Quelli che… il proporzionale era meglio
Da Costruire Comunità ai Cattani-boys, passando per spezzoni dei DS, il malessere nell’Ulivo trentino rischia di cedere al richiamo della foresta. Anche se …
Una cosa è senz’altro vera. Il nuovo sistema elettorale introdotto nel ’94 per i comuni, e che dalle prossime elezioni del 2003 sarà applicato anche per la Provincia, molto equilibrato non è. Anzi. L’elezione col maggioritario del premier (sindaco o presidente della Provincia) e l’elezione del Consiglio col sistema proporzionale, assieme alla previsione che la caduta del capo dell’esecutivo comporta lo scioglimento del Consiglio, configurano oggettivamente un pericoloso disequilibrio tra i poteri.
Tutto è in mano al premier, mentre il Consiglio conta come il due di picche. La sua possibilità di contare qualcosa è legata all’incerta benevolenza del premier di lasciarsi consigliare, cosa che peraltro accade raramente. Il risultato è che le elezioni si trasformano in una sorta di delega in bianco, per l’intero mandato, al capo dell’esecutivo. Al punto tale che neppure i consiglieri, siano essi di maggioranza o di opposizione, trovano utile partecipare alle sedute consiliari, ridotte a luoghi di ratifica delle decisioni del premier. Cosicché in molti piccoli comuni è diventato difficile finanche trovare le persone disposte a candidarsi alla carica di consigliere comunale (o alla carica di sindaco, se non vi sono concrete speranza di vittoria), poiché quell’incarico istituzionale si è ridotto ad essere soltanto un impegno a presenziare alle sedute di un organo che non conta praticamente nulla. Un po’ meglio va nei comuni più grossi, poiché lì il potere del sindaco è in parte condizionato dal controllo esercitato dai media, e perché la carica di consigliere comunale può essere vista come un trampolino di lancio per future carriere. Tuttavia, riguardo al disequilibrio tra i poteri, la sostanza è la stessa. Per il Consiglio provinciale le candidature saranno attirate dai lauti guadagni e dai ricchi benefit assicurati ai consiglieri, ma proprio questi fattori concorreranno a rendere il sistema ancor più disequilibrato.
Sono due gli elementi che stanno all’origine di questo mancato equilibrio tra i poteri.
Il primo è legato al consenso, all’autorevolezza dei due organi. Il premier appare all’opinione pubblica come quello che è riuscito a superare la prova dell’elezione diretta, conquistando la fiducia della maggioranza assoluta degli elettori sul binomio persona-programma. Agli occhi dei cittadini è lui che decide, che fa cose concrete nell’interesse generale, forte del consenso maggioritario raccolto alle elezioni. Il Consiglio, frammentato in partiti e listarelle a causa dell’elezione col sistema proporzionale (seppur corretto col premio di maggioranza), appare invece diviso, litigioso, inconcludente. Le sue varie componenti appaiono dedite ad accentuare le differenze, ciascuno intento a portare acqua al proprio mulino nella competizione interna alle coalizioni, in un teatrino governato dalla disperata ricerca della visibilità, per evitare il rischio di scomparire.
Il sistema delle preferenze, poi, accentua ulteriormente il caos, portandolo anche all’interno dei singoli partiti, nella competizione tra le singole persone. Pertanto il premier appare come quello che fa l’interesse di tutti, il Consiglio come quello nel quale ciascuno fa soltanto gli interessi propri. Il risultato finale è che le espressioni organizzate della società civile (categorie economiche, sindacati, associazioni, gruppi di cittadini e così via) si rivolgono direttamente al premier ed alla sua giunta, ritenendo tempo perso rapportarsi coi partiti che compongono il Consiglio. E di conseguenza i partiti (intesi nell’accezione positiva del termine, come strumenti attraverso i quali i cittadini partecipano direttamente alla vita democratica) finiscono per smettere di essere soggetti vitali, riducendosi a nomenclatura autoreferenziale, dedita soltanto a distribuire a se stessa posti di potere. In definitiva, il sistema scivola verso il plebiscitarismo, a causa del rapporto diretto (e spesso malato) tra società e governatore, che somiglia sempre più ad una specie di signore feudale.
Il secondo elemento, senz’altro il più importante, che rende questo sistema disequilibrato è quello del rapporto tra premier e Consiglio. Se il primo si dimette, si scioglie anche il secondo. Se il Consiglio approva una mozione di sfiducia al premier, anche in questo caso decadono entrambi gli organi e si va a nuove elezioni.
Morale: l’unico modo concreto attraverso il quale il Consiglio può condizionare l’azione di governo è quello di suicidarsi. Se non si vota quanto proposto dal premier questi può dimettersi mandando a casa tutti; se ciò che fa il premier non piace, si può solo sfiduciarlo, comportando però automaticamente anche lo scioglimento del Consiglio. E’ un sistema unico al mondo, che potremmo definire di "democrazia senza equilibrio tra i poteri", per quanto possa sembrare una contraddizione in termini. Non siamo infatti in presenza né di un sistema presidenziale, nel quale i due organi sono nettamente distinti tra loro, svolgono compiti diversi e sono eletti in momenti diversi, e nel quale le dimissioni del premier non comportano la decadenza del Consiglio e questo non può sfiduciare il premier. Né siamo in presenza di un sistema parlamentare, nel quale il premier è espresso dal Consiglio e può essere da questi sostituito in qualunque momento.
Qui siamo di fronte ad un sistema spurio, contraddittorio al suo interno, nel quale chi ha il potere di far decadere gli organi non è lo stesso soggetto che li ha eletti: il premier è eletto direttamente dai cittadini, ma può essere sfiduciato dal Consiglio; il Consiglio è anch’esso eletto dai cittadini, ma può essere sciolto dal premier. Se a tutto questo si somma quanto detto prima, ossia che il premier appare forte ed autorevole ed il Consiglio debole e caotico, la frittata è fatta.
Forse nei comuni è ancora possibile che il Consiglio faccia valere il proprio potere, sfiduciando il sindaco ed andando a elezioni anticipate. Ma in Provincia? Quale consigliere provinciale deciderà mai di sfiduciare il Presidente eletto direttamente, perdendo in automatico tutti i corposissimi benefici degli inquilini di Piazza Dante?
Dobbiamo allora tornare al vecchio sistema? Era insomma meglio quando si stava peggio? Tutt’altro.
Il vecchio sistema aveva dato vita ad una democrazia bloccata, nella quale i governi (ed i programmi di governo) si formavano a prescindere dalla volontà degli elettori, tramite le trattative tra i partiti che avvenivano dopo le elezioni, in barba ai risultati delle urne. Governavano sempre gli stessi, senza alcuna possibilità per i cittadini di giudicare l’azione di governo mandando all’opposizione, tramite il voto, chi aveva governato male. Un sistema che aveva dato vita ad una nomenclatura inamovibile, senza ricambio. E la mancanza di possibilità di controllo democratico aveva finito per far degenerare il sistema. Prima dell’introduzione della nuova legge tutti i comuni trentini, salvo due o tre, erano governati dalla DC, spesso con sindaci che ricoprivano ininterrottamente quella carica dal dopoguerra. E lì sì, soprattutto nei comuni più piccoli, che il sistema era feudale: chi si metteva contro era emarginato, mancando ogni possibilità di cambiamento.
Il nuovo sistema non è il frutto della volontà dei sostenitori della democrazia dell’alternanza e del maggioritario. E’ il frutto del compromesso tra necessità di cambiamento e resistenze dei vecchi partiti. I sostenitori della democrazia dell’alternanza non chiedevano l’elezione diretta del premier, chiedevano l’elezione del Consiglio con sistema maggioritario. Chiedevano insomma di andare verso un sistema nel quale due partiti si contendono il governo, al pari di come avviene in tutte le democrazie dell’alternanza, parlamentari o presidenziali che siano. Furono i partiti (in particolare i più piccoli e quelli di centro, per garantirsi la sopravvivenza) a pretendere che il Consiglio continuasse ad essere eletto col proporzionale. Proponendo come alternativa, per garantire la governabilità andata perduta col crollo degli schieramenti della prima Repubblica, di irrigidire pericolosamente il sistema, attraverso l’elezione diretta del premier.
Ci sono infatti tre elementi che non possono mai aversi tutte e tre assieme, ma solo due alla volta: stabilità di governo, frammentazione dei partiti ed equilibrio tra i poteri.
Se non si rinuncia alla frammentazione dei partiti, dovendo scegliere tra gli altri due è meglio optare per la stabilità di governo, poiché la sua mancanza rischia di mettere in crisi le istituzioni (come dieci anni di ingovernabilità della Provincia di Trento hanno dimostrato), con rischiosi effetti per la stessa democrazia: non c’è democrazia se anzitutto non funzionano le istituzioni democratiche.
Se invece si vuole stabilità di governo ed equilibrio tra i poteri, allora si deve rinunciare alla frammentazione dei partiti, introducendo leggi elettorali che agevolino l’evoluzione del bipolarismo in bipartitismo. Solo allora si potrà rinunciare all’elezione diretta del premier, oppure passare ad un compiuto sistema presidenziale (nel quale il presidente ha molto meno potere di quello assegnatogli dell’attuale sistema ed il consiglio molto di più). I partiti, nel senso nobile del termine, tornerebbero a contare, ad essere soggetti vitali, poiché tornerebbe a contare il consiglio. Il fatto che i partiti che contano sarebbero solo due accrescerebbe il potere dei loro iscritti, poiché essi inciderebbero direttamente nella definizione dei programmi di governo e nella scelta del premier. A rimetterci sarebbero soltanto le nomenclature degli attuali millanta asfittici partiti.
Se si vuole guardare avanti, questa è la direzione di marcia. Guai a tornare indietro.