Scuole paritarie: che cos’hanno di speciale?
Riflessioni di un cittadino che al referendum ha votato “no”.
Il fallimento del referendum provinciale sul finanziamento pubblico delle scuole private non ha chiuso il discorso più ampio sulla scuola trentina e in particolare sulla condizione privilegiata di cui godono gli istituti paritari di ispirazione cattolica. Diversamente dalla posizione di questo giornale, io mi sono recato alle urne per votare no al quesito referendario, perché ritengo che in fondo sia giusto sovvenzionare anche le scuole paritarie che svolgono un servizio pubblico. Esistono però alcune questioni irrisolte che purtroppo non sono emerse con la dovuta evidenza in campagna elettorale, cancellate dai toni spesso ideologici utilizzati da ambo le parti.
Per esempio: quali requisiti deve soddisfare una scuola per potersi chiamare paritaria? Su questo terreno occorre muoversi con cautela leggendo nelle pieghe delle leggi. Secondo la normativa nazionale (legge 62, 10 marzo 2000): "Tenuto conto del progetto educativo della scuola, l’insegnamento è improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione repubblicana. Le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap. Il progetto educativo indica l’eventuale ispirazione di carattere culturale e religioso. Non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa" (art.1, comma 3).
Questa normativa, come ha sottolineato in tono polemico la UIL scuola di Trento in un commento postreferendum, sembra richiedere alle scuole paritarie di essere aperte a tutti, di lasciare libertà di insegnamento ai docenti, di porre anche come facoltativo l’insegnamento della religione e di reclutare gli insegnanti attraverso graduatorie (quest’ultimo aspetto è comunque controverso). In questo senso una scuola cattolica come l’Arcivescovile, secondo quanto sostenuto dalla UIL, non potrebbe fregiarsi del titolo di "paritaria," perché evidentemente non rispetta questi requisiti.
Ma il quadro è più complesso, anche perché la legge Salvaterra in alcuni passaggi sembra ricalcare sostanzialmente la legge nazionale e solo da un punto di vista dei finanziamenti modifica l’approccio della legge 62. All’art. 30, comma 3 della legge Salvaterra è scritto: "Le istituzioni paritarie e le scuole dell’infanzia paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque richieda di iscriversi accettandone il progetto educativo. Le stesse istituzioni garantiscono agli studenti la possibilità di libera partecipazione alle attività non comprese nei piani di studio provinciali che presuppongono o esigono l’adesione a una determinata ideologia o confessione religiosa".
In verità l’Arcivescovile non chiude formalmente le porte a nessuno, né ai portatori di handicap, né a chi non sia di religione cattolica: certo "l’accettazione del progetto educativo" può essere interpretata in maniera molto ampia. Inoltre "le attività non comprese nei piani di studio provinciali" non riguardano direttamente l’ora di religione, ma indicano che uno studente non è obbligato ad andare a messa o ad aiutare per l’organizzazione della Festa della Scuola Cattolica (anche se ciò almeno in passato avveniva).
Un discorso diverso riguarda gli insegnanti, il loro reclutamento, il loro stipendio e la loro libertà. Partendo da questo ultimo punto invito a non cadere nell’errore ideologico di considerare l’insegnamento in una scuola cattolica poco libero e dogmatico, a prescindere dalla capacità e dalla sensibilità del docente. Occorre anche guardarsi dal considerare il mondo cattolico come un blocco monolitico: in realtà c’è grandissima differenza tra chi considera vietato criticare qualsiasi posizione della gerarchia cattolica o del papa e chi conserva la propria libertà di pensiero pur continuando a professare la fede cattolica. Un amico docente in una scuola cattolica e non certo ascrivibile tra gli integralisti mi confermava la sua assoluta libertà di insegnamento: certo non inviterà all’ateismo o all’apostasia, ma neppure alla guerra santa o alla conversione forzata. D’altra parte non possiamo dimenticare che, in occasioni come il referendum sulla fecondazione assistita o sulla scuola, quando la stessa partecipazione al voto può essere giudicata come una presa di posizione netta, esistono realmente forti pressioni anche sui docenti delle scuole cattoliche.
Ma questo non è dovuto alla loro appartenenza religiosa quanto al modo in cui essi sono assunti (e quindi anche licenziati) dalla scuola.
E’ noto che gli insegnanti delle scuole paritarie vengono selezionati "per chiamata" e non tramite concorso o graduatoria. Un tempo venivano assunte persone che non avrebbero soddisfatto nessun requisito per poter insegnare nel pubblico ma che erano in qualche misura "gradite" alla scuola: oggi invece viene generalmente richiesta l’abilitazione all’insegnamento oppure almeno l’assicurazione che essa verrà presumibilmente conseguita in breve tempo (alcuni docenti infatti frequentano la SSIS). All’Arcivescovile esiste anche una sorta di graduatoria interna basata essenzialmente sull’anzianità; ma comunque non è vincolante per il dirigente scolastico.
Ma una scuola per essere definita paritaria non deve attingere a concorsi pubblici. La legge Salvaterra garantisce invece la possibilità di scelta degli insegnanti, che però devono essere abilitati alla docenza (art. 30, comma 4, lettera j). E’ chiaro che in questo modo la scuola ha il coltello per il manico e conserva un grandissimo margine di discrezionalità nell’assunzione e nel licenziamento dei docenti, che quasi sempre si trovano in una posizione delicata se non subalterna.
Va detto però che anch’essi sono tenuti per legge a sottoscrivere il contratto di settore che in qualche modo li tutela nei confronti della scuola.
Su questo punto occorre sottolineare con forza la vera questione dirimente: il trattamento economico degli insegnanti nelle scuole private. Rispetto al pubblico, questi docenti sono sottopagati a fronte di minori diritti. Non si tratta di quisquilie: un insegnante di scuola superiore nel privato prende anche il 35-40% in meno rispetto al collega nel pubblico; lavora mediamente un 10-20% in più; è spesso meno garantito: storico e paradigmatico il caso di una neoassunta in una scuola cattolica, alla quale furono concessi, per il matrimonio, ben 2 giorni di licenza matrimoniale. E che ringraziasse! Chissà perché, nella maggior parte degli istituti privati, moltissimi docenti scappano non appena superato il concorso, o fatta la SSIS, o trovato anche solo un part time nel pubblico.
Comunque persino mons. Umberto Giacometti, direttore dell’Arcivescovile, ha ammesso che lo stipendio degli insegnanti è basso, ma subito dà una soluzione davvero facile: se la Provincia stanziasse maggiori contributi anche gli stipendi sarebbero alzati. Sembra un cane che si morde la coda: tutto ruota intorno ai contributi. E il tanto sbandierato progetto educativo con gli insegnanti poco motivati da un punto di vista economico, dove va a finire?
Come ho scritto in varie occasioni, io non sono pregiudizialmente contrario alle scuole paritarie, purché esse facciano per davvero un servizio pubblico. Io però non riesco a vedere, avendo frequentato proprio l’Arcivescovile, quale sia la differenza tra la scuola pubblica e quella privata: gli insegnanti non sono migliori (spesso, anzi, nelle parificate, una volta scomparsi i professori-preti, gli insegnanti sono più scadenti), la disciplina non è migliore, i valori impartiti non mi sembrano tanto diversi, gli esiti uguali, come bravura degli studenti e come orientamento valoriale di essi (su 25 alunni, nella mia classe, stimo a 5-7 gli studenti che oggi frequentano la chiesa). Le scuole private mi van bene: ma perché i cattolici tengono così tanto alle loro scuole, visto che, tutto sommato, sono uguali alle altre? Probabilmente questa insistenza della Chiesa italiana per il finanziamento statale delle proprie scuole va compresa nel desiderio di marcare il territorio, di non perdere un’antica tradizione educativa, nel bisogno di occupare lo spazio pubblico in maniera evidente. Per questo altre scuole paritarie di matrice non cattolica sono viste male, se non apertamente osteggiate.
In questi giorni abbiamo assistito al paradosso di un Magdi Allam tuonare, in una conferenza proprio all’Arcivescovile, contro la stessa possibilità di scuole paritarie di matrice islamica. Ma se esse rispettano la legge perché bocciarle a priori?