Chi di localismo ferisce...
Dalla riforma degli enti locali esce un Trentino "polverizzato"; che si rivolta contro i suoi artefici.
E' ormai acqua passata l’ennesima pre-crisi del la Giunta provinciale, con il diessino di turno (l’assessore Bressanini) che si inalbera, minaccia dimissioni, il presidente Dellai che alza le spalle e poi tutto, in effetti, si risolve in niente. Potremmo quindi ignorare il fatto, oppure iscriverlo nell’ormai lungo e forse inutile elenco delle frustrazioni della sinistra, incapace di imprimere una propria connotazione alla giunta dellaiana.
Invece l’episodio, specie se spogliato delle speculazioni partitocratiche, è molto indicativo, perché riguarda un problema del tutto irrisolto, che anzi tende ad incancrenire: il rapporto con le periferie.
La crisi contingente ha riguardato un caso specifico, la Val Rendena che (sponsorizzata dai DS) vuole distaccarsi dalle Giudicarie (sponsorizzate dalla Margherita) nella costituenda Comunità di Valle. Ma più in generale è l’assetto del Trentino ad essere in discussione, ben oltre le baruffe dei singoli protagonisti.
Il problema vero, a monte di tutto, è la legge che istituisce le Comunità di Valle. Osteggiata, temuta, talora apertamente ridicolizzata, dagli studiosi dell’Università come dai sindacati, è un pateracchio incredibile.
Nasce da un’esigenza sacrosanta: accorpare i Comuni, che sono 223, troppi e troppo piccoli, come tutti sanno (anche in Alto Adige c’è lo stesso problema, ma sono la metà). Questa frammentazione del territorio comporta oggi tutta una serie di consolidati svantaggi: il Comune piccolo non ha peso politico, non ha al suo interno adeguate risorse (a cominciare da quelle umane); e d’altra parte il territorio, sminuzzato com’è, non riesce a pianificare gli interventi; ormai è prassi, in questi anni delle vacche grasse, replicare le strutture in ogni centro, dalla caserma dei pompieri alle scuole, quando non alle società di servizio.
La cosa ha motivazioni storiche, quando ogni borgo aveva una sua identità, peraltro chiusa e gelosa, e il giovane che sconfinava dal paese vicino veniva accolto a sassate.
Oggi, con l’automobile e ancor più con Internet, anche le valli sono cambiate; e ci si ritrova in aggregati sociali e culturali che fanno riferimento alla valle, gli universitari di Fiemme si trovano fra di loro e con quelli di Fassa, non si dividono certo per paesi, e così i giovani che operano nel volontariato in Val di Non ecc.
Da qui la necessità – e la maturità – di una riforma istituzionale, che unificasse i Comuni, rendendoli in grado di gestire competenze decentrate dalla Provincia.
Solo che ad ostacolare il processo ci si sono messi i sindaci e più in generale il personale politico di base, timoroso di perdere la carega, nei Comuni che verrebbero accorpati, o nei Comprensori che, inutili, dovrebbero venire aboliti. Di qui una dura ostilità ad ogni riforma, ostilità naturalmente ammantata di difesa delle tradizioni, delle identità, delle radici e consimili facezie.
La riforma istituzionale è stato un tradizionale cavallo di battaglia della sinistra: e con essa si sono misurati, senza riuscire nell’intento, prima Mauro Bondi nel 1997, e poi Roberto Pinter nella scorsa legislatura. In questa, è stata la volta di Ottorino Bressanini, anch’egli, come i predecessori, dei DS. Solo che nel frattempo il partito, come Questotrentino sta da tempo registrando, ha perso la bussola. E, probabilmente alla ricerca di una qualche sponda sociale cui appoggiarsi, si è messo a difendere a spada tratta le richieste dei sindaci e l’intangibilità dei Comuni.
Il risultato è stato un pateracchio. Si dovevano abolire gli inutili Comprensori e disegnare delle Comunità di Valle che, legittimate dall’elezione diretta, avrebbero assorbito le competenze dei Comuni e gestito altre, delegate dalla Provincia: un processo di decentramento da una parte e di accorpamento/razionalizzazione dall’altra. Si sono invece mantenuti i Comuni con la loro frammentazione, e i Comprensori (ribattezzati Comunità di Valle) con la loro delegittimazione (dura e questa volta vittoriosa è stata la battaglia dei diessini contro l’elezione diretta); le nuove competenze, quando saranno cedute dalla Provincia, andranno ad enti di cui tutti temono disastrosi malfunzionamenti, e che in ogni caso, di sicuro, non avranno legittimità democratica.
Avremo quindi una moltiplicazione del personale, politici e pubblici dipendenti, per di più a costi unitari aumentati a dismisura: e intanto, in parallelo, il margheritino Amistadi faceva approvare aumenti più che consistenti degli appannaggi degli amministratori locali.
Risultato: il centrosinistra ha dato il peggio di sé, dando vita a un’architettura istituzionale barocca, dall’improbabile funzionalità e dai sicuri maggiori costi.
Il peggio però doveva ancora venire. Questo quadro generale rischia di dare il via a un processo di scollamento, in cui i potentati locali agiscono secondo logiche proprie.
E’ appunto il caso della Rendena, in cui i centri maggiori (Pinzolo innanzitutto, territorio del diessino on. Olivieri) vogliono staccarsi dalle Giudicarie; le quali (supportate dal consigliere margheritino Amistadi) sono contrarie, come contrari sono la maggioranza dei sindaci della stessa Rendena (che è cosa diversa dalla maggioranza della popolazione). In questo contesto è evidente che tutto dipende da chi si fa votare: i sindaci, la popolazione, con quali maggioranze, quali quorum, ecc. A decidere se si deve votare, chi, come, su che cosa, è la Giunta Provinciale (cioè DS e Margherita) in accordo con il Consiglio delle Autonomie (l’organo di rappresentanza dei sindaci, diciamo pure la loro lobby– sempre impegnato a rivendicarne più prebende - egemonizzato dalla Margherita).
In questo scenario lo scontro tra le fazioni, risoltosi per ora, di fatto, con un rinvio.
Quello che sconcerta non è la lotta politica, non sono le discussioni anche aspre su un assetto istituzionale/territoriale.
Sconcerta la frammentazione dei problemi, lo scontro di tutti contro tutti, il progressivo venir meno di punti di riferimento condivisi.
Il problema vero è l’emergere di un Trentino polverizzato in potentati locali. E qui arriviamo alla Margherita, intesa come progetto politico: "territoriale", si diceva, fondata sugli amministratori locali, e unificata dal leader Lorenzo Dellai. Ma dopo otto anni il giocattolo è ai limiti della rottura: i localismi li si è solleticati, ma alla loro domanda di fondo (quale sviluppo per le valli nel 2000) non si è data una risposta adeguata; e allora il localismo si incancrenisce, Dellai è il leader che perde il congresso, il quadro non tiene più.
Anche perché, dall’altra parte, la sinistra, cioè l’alleato che doveva portare la cultura del decentramento non localista, ha abdicato al suo ruolo; anzi, è diventata essa stessa localista nel senso più ristretto del termine, con i DS che sono il partito di Castel Condino, o di Pinzolo.
Siamo troppo pessimisti? Ne saremmo contenti. Ma tra gli attuali attori non vediamo consapevolezza dei problemi.