Il turismo che vorremmo
Alla ricerca di uno sviluppo compatibile. Università e SAT si interrogano sul rapporto fra turismo e montagna.
Il rapporto con la montagna è – o meglio, dovrebbe essere – centrale in una regione alpina come il Trentino. Eppure, a parte gli spot delle pubblicità elettorali, a parte il folklore riversato in ogni occasione a piene mani, non è così. La montagna sembra tutt’al più interessare la cultura, come dimostrano il Festival oppure in questi mesi il Mart, ed essere invece percepita come un impaccio per l’economia. L’orografia è un ostacolo alle comunicazioni, all’agricoltura estensiva, ai grandi insediamenti. I pendii ripidi possono servire solo per l’industria del turismo invernale, che non a caso è pericolosamente diventata monocultura in alcune valli.
Secondo noi questa impostazione è sbagliata, soprattutto perché oggi è possibile giocare la specificità alpina non più come limite, bensì in positivo; far diventare cioè il territorio di montagna come quello dove si coltiva la qualità dei prodotti, la naturalità dell’ambiente, il benessere complessivo.
Questo però implica un radicale cambiamento nell’approccio a tutta una serie di problemi, per il quale il territorio alpino è solo una variante povera di quello padano. In tale ottica affrontiamo in queste pagine il controverso problema del turismo, come emerso da un recente convegno organizzato da Università e Sat; e a seguire, le problematiche legate ad una gestione moderna, non più rinunciataria, del bosco e delle foreste (La nostra seconda casa, sempre più trascurata).
Il 28 gennaio scorso si è svolto a Rovereto, presso la sala convegni del MART, un convegno dal titolo "La montagna come luogo di salute e benessere. Turismo e sviluppo compatibile".
L’iniziativa, nata dalla collaborazione tra l’Università di Trento, il CEBISM (Centro Universitario di Ricerca in Bioingegneria e Scienze Motorie) e la SAT, si presentava come discussione sulla evidente "crisi dei modelli turistici tradizionali, basati prevalentemente sullo sfruttamento e la manipolazione del territorio, sulla intensificazione dei flussi e sulla rapidità della fruizione" per contrapporre, come si legge nel titolo, "un nuovo rapporto uomo-territorio incentrato sul benessere, la salute, lo sviluppo compatibile".
Il convegno, che non è stato supportato da una adeguata pubblicità, sottovalutato dai mass media e posto in una giornata, un mercoledì, non proprio adatta a favorire la partecipazione, ha in verità registrato un numero di presenze davvero straordinario, con tanti giovani rimasti fino a pomeriggio inoltrato: segno evidente dell’interesse particolarmente forte per queste tematiche. Se vogliamo, un primo risultato - e forse il più significativo - è proprio questo: le problematiche legate allo sviluppo turistico del Trentino ed allo sfruttamento dell’ambiente trovano attenzione e preoccupazione in larga parte della società trentina, al di là delle semplificazioni e delle operazioni di "silenziamento" sceneggiate dagli attori politici.
Ma il convegno è riuscito a proporre soluzioni "compatibili" a queste preoccupazioni? La risposta non è facile.
In primo luogo bisogna ammettere che i temi proposti non rappresentavano, presi singolarmente, delle novità; interessante se vogliamo era l’idea di fornire agli amministratori ed agli operatori economici e culturali strumenti interpretativi e di analisi in grado di far capire come la necessità di una diversificazione delle zone di sviluppo, unita ad una particolare attenzione alle situazioni cosiddette di nicchia, non provenga da considerazioni di semplice buon senso ma, come evidenziato dall’economista Michele Andreaus (dell’Università di Trento), poggi su serie analisi degli investimenti in infrastrutture turistiche.
Concetti, questi, ripresi ed ampliati da Bruno Zanon (docente di Ingegneria a Trento), che ha sottolineato come il turismo rappresenti, nelle economie dell’arco alpino, lo sviluppo successivo ai processi di industrializzazione e sia diventato per il Trentino il traino di una economia forte ma che pone altrettanto forti problemi; bisogna fare i conti con uno sviluppo disordinato e concentrato in pochi ambiti (Fassa, Rendena, Val di Sole) portatore di effetti dirompenti come quello delle seconde case e delle presenze turistiche concentrate in ristrettissimi periodi dell’anno. Uno sviluppo che condiziona i fondovalli trentini sottoposti a interventi viabilistici sempre più pesanti.
Ma facciamo un passo indietro ed andiamo ad osservare un po’ meglio il territorio trentino ed i suoi abitanti: il convegno infatti, dopo i saluti di rito, si apre con alcune relazioni, come quella di Paola Giacomoni o di Annibale Salsa, che in brevi ma efficaci pennellate abbozzano la storia, ed introducono al rapporto tra uomo e montagna: è in questo senso che emerge poi, anche storicamente, il ruolo della SAT, in costante ricerca per individuare un possibile equilibrio tra lo sviluppo economico delle vallate e la tutela dell’ambiente montano, equilibrio da tempo pericolosamente incrinato e che ora riceve ulteriori compromissioni, come l’esemplare vicenda della Val Jumela (ma non solo) insegna.
Ma è proprio qui, in questa specie di nodo gordiano fra tutela dell’ambiente e sviluppo economico, che il convegno segna il passo.
Lodevoli e senza dubbio esemplari i modelli e le esperienze di sviluppo sostenibile proposti nella sessione pomeridiana, come "L’albergo diffuso in Friuli" che rompe il tradizionale concetto di albergo stesso distribuendolo sul territorio. Il tentativo sta non solo nel cercare un nuovo rapporto tra la popolazione e il turista, così da proporre un reale contatto con la cultura locale, ma anche nel portare in zone decentrate, dove si è rotto il ciclo economico, nuove possibilità di sostentamento.
Allo stesso modo deve essere letta l’esperienza delle "Zone di silenzio", realtà di sviluppo diverso nella Zillertal (Tirolo), presentata da Martin Schachner, che con l’istituzione dell’Hochgebirgs Naturpark Zillertaler Alpen tenta la conservazione di alcune aree di un territorio sottoposto ad un forte impatto determinato in particolare dal turismo invernale.
Il termine "Zone di silenzio" deriva dal carattere di riserva totale, che vieta la costruzione di strade, case, la pratica dell’eliski, ecc. e cerca invece di sviluppare tutte quelle attività culturali o ricreative che promuovano una fruizione "lenta" della montagna, capace anche in questo caso di far incontrare il turista con la popolazione locale senza che quest’ultima si trasformi in prodotto di consumo. Significativo ci appare che a questa iniziativa abbia partecipato, a pieno titolo, l’Österreichischer Alpenverein, il club alpino austriaco.
In entrambe le esperienze si punta a valorizzare territori turisticamente (economicamente) meno sviluppati, specchio di fatto di molte località del Trentino: sono in effetti questi i luoghi dove bisogna agire con maggior attenzione e prudenza.
Negli ultimi anni si è assistito in provincia di Trento al continuo rilancio, finanziato in modo massiccio dall’ente pubblico, delle località più blasonate, cui si aggiunge la rincorsa affannosa delle località minori, tentate di copiare soluzioni che non danno garanzie di successo ovunque. Tutto ciò comporta da un lato concentrazione turistica in poche zone e dall’altro perdita di specificità, scomparsa di figure economiche e sociali legate alle attività tipicamente alpine; quindi, in definitiva, l’impossibilità di un reale contatto con la cultura delle popolazioni residenti.
Complice di questa moltiplicazione in fotocopia è senza dubbio il modo dell’informazione: Enrico Camanni punta il dito verso l’informazione sulla montagna e l’alpinismo, dove i grandi media non riescono ad individuare "la notizia" se non in caso di tragedie e grandi calamità. Il concetto di turismo sostenibile infatti mal si accoppia ad un consumo di tipo rapido che esige uno sviluppo senza limiti: la montagna in particolare porta dentro di sé l’immagine della staticità, della lentezza, cioè l’esatto contrario di quanto occorre per attirare l’attenzione dei media.
Senza dubbio si deve convenire con Paolo Tosi e Umberto Martini quando si individuano soluzioni che partano dalla base, che prevedano insomma particolare attenzione alla formazione di mediatori, come è stato il caso del "Corso di specializzazione sulla didattica della attività alpina" rivolto alle Guide alpine, o della proposta di laurea triennale in marketing turistico rivolto a chi già lavora nel settore turistico, o ancora del corso di laurea specialistica in economia e gestione dell’ambiente e del turismo. Lo scopo è quello di portare alla consapevolezza che esistono diversi modi di vedere il turismo, soprattutto con nuovi parametri non solo attenti al bilancio economico (non sempre rappresentativo), ma capaci di muoversi verso nuove prospettive.
Come si concretizza tutto ciò? Ritorniamo alla domanda di prima: qual è il rapporto corretto tra sviluppo economico e tutela dell’ambiente? E insomma, come arrivare ad uno "sviluppo compatibile"?
Poco tempo fa, su questo stesso giornale, una lunga e bella recensione di Silvano Bert al volume Lo sviluppo insostenibile (a cura di P. Greco e A. Pollio Salimbeni, Mondadori, 2003) ricordava tra le altre cose come "il concetto di sviluppo sostenibile nasce nell’ambito delle Nazioni Unite nel 1987", quando si prende atto che "il futuro di tutti noi dipende da uno sviluppo economico di tipo nuovo: da uno sviluppo sostenibile". Eccoci al nucleo del problema: questo tipo di sviluppo si rende necessario - inevitabile si può ben dire - non solo per le Alpi, ma per tutto il pianeta. Non servono dimostrazioni per dire che la direzione intrapresa è invece in senso contrario e tale indirizzo è stato abbracciato anche in Trentino, piaccia o meno, in contraddizione con le enunciazioni del Manifesto delle Alpi della Regione europea Trentino - Alto Adige - Tirolo, sottoscritto tre anni fa a San Michele dai presidenti delle giunte provinciali di Trento, Bolzano e dal Capitano del Tirolo.
La dimostrazione di quanto sia difficile intraprendere una strada diversa viene proprio da questo convegno: nell’intenzione degli organizzatori esso rappresenta un primo passo, un momento di partenza per una riflessione più ampia, che non vuole restare ferma alle enunciazioni di principio, consapevole che esistono limiti ambientali, economici, sociali ed etici al modello attuale e che questi limiti impongono azioni concrete, tempestive ed efficaci.
Ma questa consapevolezza, testimoniata dagli interventi dei relatori non è un patrimonio condiviso all’interno della società trentina. Il problema è emerso con chiarezza nella tavola rotonda conclusiva del convegno, eccessivamente affollata ed un pochino imbalsamata e priva di reale contraddittorio.
Le idee e i concetti espressi dai rappresentanti delle istituzioni ed associazioni di categoria a fine convegno, nello spazio di poco meno di due ore, smontano pezzo per pezzo tutto quello che era stato onestamente costruito nell’arco della giornata. Anzi, viene contraddetto: i partecipanti, a parte Camanni, il presidente del Parco Adamello Brenta, Zulberti e Federico Schena - che nel corso della mattinata aveva evidenziato, riferendosi al "Progetto Sentieri Vivi", le possibilità che il camminare in montagna potrebbe offrire in un’ottica di offerta turistica mirata al benessere fisico - sembrano ignorare il percorso fin qui svolto limitandosi a difendere ed a riproporre il modello attuale di "sviluppo insostenibile".
Significativo in questo senso l’intervento del rappresentante dell’Associazione Albergatori che pone forti dubbi sulla convenienza economica di progetti e prospettive "diversi" che a suo dire si reggono solo attraverso l’appoggio finanziario della Provincia: come se l’attuale modello di sviluppo non richiedesse continui e consistenti apporti di capitale pubblico (103 milioni di euro le prime due delibere del nuovo assessore al turismo per finanziare impianti e piste); e quello del rappresentante dell’Associazione industriali, a difesa degli impiantisti, che usa il suo intervento per sottolineare come in rapporto alla superficie totale del Trentino gli impianti di risalita occupino in fondo solo una percentuale minima, al di sotto dello 0,3%.
Il dato è vero, ma è vero anche che per sfruttare quello 0,3% si sottopone il resto del territorio ad una pressione formidabile; sono stati dismessi impianti ed abbandonate piste, ma è però aumentata in modo esponenziale la capacità oraria degli impianti rinnovati e ampliate le piste esistenti (altre sono in corso di realizzazione), si intraprendono opere di ampliamento dei demani sciistici anche nei parchi, che mettono serie ipoteche su possibili utilizzi diversi ed a basso impatto di ambienti pregiati.
Ha colpito il fatto che le nuove esperienze, le nuove strade indicate come percorribili, siano state considerate, dagli esponenti del "turismo ricco" come proposte povere, marginali, senza nessuno sforzo per intravederne le prospettive. Ecco, almeno in queste occasioni qualcuno avrebbe dovuto intervenire; pur rimanendo all’interno di un dibattito che voleva evitare di scivolare nelle fangose considerazioni politiche e rimanere invece in ambito scientifico. Proprio quella era la sede in cui bisognava spendere qualche minuto per spiegare cosa si intende con il concetto di limite delle risorse, di "impatto ambientale", di costi sociali e di quanto questo abbia a che fare con il turismo e lo sviluppo compatibile.