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I meriti del progetto di Renzo Piano

Il nuovo “centro moderno” della città proposto da Piano: la strada è ancora lunga, ci sono problemi di fondo, ma l’avvio è ottimo.

Sergio Dellanna
Renzo Piano, Museo de Menil, Houston.

La pianificazione delle aree lungofiume comprese tra via Sanseverino e la ferrovia costituisce la vera grande sfida urbanistica di questo decennio per la città di Trento, ed il risultato di tale operazione finirà ineluttabilmente per determinarne il destino, ripercuotendosi sulla sua autostima, sulla capacità di progettare ed agire con "coralità", ed in definitiva sulla disponibilità ad affrontare nuove scommesse.

Si tratta dunque di una questione assai importante e non meno complessa, dove si intrecciano problematiche tecniche, politiche ed amministrative che, dopo anni di studi, dispute, concorsi e rinvii, si è alfine imbattuta nell’eccellente professionalità di Renzo Piano. Il "maestro", al solito elegante, concreto e convincente, ha conquistato anche i più scettici (tranne, forse, i "lamentoni" di abitudine), facendo sbocciare un amore a prima vista.

Eppure, il successo mediatico non inganni, la strada è ancora lunga. Proviamo ad analizzare il problema con un po’ di pazienza.

Anzitutto va ribadita l’importanza di una simile operazione: la riconversione del lungofiume tra l’Adige e la ferrovia costituisce un’occasione straordinaria di riorganizzazione e rilancio della città di Trento. Si può in questo senso affermare senza timore di smentita che si tratta, pur nelle debite proporzioni, di una delle più spettacolari partite di trasformazione urbana che si stanno giocando oggi in Italia (si evidenzia per contro l’aleatorietà della celebrata operazione d’interramento della ferrovia - vedi Ferrovia interrata, il grande progetto -, ad oggi priva di un credibile progetto di sostenibilità economica e dunque irrealistica).

Renzo Piano, Stazione della metropolitana di Genova.

Va poi rimarcato il particolare significato che questo comparto urbano riveste per la città nel suo complesso: tralasciando aspetti pur rilevanti di natura ambientale o infrastrutturale, ciò che lo rende unico e dunque strategico va ricercato nella sua eccezionale contemporanea "alta visibilità" dalle due vie di trasporto internazionale che scorrono in Valle dell’Adige (ferrovia e autostrada), lungo la più importante direttrice europea attraverso le Alpi.

In termini di marketing urbano si tratta di una formidabile opportunità, in quanto conferisce a tale luogo la possibilità di rideterminare la percezione della città (della sua immagine) da parte di milioni di persone che vi transitano annualmente, consentendo di riflettere, accanto ai già conosciuti valori storici ed ambientali, l’impronta della sua "modernità", la traccia dell’aspirazione e della capacità della città di intraprendere le nuove sfide della qualità nella competizione economica tra territori.

E’ evidente che una simile occasione meritava il reclutamento di un interprete eccezionale del progetto urbano ed architettonico. In questo senso la scelta di Renzo Piano, una "firma" di livello mondiale, per quanto un po’ tardiva è indubbiamente ottima ed encomiabile.

Rimane infine da affrontare un altro tema alquanto ostico: le modalità di gestione pubblica dei processi di trasformazione urbana.

E’ assodato che una serie di fattori, quali la contrazione dei bilanci pubblici in epoca di riduzione della pressione fiscale, la scarsa "attitudine" del pubblico nel fare intrapresa, la dinamica del mercato dei suoli, le difficoltà legali e finanziarie nei programmi di esproprio, contribuiscono a rendere improponibile per il futuro un massiccio intervento pubblico nelle operazioni di trasformazione urbana, in Italia come altrove.

Si può dunque affermare che, nell’ordinario (escludendo situazioni di calamità od eventi eccezionali), il futuro della città, o meglio la sua possibilità di evolvere e "modernizzarsi", si gioca sulla capacità di attrarre investimenti privati da coinvolgere in questi processi, dove all’amministrazione pubblica spetta il compito di "fare regia" (strategica ed urbanistica) garantendo gli interessi collettivi, mentre al privato spetta "fare impresa", assumendosene utili e rischi connessi.

A tutto ciò ci si dovrà abituare, con buona pace di coloro che vedono nell’operatore privato un nemico da demonizzare ad ogni costo o nel pubblico un inutile intoppo all’iniziativa economica: l’alternativa è l’inanità ed il declino.

Occorrerà tuttavia prestare grande attenzione ai meccanismi di partecipazione e di costruzione del consenso, instaurando un clima di dialogo con reciproca fiducia e rispetto tra amministrazione pubblica, operatori privati e cittadini.

Tornando alla vicenda più propriamente urbanistica in oggetto, essa sconta a mio avviso due "vizi" originali, dovuti essenzialmente all’impreparazione in cui si è fatto cogliere il Comune di Trento al momento della vendita dei terreni ex Michelin.

Il primo vizio consiste nel non aver disposto, all’epoca, un chiaro indirizzo strategico per l’utilizzo dell’area, di riferimento per l’amministrazione comunale in fase di concertazione con la proprietà: da ciò dipende presumibilmente la sottostima del suo reale peso urbano e del conseguente fabbisogno di aree per attrezzature pubbliche che si sarebbe reso necessario.

Il secondo vizio, legato al primo, consiste nell’aver garantito parametri urbanistici prestabiliti alla nuova proprietà (Iniziative Urbane), senza premunirsi per future acquisizioni di aree per funzioni pubbliche a valore concordato in base al prezzo d’acquisto e non di mercato: ciò è destinato a ripercuotersi sui costi di realizzazione delle opere pubbliche da realizzare nell’area, che dovranno scontare costosissimi oneri di acquisizione dei suoli, con gli inevitabili strascichi polemici sui "regali ai privati".

In questo senso, il fatto che il Comune non disponga dei suoli e nel contempo continui a discettare di funzioni pubbliche da insediarvi, lo pone a dover concertare da posizioni non favorevoli. Vedremo in futuro quanto tutto questo ci verrà a costare.

Veniamo ora al progetto di Renzo Piano.

Prima del suo arrivo, non erano bastati anni per sciogliere il nodo del "che fare" di quell’area, e la discussione si era incagliata su aspetti tutto sommato marginali quali l’asse del ponte sull’Adige e l’interramento della ferrovia, mentre l’unica novità emersa dall’incertezza generale, l’esotico "Science Center", appariva più come un isolato grande balocco nel paese di Bengodi (dove paga la Provincia) che una seria opportunità di emancipazione e sviluppo legata a specifiche vocazioni del territorio.

L’indubbio merito di Renzo Piano sta nell’aver riportato al centro del dibattito la città, la sua struttura, la sua complessità, le sue relazioni, la vita che l’attraversa, dando lezione di serietà, concretezza e civiltà.

Quello proposto da Piano è uno speciale "pezzo di città", un "centro moderno" in contrappunto al "centro storico", ove trovano localizzazione quelle funzioni centrali di cui una città leader territoriale (o che ambisca ad esserlo) non può fare a meno.

Mi riferisco a quel sistema di attrezzature urbane (culturali, espositive, convegnistiche, ricettive) che nel loro complesso formano la "vetrina" di un territorio, dove esporre e promuovere nel mondo le sue produzioni (agricole, manifatturiere ed intellettuali), ma anche il suo modello di vita ed il suo "punto di vista".

La proposta di Renzo Piano contiene alcuni elementi forti che proverò ad evidenziare.

Il primo punto consiste nella centralità attribuita al Palazzo delle Albere: il famoso architetto si inchina al fascino lunare di questa ritrosa costruzione del sogno, riconoscendole il ruolo fondante e generatore del luogo che le compete, icona insuperabile, rinunciando a competere con architetture speciali o soluzioni urbane di forte impatto.

Il palazzo, saggiamente isolato e posto a perno del sistema di spazi culturali ed espositivi, viene proposto quale emblema e logo della città, suggestiva cerniera tra identità storica e ricerca del futuro. Ne risulta una disposizione urbanistica "a cometa", rivolta a nord, dove alla testa corrisponde il centro culturale-espositivo delle Albere ed allo sciame il nuovo quartiere.

La seconda nota di merito va attribuita all’impeccabile organizzazione infrastrutturale, destinata probabilmente a chiudere l’argomento in modo definitivo (vedi scheda grafica Il progetto). Il progetto riprende ed espande la trama ortogonale della città ottocentesca oltre la ferrovia (a sua volta generata dal palazzo rinascimentale), tagliata e rinforzata da due "diagonali" di collegamento con le arterie urbane a nord (nuovo ponte sull’Adige) e sud (via Monte Baldo); una soluzione ad un tempo sobria e stimolante, così efficace da sembrare ovvia.

La terza menzione è destinata all’impianto urbano, compatto ed appoggiato alla ferrovia in modo da liberare le aree prossime al fiume, relazionato in modo persino ossessivo con l’oltre ferrovia. Piano coglie giustamente che la decantata via Verdi, ormai devastata nella sua parte terminale dal sottopassaggio ferroviario, non può risolvere da sola i problemi di raccordo posti dalla cesura ferroviaria, ed alla connessione "forte" dell’asse ottocentesco contrappone la molteplicità delle connessioni "deboli" lungo le direttrici viarie della maglia urbana, creando i presupposti per nuovi e suggestivi scenari di trasformazione urbana di una parte marginale e trascurata della città.

Dopo tante lodi mi permetto di esternare anche qualche perplessità. La prima riguarda la permanenza del percorso stradale di via Sanseverino a fianco del fiume, che perpetra l’isolamento del sistema ambientale dell’argine. Ritengo che andrebbe valutata con maggiore attenzione la reale necessità di quel collegamento, trovando eventualmente qualche soluzione più interna. Va poi messo in conto che, nel caso di interramento parziale della strada, la priorità dovrebbe necessariamente ricadere sul tratto prospiciente il Palazzo delle Albere.

Il secondo rilievo si riferisce al disegno urbano dell’edificazione verso il fiume, disposta in planimetria a "zigurrat" con asse di simmetria posto a centro piazza: una soluzione a mio avviso un po’ ingessata, che non sembra tenere in debito conto l’"influsso" esercitato dal Palazzo delle Albere.

E qui mi fermo, consapevole di aver tralasciato molti importanti aspetti di valutazione.

In definitiva, fatte le debite somme, il mio giudizio non può che essere positivo. A Renzo Piano, ma anche agli altri protagonisti, va riconosciuto il merito di aver fatto fare un significativo passo in avanti nella definizione della questione. Molto resta ancora da affinare e precisare, soprattutto riguardo agli aspetti di concertazione pubblico-privato ed alle implicazioni economico-finanziarie.

L’invito è a perseverare su questa strada impervia, con prudenza e intelligenza ma anche con determinazione e coraggio.