Lo sviluppo insostenibile
Pietro Greco - A. Pollio Salimbeni, Lo sviluppo insostenibile dal vertice di Rio a quello di Johannesburg, Bruno Mondadori, 2003, pp.200, € 13.
Scovo questo libro in biblioteca il giorno in cui, sul Trentino, Enrico Pucci, il notista politico, decide di insegnare alla sinistra come si è di sinistra. Impresa legittima, in cui si arrovellano molti, con impegno creativo. E’ il 23 di novembre, e il giornalista è preoccupato per le prospettive che si annunciano nella provincia di Trento, dove pure le elezioni sono state stravinte dalla coalizione ulivista. Alla sinistra suggerisce pertanto, ottima cosa, di adottare un linguaggio normale per farsi capire. Incominci con il "mandare finalmente in soffitta gli slogan di una politica perdente", come "lo sviluppo sostenibile" e "il trasferimento del traffico dalla gomma alla rotaia". Così scrive Pucci, uno che solitamente le parole le pesa.
Ohibò, che vittoria sarebbe - mi dico io - quella conquistata nel nome dell’asfalto e dell’auto, del catrame e del cemento? "Sosterrebbe", ecologicamente, il pianeta altre piante tagliate, altra gomma che frigge, altro petrolio, altro carbone, altri rifiuti che bruciano? Ci siamo già dimenticati di quanto il clima era caldo, insostenibile, l’estate passata? E il mondo, quello condannato al sottosviluppo dai nostri consumi, "sosterrebbe", socialmente, la nostra rapina di energia, al buon prezzo di sempre? Così leggo il libro, dedicato allo "slogan da mandare in soffitta", ricco di dati, spiegati con cura, anche a chi non è specialista.
Certo, se per avventura gli assessori in Provincia, Silvano Grisenti (ai trasporti e alle opere pubbliche) e Mauro Gilmozzi (all’ambiente e all’urbanistica), s’imbarcassero nella lettura di un volume siffatto, "Lo sviluppo insostenibile", ne uscirebbero inorriditi. E increduli, innanzi tutto. Eppure, a scriverlo, sono due autorità nella divulgazione scientifica: Pietro Greco, giornalista de l’Unità, dirige il Master in Comunicazione della Scienza presso la Sissa a Trieste, Antonio Pollio Salimbeni è corrispondente da Bruxelles, cioè dall’Europa, per Il Sole 24 Ore, il giornale della Confindustria italiana. Confusi uscirebbero certo anche gli assessori della sinistra, già oggi, per governare, realisti come si deve, e minacciati per giunta dai suggerimenti dei tanti medici chini al suo capezzale.
Ma i cittadini elettori come uscirebbero? Gli indifferenti: quelli che inforcano l’auto per andare a comperare il giornale, e lasciano televisione e computer in perenne posizione di stand - by. Ma anche quelli che difendono i fiori e gli uccelli dai cacciatori, con parole tonanti, ma insultano senza pietà il Comune di Trento quando tenta, timidamente, di respingere l’assalto alla città portato dall’esercito dei troppi cavalli d’acciaio.
Nel libro è preso di petto il classico dilemma in cui siamo cresciuti: o cresce l’economia, il nostro benessere, o difendiamo la natura, l’ambiente. Tertium non datur. Come può una nazione assumere l’iniziativa della tutela ambientale se questa comporta la messa in discussione del proprio modello di sviluppo e di consumo? Quando il presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, alla conferenza sull’ambiente di Rio de Janeiro del 1992 affermò che "il nostro modello di sviluppo non può essere oggetto di negoziato", si dimostrò lucidamente consapevole che la "sostenibilità" è sia ecologica che sociale. Dieci anni dopo è il ministro della difesa, Donald Rumsfeld, interrogato su quando la guerra al terrorismo potrà dirsi vinta, a proclamare: "Sarà vittoria se tutto il mondo accetterà che noi americani possiamo continuare a vivere con il nostro stile di vita".
La tesi degli autori è che esiste un rapporto stretto tra produzione e ambiente. Già i Greci sapevano che economia ed ecologia hanno la stessa radice etimologica: scienza della gestione della casa, scienza della gestione dell’ambiente. Ma è dopo la rivoluzione industriale che il rapporto diventa ineludibile. Spesso l’Onu è posta sotto accusa per la sua inefficienza, ma senza la sua opera, con le conferenze di Rio (1992), di Kyoto (1997), di Johannesburg (2002), l’umanità non avrebbe maturato quella coscienza dei problemi ambientali comuni che, per la prima volta nella storia, si è diffusa tra masse di milioni di persone. Anche se restano litigiose le circa duecento parti in cui è divisa la crosta terrestre.
Il concetto di sviluppo sostenibile nasce nell’ambito delle Nazioni Unite nel 1987: è la commissione presieduta dalla norvegese Gro Harlem Brundtland ad affermare che il futuro di noi tutti dipende da uno sviluppo economico di tipo nuovo: da uno "sviluppo sostenibile". Ma rispetto a che cosa deve essere sostenibile il nostro sviluppo?
Per millenni il cowboy si è mosso in praterie sterminate: l’acqua, l’aria, l’erba erano risorse inesauribili e gratuite, i rifiuti erano facilmente riciclati, la tecnologia era in grado di fronteggiare ogni problema. Finché siamo vissuti come cowboy, l’economia dell’uomo era "di fatto" ecologicamente sostenibile.
La rivoluzione industriale segna uno spartiacque: da allora la nostra economia è diventata quella dell’astronauta. La navicella spaziale ha scorte finite di cibo, di acqua, di aria. La tecnologia non permette di rinnovare le risorse esauribili.
L’economia umana è oggi cresciuta tanto da coincidere con l’ecologia del pianeta. Due sono in particolare gli equilibri dinamici globali su cui si avverte l’impronta umana: il cambiamento del clima e l’erosione della biodiversità. L’impatto umano sulla biosfera (I) è il prodotto di tre diversi fattori: la popolazione (P); l’affluenza (A), misurata in termini di consumo medio pro capite di beni materiali; e il danno ambientale (T), generato dalle tecniche necessarie a produrre i beni materiali consumati. In una formula: impatto ambientale = popolazione * affluenza * tecnologia, ossia: I = P *A * T.
A lungo si è pensato, e in molti ancora pensano, che il mercato, con la sua mano invisibile, riesca a mantenere l’equilibrio fra economia dell’uomo ed economia della natura. Ma già nel 1877 Karl Moebius osservò che lo sviluppo delle ferrovie in Germania aveva ampliato a dismisura la raccolta delle ostriche nei fondali dell’Holstein, mettendo in crisi la loro capacità riproduttiva. La razionalità degli agenti economici e il gioco dei prezzi "non avevano operato nel senso di una buona gestione delle risorse".
Kiribati è un piccolo arcipelago sperduto nel Pacifico, dove gli indigeni vissero per secoli in un’economia di sussistenza. Divenuto colonia, si trasforma d’incanto in una rigogliosa economia di mercato, quando gli inglesi vi scoprono i fosfati nel sottosuolo. Ma i capitali si esauriscono anche nella banca della natura se tutti corrono a prelevare e nessuno si cura di ripristinare. Kiribati sperimenta, negli anni settanta del Novecento il crollo della depletion, l’esaurimento delle risorse a causa di uno sfruttamento cieco e incontrollato. E poi la catastrofe della pollution, l’inquinamento del suo ecosistema. Diventa un caso da manuale di ciò che può diventare l’intero pianeta.
Quando l’umanità pretende di vivere da cowboy nell’era dell’astronauta, il rischio che uomo e natura corrono insieme è gravissimo. Nella navicella, unica e stretta, il "peso ecologico" dei viaggiatori non è però uguale. Un solo americano è responsabile dell’emissione di gas serra quanto 19 indiani, 107 cittadini del Bangladesh, 269 nepalesi. I trenta paesi industrializzati del mondo, nei quali vive soltanto il 18% della popolazione del pianeta e viene realizzato l’80% del prodotto lordo mondiale, rappresentano circa il 50 % del consumo mondiale di energia.
Cinque sono i gruppi di rischio fondamentali. Innanzitutto i rischi relativi all’approvigionamento energetico, poi l’effetto serra, il rischio chimico, i rischi sanitari, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua.
Anche se i rischi sono gravi il principio di precauzione fatica politicamente ad imporsi. Sono cronaca recente i tentennamenti della Russia, e la decisione degli Usa di sottrarsi ai protocolli stabiliti insieme a Kyoto. L’Unione Europea, in particolare la Germania e la Gran Bretagna, sta invece attuando, con fatica, la riduzione dei gas serra.
In Italia l’aumento delle emissioni di anidride carbonica è quasi interamente imputabile al settore dei trasporti, e la difficoltà dei cittadini e delle istituzioni a imboccare una strada diversa dal trasporto privato su strada è sotto gli occhi di tutti, anche in Trentino.
Raffreddare i consumi globali, e quindi individuali, è un’impresa titanica, perché richiede una rivoluzione culturale: considerare la ricchezza delle nazioni non più fondata sul consumismo e sulla crescita dei beni materiali, ma su quella che gli antichi Greci chiamavano eudenomia. Cioè lo sviluppo delle relazioni umane. L’economia cessa di essere un fine e (ri)diventa il mezzo per migliorare la condizione umana.
Nell’ultima puntata di Ballarò, come segnale di ripresa economica, il ministro ha citato la crescita nel consumo di energia elettrica. Nessuno obiettò: né l’imprenditore né il sindacalista, né il politico di destra né quello di sinistra. Per questo lo "sviluppo sostenibile" è un’impresa titanica.
Viviamo in una navicella e ci comportiamo ancora da cowboy. Dovrebbero impararlo Lorenzo Dellai, Silvano Grisenti e Marcello Gilmozzi. Enrico Pucci quando scrive e orienta i lettori. La sinistra quando governa e quando finisce all’opposizione. Ogni cittadino. Ognuno di noi che vive in un angolo minuscolo della navicella comune.