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QT n. 7, 5 aprile 2003 Servizi

Dio ci salvi l’America (nonostante Bush)

Bush è un disastro; ma ciò non basta a dipingere gli USA come una democrazia malata. Una replica a Renato Ballardini.

La decisione di occupare l’Iraq facendosi beffe dell’ONU dipende esclusivamente dalla linea politica di Bush oppure, come lasciava intendere Renato Ballardini nello scorso numero di QT (Dio ci liberi da Bush), sarebbe la cartina di tornasole del fatto che gli USA sono una democrazia malata, nella quale le grandi lobby economiche la fanno da padrone e dove la politica è espressione soltanto dei pochi che votano?

Anzitutto, si deve tener presente che Bush ha impresso una svolta netta alla politica estera americana. Le differenze coi suoi predecessori sono enormi. E la guerra contro l’Iraq rappresenta, per l’attuale Presidente, solo l’ultimo atto di una linea politica già adottata ben prima degli attentati dell’11 settembre.

Semplificando, si tratta di quell’approccio isolazionista che caratterizza da sempre la parte più conservatrice dei repubblicani d’oltreoceano. Bush ritiene cioè che gli Stati Uniti debbano badare solo ai propri interessi interni, anziché farsi carico di svolgere anche un ruolo di leader a livello internazionale. Questo anche se, dal crollo dell’Unione Sovietica in poi, gli USA sono rimasti l’unica superpotenza militare, economica e culturale del pianeta.

Se i più recenti predecessori di Bush avevano immaginato di costruire un "nuovo ordine mondiale", l’attuale inquilino della Casa Bianca si occupa invece controvoglia di quanto accade fuori dai confini americani. Già durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2000 Bush aveva avanzato l’intenzione di ritirare dai Balcani la presenza USA. Se Clinton era intervenuto in Bosnia e in Kosovo in nome del rispetto dei diritti umani, Bush andava invece dicendo nei suoi comizi che, considerato che la crisi nei Balcani non tocca interessi americani, bensì soltanto europei, doveva essere l’Europa a farsi carico, da sola, di quella situazione. Sin dall’inizio del suo mandato, poi, Bush si è totalmente disinteressato del conflitto israelo-palestinese, finendo per assecondare la politica di Sharon, e così differenziandosi non soltanto da Clinton (che per otto anni aveva tentato di consolidare gli accordi di Oslo), ma addirittura cancellando gli sforzi compiuti da suo padre Bush senior che, con l’allora Segretario di Stato James Baker, fu il reale artefice dello storico accordo Rabin-Arafat. E per venire a fatti più recenti: consumata la rappresaglia per gli attentati dell’11 settembre attraverso il rovesciamento del regime dei talebani, gli USA hanno di fatto abbandonato l’Afghanistan al suo destino, apparendo disinteressarsi del futuro di quel Paese e lasciando ad altri il difficile compito di rimetterne in piedi almeno le istituzioni basilari.

Dalla logica isolazionista discende anche la manifesta
insofferenza verso le istituzioni sovranazionali, viste soltanto come una limitazione dell’autonomia decisionale degli Stati Uniti. Bush ha fatto ritirare gli Stati Uniti dalla Corte Penale Internazionale, alla quale gli USA avevano invece aderito, pur senza entusiasmo, durante la presidenza Clinton. Sempre di Bush è la decisione di disimpegnarsi dal protocollo di Kyoto sulla tutela ambientale, al quale la precedente presidenza democratica aveva invece offerto un contributo importante.

L’interventismo emerso dopo gli attentati dell’11 settembre non è in contraddizione con questa logica: s’interviene fregandosene del diritto internazionale e soltanto quando gli interessi americani sono in pericolo (o, novità allarmante, si ritiene possano esserlo). E se il crollo delle Twin Towers ha dimostrato che un mondo abbandonato al caos, alle guerre e alla povertà costituisce un pericolo anche per gli Stati Uniti, allora Bush interviene, senza chiedere il permesso a nessuno, imponendo al mondo la pax americana e, magari, il modello americano di sviluppo e di democrazia.

In confronto all’attuale presidente, persino suo padre Bush senior appare oggi come un grande statista che agiva ispirandosi a valori universali. Oltre al già citato accordo Rabin-Arafat, Bush senior riuscì, ancora con James Baker, a raggiungere lo storico traguardo di porre fine all’apartheid in Sudafrica. E durante la prima guerra nel Golfo si mosse nel totale rispetto della legalità internazionale, col pieno appoggio dell’ONU.

In definitiva, proprio le evidenti differenze tra l’attuale presidente degli Stati Uniti ed i suoi predecessori dimostrerebbero che la salute della democrazia americana c’entra poco o nulla con la guerra all’Iraq. In ogni caso l’interrogativo rimane: la democrazia americana è malata, come sostiene Ballardini, oppure no? Considerato che i sistemi perfetti esistono solo nei libri, diamo per scontato che Ballardini abbia ragionato facendo il raffronto con l’Italia.

Nel suo editoriale argomentava che alle presidenziali del 2000 nelle quali fu eletto Bush votarono solo un terzo degli elettori (assegnando al Presidente "una base di consensi molto inferiore a quella di cui possono fregiarsi certi dittatori") e che si dovette attendere mesi prima di conoscere l’esito degli scrutini ("quasi si fosse trattato di una primitiva repubblica africana"). In realtà l’affluenza alle urne fu del 51,2 per cento e tra il giorno della votazione (7novembre) ed il pronunciamento della Corte Suprema (12 dicembre) trascorsero per l’esattezza solo 5 settimane. Ma tutto questo ha poca importanza, perché non è così che si giudica una democrazia.

La democrazia non è solo suffragio universale. E il livello di democrazia non si misura con le percentuali di affluenza alle urne. Né la legittimità di un Governo dipende solo dal fatto che è stato eletto dalla maggioranza dei votanti. Se così fosse, si dovrebbe giungere alla conclusione che perfino Saddam Hussein non è un dittatore, visto che nelle recenti consultazioni in Iraq ha riscosso addirittura il 100 per cento dei consensi. E avrebbe ragione Berlusconi nel dire che il Governo della Casa delle Libertà può fare ciò che vuole, visto che è stato eletto dalla maggioranza degli italiani.

Invece, non basta votare per essere in democrazia. Oltre che dal suffragio universale, le democrazie si contraddistinguono, tra le altre cose, per la separazione e l’equilibrio tra i poteri, per un’informazione libera e pluralista, per una magistratura indipendente dalla politica.

"Stagione di auguri. George W Bush."

Da questo punto di vista gli Stati Uniti, nonostante Bush, sono una democrazia molto avanzata. E lo sarebbero, come dice Umberto Eco, anche se il Presidente, anziché eletto, fosse estratto a sorte. Questo perché il Presidente, come qualsiasi altro potere negli USA, è sottoposto ad un sistema di bilanciamenti e controlli che non ha paragoni in nessun altro Paese del mondo. Il Congresso, cui peraltro spetta la parola definitiva sulle guerre, è totalmente indipendente dalla Presidenza e dagli stessi partiti, grazie alla rigida separazione tra organo legislativo ed esecutivo e grazie al meccanismo delle primarie. Il sistema dei media americani, grazie alle regole antitrust, è quanto di più aperto, libero e indipendente si possa immaginare. E nessuno negli USA si è sognato di mettere in discussione l’indipendenza della Magistratura se un procuratore indaga sul Presidente (e succede regolarmente).

Quando critichiamo la democrazia americana, noi italiani rischiamo di coprirci di ridicolo: in Italia abbiamo eletto alla Presidenza del Consiglio l’uomo più ricco d’Europa, che controlla in maniera quasi monopolistica l’informazione, che tiene in ostaggio la sua maggioranza parlamentare, che si fa le leggi per sfuggire ai processi.

Eppoi, questo Bush è davvero così terribile rispetto ai
politici di casa nostra, al punto tale da suscitare, in noi italiani, una così profonda indignazione? La democrazia americana selezionerebbe soltanto dei politici di bassa levatura e personaggi senza scrupoli invischiati con gli affari?

Bush avrà pure avuto, come peraltro ha ammesso durante la campagna elettorale, un trascorso da giovane alcolista (cosa che per Ballardini basta per qualificarlo come "uomo così mediocre"), ma francamente, dovendo scegliere, è peggio un ex bevitore di whisky o uno indagato per collusioni mafiose, corruzione di giudici ed evasione fiscale? E ancora: Bush sarà pure "un rampollo della lobby del petrolio", ma grazie al blind trust oggi il suo patrimonio potrebbe essere investito, a sua insaputa, in una Banca Etica, mentre Berlusconi controlla tuttora, oltre a Mediaset, anche assicurazioni, case editrici, imprese di costruzioni, produzioni cinematografiche, squadre di calcio, agenzie pubblicitarie e praticamente mezza economia italiana.

Berlusconi, si obietterà, non rappresenta la democrazia italiana. Ma se l’Italia si trova oggi in questa situazione non è solo perché abbiamo avuto la sfortuna di ritrovarci Berlusconi, con tutto il suo pesante bagaglio di conflitto d’interessi. E’anche perché il centro-sinistra italiano, negli anni nei quali ha governato, non si è impegnato per introdurre quell’insieme di regole, bilanciamenti e controlli che sarebbe stato indispensabile per mettere al sicuro la nostra democrazia. E le critiche al modello americano, dal quale dovremmo invece imparare, non aiutano certo a compiere passi avanti.

E’ infine curioso che Ballardini, mentre si schiera contro la guerra in Iraq, sostenga che la scarsa affluenza alle urne alle presidenziali americane del 2000 sarebbe stata determinata dal fatto che "entrambi i candidati non suscitavano grande entusiasmo". E’ proprio quel tipo di atteggiamento che ha consegnato la vittoria a Bush. Se Presidente degli Stati Uniti fosse Al Gore, oggi non saremmo qui ad interrogarci angosciosamente sul futuro del mondo.