Fra Sharon e Arafat
La pace non si può fare con Arafat. Senza Arafat non si può fare la pace. Non chiedetemi di dimostrarvi la coerenza logica di queste due affermazioni, che pur nella loro insuperabile opposizione sono entrambe assolutamente fondate. La verità è che in quel che sta accadendo nella terra di Palestina è difficile, anzi impossibile, trovare una qualche traccia di razionalità. La legge che vi domina è quella della assoluta empietà. La feroce vendetta e la implacabile ritorsione sono le scadenze sanguinose di una spietata spirale senza fine. La disperata miseria del popolo palestinese fa spuntare i funghi velenosi del terrorismo suicida. La potenza economica e militare di Israele ribatte colpo su colpo attuando, per sconfiggere il terrorismo di Hamas, rappresaglie egualmente terroristiche. Giungendo a minacciare l’espulsione e persino la morte dello stesso Yasser Arafat. Il quale d’altra parte, piaccia o non piaccia, resta l’unico autorevole rappresentante del popolo palestinese.
A questo punto è persino ozioso andare alla ricerca di chi sia la colpa, di chi sia il responsabile di questa situazione. La Road Map, cioè la strada insanguinata di questa lunga vicenda, è disseminata di innumerevoli errori, anche se ognuno di essi può trovare le sue plausibili spiegazioni.
Probabilmente fu inficiata da una rilevante dose di imprudenza, la stessa deliberazione del 29 novembre 1947 con la quale l’ONU decise la nascita dello stato di Israele assegnando al neocostituito stato ebraico il 56% del territorio già occupato dal mandato britannico. E tuttavia come poteva il mondo civile negare al popolo di Israele di coronare il secolare sogno di tornare in piena indipendenza nella terra delle sue origini, ponendo così fine alla millenaria diaspora ed alle secolari persecuzioni, culminate nel genocidio hitleriano? Fu dunque una sorta di doveroso risarcimento prodigato ad un popolo martoriato, trascurando però il fatto che su quel territorio viveva ormai da secoli un altro popolo, povero ma con un suo embrione di identità nazionale e religiosa, affratellato ai popoli della vasta regione circostante.
Come potevano gli stati arabi ignorare questa realtà ed evitare l’errore di non riconoscere il nuovo stato di Israele? Le guerre che ne sono seguite non hanno risolto il problema, anzi lo hanno aggravato. Gli insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati con le guerre vittoriose hanno provocato ondate di profughi palestinesi, la loro miseria e la loro rabbia. Si è formato così l’humus appropriato ad una rigogliosa cultura del terrorismo suicida. In queste condizioni i negoziatori, gli uomini della pace che sono presenti in entrambi gli schieramenti, operano con estrema difficoltà. Yasser Arafat capisce che la via del terrorismo è disperata e catastrofica, ma non riesce a sbarrarla perché le spinte che la promuovono serpeggiano nel suo popolo. Yitzhak Rabin, firmando gli accordi di Oslo, aveva portato al riconoscimento di uno stato palestinese autonomo accanto allo stato di Israele, ma per questo merito fu assassinato da un terrorista della destra del suo paese. In una situazione resa estrema dall’accumularsi degli errori, sono gli estremisti a dominare la scena. Dall’una e dall’altra parte.
Israele ha un retaggio di grande civiltà e altissima cultura. Ci si poteva attendere che, come è stato efficiente nel vincere i conflitti armati, così avesse anche il talento di costruire la pace. Così non è stato e non sarà con Sharon. E’ una solida democrazia, ma anche le democrazie sbagliano. Non dimentichiamo che il governo degli Stati Uniti d’America, il più avanzato dal punto di vista liberal-democratico, è anche l’unico al mondo, nella storia dell’umanità, che abbia deciso di scaricare non uno ma ben due ordigni atomici su due città giapponesi a guerra finita. Dunque è pura illusione attendersi una soluzione pacifica della tragedia del Medio Oriente, tanto meno con l’aiuto di questo presidente degli Stati Uniti.
Shimon Peres, che con Rabin e Arafat aveva firmato gli accordi di Oslo, ha detto che "la Road Map dimostra che esiste in linea di principio un accordo riguardante la natura di una soluzione futura. Gli ostacoli alla sua realizzazione sono gli errori del passato". L’unica speranza è riposta in un intervento energico dell’ONU. Una forza di interposizione che faccia cessare lo scambio di violenze reciproche e dia spazio e tempo ai negoziati di pace.
Ma avrà l’Onu la compattezza ed i mezzi per un simile compito?