Le grandi firme nel deserto delle idee
Chiamare grandi architetti per ideare la nuova Trento non è sintomo di provincialismo. Centochiavi insegna...
Nel dibattito apertosi di recente sul ruolo dei "grandi architetti" nella costruzione del futuro volto del capoluogo trentino, si è ripetutamente alluso alla contrapposizione tra le consorterie dei progettisti locali, capitanate dagli architetti, e gli studi di progettazione internazionali chiamati a lavorare (talvolta solo evocati) sui nodi cruciali della trasformazione urbana.
Da qui una serie di scontate considerazioni sulla chiusura del Trentino e la necessità di aprire le finestre per fare entrare aria nuova e fresca.
La polemica per la verità, aperta da un’intervista sprezzante del presidente degli architetti trentini apparsa con risalto sul nuovo e raffinato foglio locale (il Corriere del Trentino), si è poi attenuata in seconda battuta, ma ormai il sasso era lanciato. Proviamo a riassumerla a grandi linee.
Mentre il Comune pare avere imboccato con decisione la strada delle consulenze super accreditate, a garanzia di progetti qualificati inseriti in percorsi di concertazione seri e fecondi, Bortolotti e Agostini (presidente e segretario dell’Ordine degli architetti) respingono con stizza l’assioma "grande nome=qualità", definito frutto di "un atteggiamento provinciale di grande limitatezza culturale" e invocando per contro maggiore attenzione al "percorso progettuale", ricorrendo allo strumento del concorso di idee. Non si tratterebbe dunque di un atteggiamento ostile nei confronti dei grandi progettisti esterni ma solamente di un avvertimento agli amministratori della città a non cadere nell’ingenua logica modaiola del "fashion system". Un consiglio che il sindaco di Trento si è ben guardato dal contraddire, aggiungendo però sibillinamente che i concorsi vanno bene là dove li si può fare e spronando i professionisti locali ad approfittare dell’opportunità per interrelarsi con i grandi studi internazionali. Apparentemente, nessun contrasto serio, solo diversi punti di vista del problema che presuppongono differenti ruoli e dunque sensibilità.
C’è tuttavia qualcosa che non convince in questa schermaglia, qualcosa di non detto. Come si spiega che la classe dirigente del capoluogo, nell’imponente programma di rinnovo e rilancio della città che si profila, senta il bisogno di affidarsi alle grandi firme dell’urbanistica e dell’architettura anziché limitarsi a sollecitare le "nuove idee", concedendo spazi ed opportunità alle professionalità locali?
E perché quel nervosismo degli architetti davanti ad una prospettiva che vede, in fondo, tornare alla ribalta i temi del progetto urbano ed architettonico dopo un lunghissimo oblio?
La ragione di ciò, a mio avviso, la si rintraccia nello storico fallimento di una missione: quella delle élites professionali trentine dei progettisti, ed in particolare degli architetti, di fornire un supporto culturale e ideale alla modernizzazione della città (e della provincia) nei cruciali decenni di fine ‘900. Per tutti, un caso emblematico: la vicenda di Centochiavi.
Risale agli anni ’70 il progetto urbanistico di espansione della città verso nord, ad occupare quella vasta area piana ed umida compresa tra il sobborgo interno di Solteri e la frazione esterna di Gardolo. Doveva sorgervi un nuovo quartiere terziario destinato a decongestionare il centro storico e a dare spazio ed efficienza al sistema direzionale trentino.
Dal punto di vista del progetto urbano era una sfida epocale: costruire il "volto" del Trentino moderno. Furono chiamati gli architetti locali più in voga in quegli anni (Armani, Giovanazzi, Cristofolini, ecc.) che impostarono lo schema funzionale ed infrastrutturale. Si cominciò poi a costruire i vari pezzi, a partire dalle Tre torri circolari (Armani), il Bren Center (Armani), il Tani (Cristofolini), il Top Center (Stainer), si aggiunsero via via tutti i tasselli del mosaico urbano, con la partecipazione delle maggiori professionalità locali (Margoni, Tomasi, Siligardi, ancora Armani, Cristofolini, ecc. ecc.). Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la più lugubre e insensata cittadella terziaria che sia dato di incontrare nel contesto delle città alpine. Un addensamento duro e minaccioso, quasi impossibile da riscattare, che si può solo sperare venga frettolosamente divorato nel tritacarne delle trasformazioni urbane.
Va da sé che quello squallore non può essere imputato unicamente ai progettisti. Ma resta il fatto che vi hanno contribuito alla grande, fornendo passiva disponibilità ed alibi culturale alla sciatteria (o forse anche alla cattiva coscienza) dell’amministrazione pubblica ed alla rozza brutalità della speculazione immobiliare.
Di sicuro comunque non hanno costituito per la società cittadina quello scudo critico, culturale e civile, che da loro andava preteso, tradendone la fiducia con una lampante dimostrazione d’inadeguatezza ai ruoli di comando nei grandi processi urbani.
C’è dunque da stupirsi se oggi, di fronte ad un nuovo "salto di modernizzazione" della città, la sua classe dirigente non si sente garantita dalle élites progettuali di casa?
Molte cose restano da dire. Mi limito per ora a solidarizzare con il sindaco Pacher, per la determinazione con cui difende la sua visione "provinciale". Perché il "deserto dei trentini" va concimato a prescindere, affinché un giorno vi possa spuntare l’erba.