Officine del sapere o cattedrali del lavoro precario?
Il Mart è ormai un grande museo europeo. Ma la sua organizzazione interna dà adito a molte critiche.
Che cosa diventerà il Mart? In quale direzione si svilupperà l’istituzione culturale trentina più recente e più dotata di mezzi? E’ rassicurante poterselo chiedere a ridosso del successo di pubblico della recente mostra della collezione Phillips, che ha dimostrato senza margini di dubbio le enormi potenzialità della macchina espositiva.
Il Mart è oggi quello che i suoi detrattori, ma anche una parte dei suoi sostenitori, ritenevano non potesse diventare, uno dei più affermati nuovi musei in Italia e in Europa. Discutere di dove sta andando, finalmente, non può apparire a nessuno un gioco di guerra contro un progetto esposto ai venti alterni della politica e bisognoso di protezione, come è accaduto spesso nei quindici anni e più della sua storia.
E’ un fatto importante che a interrogarsi sulle prospettive non sia solo qualche voce critica, ma in primo luogo il corpo vivo del museo, l’area delle persone che vi operano concretamente.
La serie di iniziative promosse recentemente dai lavoratori del Mart, supportate in particolare dalla CGIL, non deve essere interpretata solo come il segno di una "normale" dinamica sindacale, e già sarebbe molto in una situazione nella quale i rapporti di lavoro sono estremamente frammentati e diversificati. Al centro della questione sollevata sta la fisionomia presente e futura del nuovo museo e, per certi aspetti, di tutto il sistema delle istituzioni culturali: sottovalutarne ulteriormente la portata, eludere una risposta politica complessiva avrebbe implicazioni rilevanti e durature.
Di cosa si tratta, in sostanza? Il Mart e, con modelli diversi, gran parte delle altre istituzioni museali del nostro territorio si configurano come moderne officine del sapere, luoghi di ricerca e di produzione. Il dinamismo che ha caratterizzato in questo senso gli ultimi due decenni non è stato ancora valutato appieno dagli stessi responsabili politici e burocratici: l’impianto del disegno di legge provinciale sulla cultura e il relativo dibattito non sembrano, ad esempio, tenerne conto.
Nei musei cresce e si moltiplica il patrimonio, lo si conosce e valorizza con una progettualità intensa che coinvolge numerosi giovani studiosi in formazione. Si sviluppa un’attività editoriale spesso di elevata qualità, non sempre conosciuta e promossa su vasta scala quanto sarebbe necessario. In spazi spesso insufficienti, nelle condizioni più varie, le sedi delle nostre istituzioni sono state e sono il luogo nel quale studenti motivati, laureati con forti vocazioni scientifiche, ricercatori affluiti anche da altre regioni hanno trovato occasioni per un lavoro qualificato. Un lavoro alimentato di solito da risorse finanziariamente molto contenute, rispetto ai bilanci complessivi: un grande spettacolo che si propone per un paio di sere può costare quanto quattro ricercatori per un anno, per fare un esempio grossolano ma indicativo. Non parliamo della dismisura tra il costo degli eventi espositivi, in particolare nel caso del Mart, e l’investimento nei progetti di ricerca che dovrebbero costituire il retroterra vitale dell’ attività. La disponibilità di lavoro intellettuale a basso costo è una risorsa e un incentivo, per il sistema delle istituzioni culturali, e viceversa, la presenza di una rete culturale fitta come quella esistente in Trentino rappresenta uno snodo preziosissimo tra formazione e lavoro, nonché uno sbocco lavorativo di qualità. Ragionando sulla produttività dell’investimento culturale, abbiamo avuto sempre presenti in particolare le potenzialità di questo intreccio.
Quello che sta accadendo –e non si tratta certo di una questione solo locale- mette a nudo tuttavia il rovescio della medaglia. Si dilata a dismisura un’area di lavoro precario che non viene nemmeno riconosciuto pienamente come tale. Funzioni "ordinarie" e comunque vitali nell’organizzazione delle istituzioni vengono affidate a collaboratori a basso costo, senza diritti né garanzie di continuità.
Riprendiamo la descrizione del quadro organizzativo, per quanto riguarda il Mart, dall’eccellente articolo pubblicato da Roberto Antolini nel numero 1 del 2005 di "Attività sindacale", periodico della CGIL del Trentino. Rispetto ad un organico attuale di 29 dipendenti (compresi la direttrice e il responsabile amministrativo), vi sono una trentina di lavoratori "atipici", con rapporti di lavoro a vario titolo, quasi tutti a tempo pieno. "In più ci sono, esternalizzati, tutti gli operatori della custodia (38 persone che turnano su tutta la settimana) e 8 operatori didattici. Come si vede, si può ben dire che l’organizzazione del lavoro è basata molto più sul lavoro ‘atipico’ che sul tradizionale lavoro dipendente. Quest’ultimo è collocato, nell’organigramma del personale, in parte in funzione di coordinamento e controllo sui vari settori (…), massicciamente nell’ufficio amministrativo – che non conosce lavoro atipico", oltre a qualche unità nell’ufficio tecnico e altri settori. Questa riduzione all’osso dell’organico stabile potrebbe essere scambiata per una soluzione agile ed efficiente, se non si tiene conto degli aspetti gravemente negativi che caratterizzano la condizione degli ‘atipici’".
Solo per inerzia linguistica continuiamo ad usare il maschile: si tratta in buona parte di donne, e va sottolineato non solo per rispetto del dato di fatto, ma anche per segnalare la pesantezza, nel loro caso, di un’antica discriminazione.
Si tratta quasi sempre di trentenni, per le quali l’eventuale e naturale scelta di diventare madri significherebbe la nuda e cruda conclusione del rapporto di lavoro. Al di là di una significativa questione ‘di genere’, vale per tutte e per tutti l’estrema rarità di un percorso ascendente. Per restare alla tipologia delle ricercatrici, il rapporto con il museo è spesso partito con una borsa di studio, trasformatasi alla conclusione in una collaborazione coordinata e continuativa.La sua prosecuzione è affidata a decisioni delle quali ignorano, loro come tutti, gli eventuali criteri. Di concorsi pubblici per il passaggio nell’organico ce n’è stato uno, recentemente, per due posti cui concorrevano centinaia di candidati. La selezione è avvenuta attraverso uno di quei terrificanti quizzoni cui si è ridotto universalmente l’accertamento delle conoscenze e delle attitudini. Risultato: tre soli ammessi alla seconda parte del concorso, senza nemmeno la possibilità di formare una graduatoria "pro futuro".
I titoli e il servizio prestato non hanno avuto, in questo quadro, alcun riconoscimento: agli occhi delle persone che operano nel museo ormai da molti anni, un’ ulteriore conferma della scarsa rilevanza di quello che stanno facendo. Ci sono chiari segnali, a questo punto, di una fuga verso situazioni più protette, a cominciare dalla scuola.
Una chance alternativa, peraltro, non più a portata di mano come un tempo. Una tendenza come questa dovrebbe preoccupare in primo luogo il museo e chi ne ha a cuore le sorti. L’interruzione del rapporto non appare in molti casi come una virtuosa o comunque opportuna mobilità, ma come una grave perdita delle esperienze e delle conoscenze accumulate, come il cattivo uso di un investimento.
Scrive ancora Antolini, nella parte conclusiva del suo articolo: "In queste condizioni la forma presa dal progetto Mart realmente esistente, che pure ha dimostrato di saper mettere in moto uno straordinario accumulo di giacimenti culturali, rischia di mancare sul fronte più importante, quello della moltiplicazione delle energie creative e produttive (…). Per questo diventa importante andare ora davvero ad una ‘verifica di progetto’, puntando a correggere le storture che rischiano di vanificarne gli aspetti potenzialmente positivi da un punto di vista economico-sociale. E prima questione da affrontare è senza dubbio quella della precarietà/stabilizzazione, quella della necessità di una organizzazione del lavoro nella quale le potenzialità di conoscenze, professionalità, creatività lavorativa vengano concentrate e moltiplicate, si consolidino in giacimento, parallelamente alle collezioni d’arte".
In questa logica, il sindacato chiede oggi alla Provincia di consentire un allargamento della pianta organica, derogando dal blocco in atto. Si tratta di correggere un grave squilibrio e di favorire un ripensamento dell’organizzazione del museo che è senza dubbio urgente.
Da parte nostra vogliamo aggiungere due altre urgenze, che riguardano innanzitutto la politica della cultura. La prima è la necessità che in tutto il sistema delle istituzioni che operano nel nostro territorio si definiscano criteri e regole per quanto riguarda la condizione dei ricercatori e dei collaboratori precari, che non mortifichino la ricchezza delle esperienze in atto, ma che estendano diritti e riducano disparità.
La seconda è che si rilancino le "officine del sapere", investendo in misura molto più consistente dell’attuale in progetti di ricerca spesso esibiti ma non sempre concretamente sostenuti. Ma di questo contiamo di parlare in un prossimo intervento su quello che diventerà il Mart "da grande".