle istituzioni dell’Autonomia, ma l’attenzione dimostrata dal presidente dell’Antimafia.

E qui si è collegato l’ineffabile Claudio Cia (il quale per altro il 27 maggio scorso ha partecipato ad una iniziativa titolata “Onda tricolore contro le mafie” a fianco dei senatori Balboni e de Bertoldi), che ha lamentato come “la politica romana ha reso impossibile candidare per le amministrative” a Lona-Lases. Ma se in paese non si trovano candidati è ridicolo addebitarne la responsabilità alla “politica romana” anziché a una prassi che ha sistematicamente calpestato i diritti democratici, con la complicità di coloro che si sono regolarmente girati dall’altra parte di fronte al conflitto d’interessi, alle minacce e agli atti intimidatori nei confronti di chi cercava di fronteggiare il malaffare. Come documenta appunto la sentenza Arfuso.

Che dire quindi delle affermazioni (non dimenticando che le parole esprimono ma anche creano atteggiamenti) fatte dal cembrano doc Savoi (Lega) secondo il quale “la mafia al nord l’hanno portata i calabresi e i siciliani”, mentre “i cembrani sono gente onesta e perbene”? Una gratuita offesa razzista alla quale purtroppo non mi pare fin qui d’aver visto risposta da parte della folta comunità meridionale stanziata in valle.

Una valle nella quale vi è sicuramente una popolazione per la maggior parte onesta e perbene, ma purtroppo incapace di reagire, forse intimorita anche dalla “capacità di insabbiamento grazie ai contatti con taluni esponenti della Stazione Carabinieri di Albiano” riconosciuta dal giudice nella sentenza Arfuso. Per questo l’interessamento dimostrato dall’on. Morra e dalla commissione che egli presiede va considerato non una umiliazione ma un autorevole sostegno.