Il mio Islam
Appunti di viaggio di un turista occidentale in paesi islamici. Una testimonianza di esperienze personali, eppur significative, a contatto con una realtà poliedrica e affascinante.
Presento in queste pagine una rielaborazione di alcuni miei appunti di viaggio. Ho percorso diversi paesi islamici, dal Marocco all’Indonesia, passando per Tunisia, Mali, Yemen e altri ancora. Viaggi da turista, di tutti i tipi: turista alternativo, organizzato, fai da te, o addirittura soggiorni in isole edonistiche come i villaggi turistici.
Sono comunque entrato in contatto tante volte con la realtà dell’Islam, poliedrica e affascinante. Che può essere dura, anche drammatica – come vedrà chi leggerà queste note – ma che rappresenta un’umanità di immensa ricchezza, percorsa in questi anni da un interno, aspro conflitto tra modernità e tradizione.
Oggi, in questo momento delicato e drammatico, sentendo tante grevi semplificazioni, nei bar come sui media, mi sono sentito in dovere – per quel poco che può contare - di portare questa mia testimonianza. e. p.
4 agosto 1981, aeroporto di Fiumicino
Sono arrivato troppo presto. E’ il mio primo viaggio in un paese del Terzo mondo esotico, l’Indonesia; e, intimorito, mi sono preso troppo tempo. Ora mi tocca aspettare, seduto a leggere. Tra la folla che va e viene noto – non è possibile altrimenti – una ragazza: pelle leggermente scura, come ambrata, volto e fisico stupendi. Veste jeans e un maglioncino rosso aderenti; si muove come se dovesse impiegare in qualche modo uno scampolo di tempo. Io sono un single, che si vorrebbe ruspante: "Accidenti! E’ splendida: è obbligatorio provarci. E’ un dovere morale." Poi il pensiero che acquieta: "Ma sto per partire per Jakarta. Cosa mi metto, a abbordare adesso?" Mi rimetto a leggere il giornale.
Poi si libera il posto alla mia sinistra e la ragazza ci si siede.
A mezzo metro è ancora più bella: "A questo punto… Ma no, sto per prendere l’aereo per l’altra parte del mondo. Che senso ha?" Torno al giornale.
Ma è lei che prende l’iniziativa: "Scusi – e mi avvicina il polso e il viso – ho l’ora giusta?"
"Beh allora… quando una così ti abborda con trucchi che neanche i bagnini a Rimini…" - mi dico mentre avvio la conversazione.
Lei mi parla in francese, io in inglese. E’ appena arrivata da Tunisi, con alcuni amici, per una breve vacanza. E’ curiosa di vedere dal vero l’Italia. I discorsi si snodano facili, è bello sentirla parlare, percepire le nostre braccia che si sfiorano. Poi con la coda dell’occhio vedo alcuni giovani a una ventina di metri: i suoi amici probabilmente, che mostrano qualche segno di impazienza.
Arrivo al dunque: propongo di scambiarci gli indirizzi, di tenerci in contatto. "Sì, certo, te lo scrivo subito" risponde con prontezza. Ci passiamo i due biglietti di carta, e si affretta a salutare.
Va verso gli amici, uno dei quali batte l’indice sul quadrante dell’orologio, come a dire "E’ da un quarto d’ora…" Lei risponde con fare evasivo. Provo a tradurre: "Scusate, che volete…"
Sono esterrefatto.
"Come?? Ha fatto aspettare gli altri… per me? Allora… allora le piaccio proprio" - è il primo, caldo pensiero.
Poi il secondo: "Ma questi musulmani, non sarebbero i super-maschilisti? Quelli che tengono le donne in casa, con il velo?"
PS: Ci scrivemmo per un po’, sempre lei in francese, io in inglese. Mi invitò ad andare a trovarla, in Tunisia. Pensai che la Tunisia non mi interessava proprio (il turismo di massa non l’aveva ancora scoperta), che ci andavo a fare, chissà che casa aveva, mi sarei trovato male… Sono stato il classico occidentale, pieno di sé e ignorante. Stupido fino all’autolesionismo.
Se ci penso, ancora me ne pento.
13 agosto 1986, Fathepur Sikri, India
Lo sapevo di essere ignorante. E’ una bella consolazione: come Socrate, ritenuto il più saggio perché sapeva di non sapere. Ogni giorno di questo viaggio in India è una scoperta: di una civiltà grandiosa, al cui confronto anche il nostro Rinascimento si ridimensiona.
Oggi siamo a Fathepur Sikri, la città imperiale, voluta nel 1500 dal Gran Mogul Alì Akbar. L’ignoranza, appunto: "Akbar, chi era costui?" - mi sarei chiesto dieci giorni fa. Di origine afghana (guarda caso) sulle orme del padre conquistò e unificò l’India, dando vita a una dinastia che avrebbe realizzato alcune delle massime espressioni dell’umanità (tra cui il Taj Mahal, ancor oggi una delle meraviglie del mondo).
E lui stesso, Akbar, fu sì un conquistatore, ma anche molto di più. Le pietre di Fathepur Sikri parlano da sole. Una città ideale, realizzata a tavolino dagli urbanisti per ospitare la corte imperiale, e il cuore dello stato Mogul. Mentre i nostri umanisti le città ideali le disegnavano su tela, qui gli ingegneri le costruivano: e oggi l’insieme dei palazzi, rimasti intatti, ci parla di un’antica potenza, e ci tramanda una poderosa grandezza intellettuale. Qui, in una costruzione aerea, elaborata eppur funzionale, Akbar riceveva le delegazioni ufficiali; qui i suoi studiosi (e lui stesso) preparavano una nuova religione, sincretismo di islamismo e induismo, che unificasse i popoli dell’Impero; qui l’elefante imperiale eseguiva le condanne a morte.
Forse Akbar era fin troppo fiducioso nella forza della ragione: il suo tentativo di religione unificata non riuscì; Fathepur Sikri stessa (a differenza di altre città pianificate a tavolino, come Jaipur, che oggi ha un milione di abitanti) risultò troppo asettica, cerebrale, e dopo vent’anni fu abbandonata. Ma le costruzioni, pur deserte, restano: e le visitiamo ammirati.
Un solo monumento è oggi ancora funzionante: la grande moschea. Solo che non è più la moschea dell’imperatore; bensì degli abitanti del villaggio ai margini dell’area monumentale. Il contrasto è evidente: l’antica grandiosità oggi al servizio della gente comune.
Sotto il colonnato c’è una scuola coranica: un centinaio di ragazzini di ambo i sessi, accovacciati a formare un rettangolo, due maestri - dei religiosi - sui due lati più stretti. Spiccano le bambine, con i vestiti e veli colorati, il volto truccato, i braccialetti e i monili forse preziosi: non deve essere una scuola per tutti. Mi metto presso una colonna ad osservare, cercando di arrecare il minor disturbo possibile. I bambini mi guardano, salutano, sorridono; qualcuno disturba e parlotta col vicino; ma in genere proseguono lo studio o la scrittura.
Uno dei maestri interroga due ragazzine: le fa leggere e commentare dei passi di un libro. Una è spigliata e disinvolta, risponde precisa e sicura; l’altra è tutta timorosa: alza continuamente gli occhi dal libro a incontrare un cenno di assenso, una conferma del maestro. Alla fine congeda le ragazzine con brevi parole, che le fanno contente.
A questo punto mi avvicino, mi presento come insegnante. A un cenno del maestro, gli siedo accanto. Gli esprimo i complimenti di un collega: è bello vedere tutti questi ragazzini che si applicano, in un’atmosfera di tranquillo rigore. Ne è compiaciuto; mi chiede della mia scuola, di cosa insegno. Parliamo con simpatia.
Poi mi chiede - domanda classica in India - quale sia il mio stipendio mensile. Lo confronta con il suo, e mi guarda con tristezza: "Io impiego anni per prendere una tale cifra." Si sente vagamente umiliato; non da me, ma dallo stato delle cose.
Non so cosa rispondergli. Mi viene alle labbra: "Però tu sei un religioso", ma mi fermo in tempo. Mi esce invece "Da noi non è uno stipendio ricco, gli insegnanti si lamentano". Ed è la risposta più stupida. Forse dovrei dirgli "però l’India sta facendo grandi progressi" (che è vero) oppure "quello che conta è fare bene il proprio lavoro" (che è una cosa collegata con la prima). E invece non mi viene in mente niente.
L’uomo non è invidioso. La simpatia rimane. Ci scambiamo ancora alcune battute, poi mi metto a fotografare la lezione che prosegue. Ci salutiamo.
25 luglio 1992, Saana, Yemen
E’ il nostro primo giorno in Yemen: turisti fai da te, siamo riusciti a organizzare un viaggio che si preannuncia interessante. Noleggiata una Land Cruiser con autista, definito il percorso, domani mattina verrà la macchina a prenderci e inizieremo a muoverci. Gigino e Adelfo, i miei compagni, sono già in stanza, io invece indugio nella hall dell’albergo, su una poltrona a consultare guide e cartine.
Più in là, su un divano a una decina di metri, stanno sedute tre ragazze nere: giovani, carine, vestite all’occidentale. Una mi guarda insistentemente; mah. Quando alzo gli occhi dalle mappe mi sorride: che ci sia qualcuno dietro me?
Alla terza volta le rispondo con un sorriso: "Ah, era ora!" - mi rimprovera con gesti scherzosi. Mi invita a sedere da loro.
E’ una studentessa, qui a trovare parenti, viene da Gibuti (da qualche parte in Somalia, penso; è invece un piccolo stato indipendente sul mar Rosso, di fronte allo Yemen). Si informa del mio viaggio. Poi subito, la proposta, strampalata: "Mi prendete con voi?"
Tergiverso: "Siamo già in quattro…"
Non demorde: "Io prendo poco spazio."
Non capisco: Neima, così si chiama, è talmente per benino, e poi siamo in Yemen, non in Brasile. Ma la proposta è proprio da turismo sessuale. O forse vuole solo fare esperienze, conoscere, è attirata da un viaggio con degli occidentali… Rimango evasivo, dico dei no non definitivi.
"Beh, pensaci, c’è tempo fino a domani - mi risponde - Intanto esci con me, mi accompagni a casa?"
Perché no? Usciamo e prendiamo un taxi. Il viaggio è lungo: parliamo ancora, è carina e gradevole. Poi mi prende una mano fra le sue, e mi bacia con passione. "Voglio passare la notte con te" - mi sussurra.
"Sì – rispondo – In albergo?"
"Va bene, ma prima voglio passare da casa mia."
Il viaggio non è breve. Scambia alcune frasi secche, aspre con l’autista. Non capisco. Dalla borsetta le scivola il passaporto: fingo di interessarmi a come fanno i documenti a Gibuti; in realtà controllo se mi ha raccontato storie. Tutto a posto, mi vergogno un po’, la ragazza è trasparente.
Arriviamo dai suoi parenti. "Torno subito" e scivola fuori. La strada è buia, si intravedono case povere. Mi guardo bene dall’uscire anch’io. "In ogni caso ho pochi soldi con me" - penso.
E’ la solita storia: mi ficco in situazioni paradossali, con donne conosciute casualmente. Ogni volta mi dico "Hanno ragione, è ora che metta la testa a posto"; e ogni volta la situazione si è risolta in un’esperienza piena, di vita vera: "Hanno torto, stiano loro la sera a guardarsi la tv".
Neima riappare e inizia il viaggio di ritorno. Lei è tanto carina e simpatica, ma la situazione diventa sempre più paradossale.
Imbarca un ragazzo, giovane: "E’ mio fratello". Discutono animatamente, in arabo. Mi sembra di capire che lui non vuole che si accompagni con me; e che lei gli risponda decisa: "Sono fatti miei". Il ragazzo scende.
Poi qualche breve discussione, ancora con l’autista. C’è della cattiveria, nelle parole dell’una e dell’altro. "Tutto bene?" - le chiedo. "Sì" - mi risponde.
Sarà.
Finalmente arriviamo all’albergo. Mi sento più sicuro; tiro un sospiro di sollievo. Ma ho torto.
Chiedo alla reception una stanza per me e la ragazza. Mi fanno compilare delle scartoffie. Poi mi chiedono i soldi: "Ma come? Io sono già un ospite dell’albergo!" Mi si oppongono oscuri motivi burocratici.
I soldi devo andare a prenderli in stanza. Neima mi si avvicina: "Non lasciarmi sola, ti prego – ha un’ombra di paura negli occhi – Sono in pericolo!"
"Pericolo? – mi guardo attorno: tutto è normale – E da parte di chi?"
"Dopo ti spiego. Ma non allontanarti."
Chiamo mio fratello sul telefono interno: gli dico che mi servono soldi, e che non posso venire in stanza. Arriva subito, in pigiama ma con l’aria professionale, come fosse normale portare aiuto al fratello che corre avventure strane.
Adesso mi daranno la stanza. Invece no: "Sono tutte occupate".
Mi sento franare la terra sotto i piedi. Qui c’è qualcosa che non va, c’è molto che non va. Guardo Neima, che adesso è proprio spaventata. Ha trasformato la sciarpa di tulle del suo bel vestitino fucsia in un velo islamico: se l’è messa sulla testa, a nascondere i capelli.
"Non allontanarti – i suoi occhi ora sono grandissimi – o mi prendono e portano via".
"Ma chi?"
"Gli islamici intransigenti – i fondamentalisti insomma – Li ha chiamati il tassista".
La considerano una prostituta. E forse, in un certo senso, lo è. E la vogliono lapidare.
Teme che io la abbandoni al suo destino. "Ti prego, portami a casa."
"Certo. Non ti lascio – mi ispira tanta tenerezza. Cerco di rimanere lucido – Ma pensi davvero che io riesca a proteggerti?"
"Sì. Finché sono con te, non oseranno niente".
Usciamo dall’albergo. Ci si fa incontro un tassista; uno nuovo, ma naturalmente sa tutto.
Ci fissiamo un attimo negli occhi. "Di me ti puoi fidare" - sembra dirmi. Mi fido.
Il viaggio lo percorriamo in silenzio. Rimango per un po’ in tensione. L’autista guida silenzioso, sereno. Il pericolo dovrebbe essere passato. Neima è ora tranquilla. E’ forte questa ragazza: ha determinazione, sicurezza, coraggio; a soli diciannove anni. Tra noi ora non c’è desiderio, ma c’è affetto. Finalmente arriviamo dai suoi parenti.
Vuole il mio indirizzo: "Ti scriverò. E voglio venire in Italia; così vengo a trovarti."
Ci salutiamo con un bacio sulla guancia.
Il giorno dopo, mentre passo nella hall, mi chiama un signore dietro la reception. E’ il direttore dell’albergo: "Mi devo scusare per quanto accaduto ieri - appare molto più che dispiaciuto, costernato - E’ stato un incidente inqualificabile." Ci appartiamo, e si sfoga: "Non li capisco proprio. Io non sono di qui, vengo da XY. Ma questi sono dei pazzi, dei pazzi! - si mette quasi a urlare - Così rovinano tutto! Ma come si fa a lavorare in queste condizioni? E dove si va a finire?"
Mi rendo conto che non è più lui che si scusa con me. Sono io che, di cuore, solidarizzo con lui.
PS1: Diverse settimane dopo, a Trento, un amico che aveva vissuto alcuni anni in Somalia, mi diede delle spiegazioni illuminanti. "Beh, è chiaro - mi spiegò con aria smagata - A Gibuti è costume delle studentesse di famiglia non agiata: vanno in Yemen a prostituirsi, per farsi la dote."
Ah, ecco.
PS2: Neima mi scrisse più volte. Rimasi deluso: parlava pochissimo di noi, moltissimo di un visto per l’Italia. A Gibuti non glielo concedevano, dovevo fare qualcosa io a Trento. Mi sentivo vagamente usato, ma interpellai ugualmente un amico in Questura. "Per essere possibile, è possibile - mi rispose - Tu indichi il nominativo e ti assumi ogni responsabilità: di quello che lei fa qui, e che poi ritorni indietro. Sinceramente, te lo sconsiglio." Le risposi che non c’era niente da fare.
La sua terza lettera cambiò registro. Era una lettera d’amore ("mi ricordo sempre quel nostro bacio…").
Mi sembrò falsa. Non risposi. Ma mantengo di lei un bel ricordo.
29 luglio 1992, strada per Moka, Yemen.
E’ un beduino verace Ibrahim, il nostro autista. Portamento fiero, i capelli neri che cadono a lunghi ricci fuori dal turbante, sembra Sandokan, versione Kabir Bedi. Impariamo ad apprezzarlo: conosce non solo strade e posti, ma anche le genti, e sa valutare le persone. Nello Yemen per tanti versi ancora feudale, abitato da gente dura e dai costumi vari e diversi, è una guida preziosa.
Ibrahim viene dal deserto, e ci tiene a dirlo; ma è stato a lavorare per anni all’estero, in Germania. E si vede.
Per una settimana e più viviamo assieme: ci apprezziamo ed entriamo in confidenza. Ci parla delle sue due mogli "che vivono in due città diverse, altrimenti sono litigi continui".
"Ah, e quanti anni hanno?"
"Una quarantacinque anni, e mi ha dato tre figli. L’altra diciassette".
"Ma allora sei un maialone!" E tutti a ridere, con maschilista complicità.
Andiamo avanti "Ma voi, come fate l’amore?"
Qui si fa esitante: "Mah… Al buio, in fretta…" e scuote la testa.
"Non vi guardate, non vi toccate?"
Per la prima volta lo vediamo imbarazzato: "No… poco o niente…"
Chiediamo ulteriori dettagli, più intimi. "Che schifo!" - risponde, ma non accusa noi, si sente in stato di inferiorità. Lasciamo perdere. E’ giocoforza arrivare alla religione: "Ma tu, mangi durante il Ramadam?"
"Sì, di nascosto - gli occhi si fanno furbi - Come tutti, del resto". E ci parla dell’assurdità di questi divieti, che proprio non riesce a capire.
Ibrahim in realtà è laico, e nel profondo. Nutre un odio profondo per il fondamentalismo, che vede come un pericolo esiziale. In Yemen sono attivi gruppi islamici terroristi, che tentano di scardinare il governo civile; il quale a sua volta risponde con la forza dell’esercito. "Quando prendono dei terroristi, prima li castrano, poi li ammazzano. E fanno bene" - dice con voce dura.
Un giorno, in un villaggio, passiamo a fianco di una piccola moschea. Dai finestrini della macchina vediamo sul piazzale dei fedeli che pregano: con le schiene curve, nel rituale inchino verso la Mecca. "Bastardi!" - sibila con odio Ibrahim. Gigino è anticlericale e ateo da quando aveva quindici anni. Ma quando siamo soli commenta: "Ma si trattava solo di gente che pregava…".
In questo paese c’è uno scontro tra laicità e clericalismo in termini che a noi è difficile capire.
1 agosto 1992, strada per Sahara, Yemen.
Abbiamo appena visitato il cimitero di Sada: una distesa di pietre funerarie, tanto più impressionante perché si tratta in gran parte di morti della recente guerra civile. Quando siamo in macchina Ibrahim non si trattiene: "Avete visto anche voi. Questi beduini del nord sono peggio che arretrati, sono fermi nel tempo. Pensano che tutto si debba risolvere con il fucile."
Annuiamo. Fa impressione vedere tutti gli uomini, giovani e vecchi, non solo con il tradizionale pugnale yemenita alla cintura, ma anche con il fucile o il kalashnikov a tracolla.
"Come ieri, al suk, dieci minuti dopo che siamo passati noi - prosegue Ibrahim - Quattro fratelli, padroni di una piccola gioielleria, si sono messi a litigare; e quindi a spararsi. Risultato: tre sono morti, il quarto verrà giustiziato."
Le sue parole trovano ulteriori conferme dopo un paio di ore. Stiamo andando a Sahara, antica città imperiale situata in cima a un monte, a 3000 metri. Per arrivarci si deve cambiare macchina, e utilizzare i mezzi di una mafia locale. In una radura troviamo dei brutti ceffi, con cui Ibrahim si accorda. Poi arrivano altri turisti, e tra il loro autista e gli sgherri sorge una brutta discussione.
Guardiamo intimoriti: quelle facce poco raccomandabili, per di più sformate dalla presenza in bocca della palla di chat (una droga che si assume masticando dei germogli: a dire il vero abbastanza leggera, l’abbiamo provata anche noi, con risultati irrilevanti) e ora adirate, quei fucili dovunque. La discussione finisce con l’autista che parte a chiamare la polizia (a 40 chilometri!), i suoi turisti appiedati, noi che iniziamo la salita sul camioncino dei ceffi.
La strada è al limite della praticabilità: ripidissima, dissestata, si snoda in infiniti tornanti, tra voragini che ci paiono abissali. Anche il paesaggio è impressionante: aspro, arido, con le case in pietra su cocuzzoli di pietre. In piedi sul cassone del camioncino scorgiamo di tanto in tanto una popolazione che pare arcigna e ostile; i bambini ci rivolgono gestacci, e tirano sassi verso il nostro veicolo.
Non ha senso andare avanti così. Faccio il calcolo: ci saranno ancora 800 metri di salita; camminando, due ore.
Dico all’autista di fermarsi: "Proseguo a piedi". Prendo lo zaino, con acqua e qualche provvista e scendo dal cassone.
A piedi tutto cambia. Il paesaggio, la maniera di scoprirlo, di gustarlo. E soprattutto cambia la gente. Quando passo per un villaggio gli adulti mi salutano, i bambini mi vengono incontro festanti. Con un gruppo ridiamo e scherziamo, quando gli propongo una fotografia si schierano sull’attenti, facendomi il saluto militare. Non sono più il riccone stravagante, l’occidentale che scorazza in fuoristrada; sono uno che come loro arranca su queste pietre.
Da una casa sbuca Ahmed, che studia e sta per entrare all’università di Saana; mi accompagna su per i tornanti. Parla bene l’inglese, è gentile, interessato a tutto: parliamo dell’impero romano (a Sahara c’è ancora un incredibile ponte in pietra, costruito dai romani, ancor oggi l’unico collegamento tra due montagne contigue), dell’Italia e di tante altre cose.
E’ così trasparente nella sua gioia di avere, per un’ora, un amico europeo; ammira l’Occidente: per la tecnologia, la democrazia, il benessere diffuso. "Ma l’America no. Gli americani sono prepotenti, dominatori. Io sono dalla parte di Saddam Hussein."
Non so cosa rispondergli.
7 agosto 1992, volo Saana-Roma.
Il viaggio è finito. All’aeroporto di Saana aspettiamo l’imbarco. Soliti passeggeri: turisti occidentali, uomini d’affari dal look internazionale, pochissimi gli arabi con i vestiti tradizionali. Tra essi si nota una donna ricoperta dal velo. Qui fa più impressione.
Sull’aereo la donna parzialmente si scopre, mostrando gli occhi. Poi, rassicurata, scopre il viso.
Più avanti si toglie del tutto il velo, e scioglie i capelli sulle spalle.
Quando l’aereo comincia la discesa si apparta nella toilette; ritorna con un vestito occidentale, la gonna all’altezza delle ginocchia; poi si trucca gli occhi e passa un filo di rossetto sulle labbra.
Al suo fianco siede compiaciuto il marito, contento di una moglie giovane, bella, moderna.