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QT n. 21, 7 dicembre 2007 Monitor

“Ratatouille”

Un vivace film d'animazione (più che mai, per grandi e piccini) sull'... eno-gastronomia. Ma non solo: sul dialogo tra diversi, sul ruolo della critica, sulla civile importanza del gusto.

Come tutti i lavori della Pixar, anche "Ratatouille" è un film con un ottimo ritmo e dei bei personaggi. E’"disegnato" benissimo, con un gusto per i dettagli che lascia meravigliati. Come tutti i lavori della Pixar, il film di Brad Bird si presta a molteplici letture, che lo fanno piacere sia ai bambini sia agli adulti. La prevalente tra le letture adulte di "Ratatouille" ha a che fare con l’eno-gastronomia. E’ pensata soprattutto per i grandi, infatti, la satira sulla cucina francese, sui (pilotati) meccanismi del gusto, sulle autorità che conferiscono pagelline e delle stellette.

La storia racconta di Remy, un topo che, contrariamente alla filosofia della sua specie, sviluppa un forte e raffinato senso del gusto. Per i topi, in teoria, il cibo è solo un carburante: va bene qualsiasi cosa offra la pattumiera. Remy scopre invece la gioia degli abbinamenti, le sorprese che nascono dalla scoperta di nuovi ingredienti. Si mette in testa di cucinare. Perché se – come dice Feuberbach, citato senza citarlo nel film – siamo quel che mangiamo, bisogna prestare attenzione a ciò che ci nutre. Per Remy, la scelta dei cibi può aiutare ad essere diversi, migliori. Remy riconosce una comunanza: l’uomo, come gli altri animali, si mantiene in vita mangiando. Si mette quindi in testa di colmare un gap che è solo culturale, mostrando: agli umani, che anche i topi hanno senso estetico e amore per il buono; e ai topi, che si può mangiare meglio, senza ingurgitare. A partire dal cibo, Remy arriva dunque a teorizzare un nuovo dialogo tra specie che sappia essere più fruttuoso rispetto al passato delle relazioni tra uomini e topi.

Per scoraggiare l’apertura auspicata da Remy, suo padre lo porta davanti a una vetrina che espone trappole per topi. Si vedono le vittime appese, imbalsamate. E si possono osservare le decine di strategie escogitate dall’uomo per tener lontani gli animali infestanti.

L’ambientazione parigina di "Ratatouille" è precisa e corretta: quella vetrina, a Parigi, esiste davvero, in una via del Marais. Gli animali molesti, però, in prevalenza, più che topi sono i tremendi cafard, gli scarafaggi rossastri, fotofobici, che nella Ville Lumière si sentono di casa un po’ dappertutto.

Va detto che la scena in cui i topi prendono possesso della cucina e si dividono in gruppi per preparare i piatti, pur allegra, ha delle vene di inquietudine: la sequenza spinge il racconto un po’ oltre gli innocui antropomorfismi alla Walt Disney per arrivare dalle parti delle bestie intelligenti di Kafka, o del racconto di Lovecraft "I topi nel muro": storie in cui gli animali finiscono per dominare, o per far impazzire. In "Ratatouille", i topi animati non diventano del tutto "carini", ma conservano tratti dello schifo che suscitano nella realtà. Quando l’amichetta di Remy scopre che i topi han preso possesso della cucina, che la infestano, ha un conato di vomito.

Sono le piccole spinte con cui "Ratatouille" sembra portare avanti con intelligenza la causa della trattativa anche con chi ci ripugna. Il dialogo tra specie è una delle cose più carine, e pedagogiche, del film. I topi sono animali invasivi, ma "Ratatouille" sembrerebbe in qualche modo indiretto invitarci a sopportare l’idea che alla fin fine dobbiamo, volenti o nolenti, rassegnarci all’invasione. Mostra che si può dialogare, andare d’accordo, trovare interessi comuni con tutti.

Una delle figure più belle del film è il critico gastronomico Anton Ego. Fisicamente, come volto, è un incrocio molto riuscito tra De Gasperi, Andreotti e un vampiro. La sua è una penna influentissima nel settore della ristorazione. Una sua stella in più o in meno ha per conseguenza la fortuna o il fallimento di un esercizio. E infatti l’idolo di Remy, Gusteau – cuoco democratico, autore del libro "Tutti possono cucinare" –, si suicida in seguito ad un declassamento subito. E’ molto carina la riflessione accennata sul ruolo del critico. Ego verrà conquistato da un piatto molto semplice, contadino, che produce nella sua mente un effetto-madeleine, precipitandolo nei ricordi d’infanzia. La sua tetra, ruvida altezzosità di critico viene annientata dall’emozione. Ego scriverà che il ruolo della critica non è tanto quello di definire mediocre questa o quell’altra cosa, ma di aiutare il nuovo, se è bello, ad affermarsi. Altra affermazione adulta, condivisibile.

In "Ratatouille", quindi, il "siamo quel che mangiamo" di Ludwig von Feuerbach da affermazione materialista diventa un elogio estetico che ci invoglia a dare importanza a quel che abbiamo nel piatto. La passione di Remy, che cucina, ma anche di Anton Ego, che mangia e scrive, sono un apprezzabile invito a liberare le proprie passioni. Il fare, o l’amare quel che qualcuno ha fatto di buono, sono tra le cose intorno alle quali vale la pena educare, spendere discorsi.

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