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QT n. 7, 7 aprile 2001 Servizi

Il mio amico Enrico Collini

Enrico Collini, preside, pluriomicida, suicida. La storia di una vita tragica, e di un’amicizia durata dal liceo al carcere.

"Oddio, è stato lui, è stato lui - mi ripetevo stordito dalla notizia del duplice omicidio - Anche se…" Era stato mio amico, amico vero Enrico Collini, il preside suicidatosi nei giorni scorsi, in carcere per l’omicidio del suocero e del cognato.

1963, Cagliari, gita della III A. Enrico Collini è il ragazzo a destra.

Ci eravamo conosciuti sui banchi di scuola, la prima liceo classico. Intelligentissimo eppur ripetente: l’anno prima, sedicenne, era già stato segnato da una tragedia, la morte del padre dopo lunga, atroce malattia: "Il dolore lo aveva incattivito, abbiamo vissuto con una belva in casa - mi aveva confidato - La cosa più triste è che l’affetto se ne va, e ti rimane solo il ricordo di un essere disumano".

Quel dramma però se l’era lasciato alle spalle, o almeno così sembrava. La nostra era una bella classe, avevamo professori di grande fascino e cultura, che ci aprivano la mente al mondo, e con loro era piacevole studiare, apprendere, discutere. Era un ambiente ideale per Enrico: amava studiare e dibattere, con i professori e tra noi studenti. Amava anche scherzare, era sempre ironico, anche troppo: un metodo, una maschera per difendersi, per nascondere le proprie fragilità.

Era un sintomo della sua incapacità di affrontare le sconfitte. Ce ne accorgemmo tutti, quando anch’egli corteggiò la nostra compagna più civetta e carina, e ne fu respinto. Come tutti; ma per lui fu una tragedia, una ferita che, assurdamente, non si sarebbe mai rimarginata. Si costruì un alibi pernicioso: la ragazza preferiva la compagnia di un altro, ma non perché questi fosse più alla mano, più solare, in definitiva più simpatico; ma perché era più ricco. "Ma non dire stronzate!" - gli ripetevamo, inutilmente. Al contrario, lui elaborava teorie consolatorie che lo portavano a pensare in negativo: se era stato rifiutato era perché di famiglia modesta; nella vita, con le donne, contano solo soldi e potere.

1964, compagni di classe al Lido di Levico.

Poi venne l’università e la nostra amicizia si fece più stretta. Per vari motivi i primi anni furono per me un periodo infelice, forse l’unico; lui felice non lo fu mai: studiavamo io a Pavia, lui a Milano, andai a trovarlo un paio di volte, e ci vedevamo sempre ai nostri ritorni a Trento. Era un’amicizia fatta di lunghi discorsi con una persona che apprezzavi e che ti apprezzava; a differenza di altri amici, giustificavo anche la sua ironia sarcastica, il cinismo che si sentiva in dovere di esibire quando si era in compagnia: è un eccesso di difesa, mi dicevo.

Quando finì gli studi, scelse l’insegnamento: "Sbagli - gli dissi - non ti basterà". Sapeva di essere intelligente, era a suo modo ambizioso, teneva alla visibilità, al riconoscimento sociale: ma la scelta logica, la carriera universitaria, non era per lui; temeva troppo il giudizio degli altri, aveva troppa paura delle sconfitte, e troppo orgoglio per sottostare alla gavetta del tirocinio universitario.

Questo mix di orgogli e di timori lo avrebbe sempre frenato: la sua sterminata produzione intellettuale, in anni di studi in tutte le biblioteche del Trentino, sarebbe rimasta sterile, non avrebbe prodotto un foglio di carta stampata. "Ma perché? Cosa fai? Sei ammattito?" - mi disse allarmato quando gli annunciai che non avrei lavorato nella casa editrice di famiglia: gli svaniva l’unica possibilità di un approccio agevole all’editoria, sapeva di non riuscire ad accettare il giudizio di qualcuno, non amico, sul suo lavoro.

Non so se fu un buon insegnante. Talvolta mi parlò delle responsabilità che sentiva nel trasmettere il sapere; ma altre ci scandalizzò vantandosi di sgarbi meschini nei confronti di qualche studente antipatico. "E’ un pezzo di merda" - fu il giudizio tranchant di alcuni amici. Io invece pensavo a debolezze, a stupide vanterie di una persona fragile, cui volevo continuare a voler bene.

Fu soprattutto la storia che ci allontanò; o meglio, il sessantotto. Per me costituì un salto, un’accelerazione brusca nella vita: nuova cultura, nuove priorità, nuovi comportamenti. Enrico rimaneva fermo, a guardare: era affascinato dal fervore che sprigionavano i suoi coetanei, che si sentivano al centro del mondo e della storia; ma era un alieno, mai avrebbe partecipato da gregario, mai si sarebbe sottoposto al giudizio anche feroce di un’assemblea, di un collettivo; e soprattutto era intimamente aristocratico, elitario, con un movimento profondamente egualitario non aveva nulla da spartire.

Come avevo previsto, non si accontentò di essere insegnante. Fece il concorso da preside, che vinse agevolmente. Ma non era il suo ruolo. Un preside è in parte un organizzatore, in parte un mediatore, deve dirigere con un pugno fermo, ma addolcito da molteplici strati di velluto: il professor Collini, umorale, dalle scarse capacità organizzative, con difficoltà nei rapporti umani, poteva anche affascinare all’inizio con la sua cultura, ma nel lungo periodo suscitava scontenti e ostilità, che non sapeva poi gestire, alimentando un circolo vizioso.

Non furono però i suoi limiti a metterlo in contrasto con le autorità scolastiche. Io lo incontrai, per puro caso, nel momento di uno degli snodi decisivi della sua carriera. Fu nello studio di un avvocato, nostro comune compagno di scuola. Enrico mi raccontò di aver scoperto un clamoroso ammanco nella sua scuola, una ruberia sistematica, che attribuiva a una combutta tra il suo predecessore e un dirigente del provveditorato agli studi: voleva fare giustizia, e al contempo regolare i conti con il predecessore, personaggio peraltro di rara arroganza; ma temeva fortemente per possibili contraccolpi da parte dell’autorità scolastica. Io lo incitai a andare avanti, a non aver paura: "Enrico, qua si vede di che pasta sei fatto!".

Fu un consiglio, credo non decisivo, ma comunque sbagliatissimo. La struttura burocratica, dai noti riflessi omertosi, solidarizzò subito con i denunciati. E combattere contro un’amministrazione è possibile se si hanno solide ragioni, ma occorrono lucidità e capacità di tessere alleanze. Enrico, viscerale, queste doti proprio non le aveva. La faccenda si risolse classicamente, all’italiana: verificato l’ammanco, volarono gli stracci (anzi, lo straccio, una segretaria ritenuta l’unica colpevole), mentre i dirigenti ne uscirono immacolati come gigli, e a Collini - l’infame si direbbe ad altre latitudini - fu stroncata la carriera.

Per Enrico fu uno shock tremendo, una esiziale perdita di punti di riferimento. Abbandonò il mondo della scuola. E soprattutto gli crollò ogni fiducia nello Stato, e quindi nella società: ci vide il costante prevalere dell’ingiustizia, dei brutali rapporti di forza. Il cinismo, che prima era solo uno schermo, una difesa, divenne sempre più costitutivo del suo modo di pensare. Non rigettò i principi della giustizia, ma incominciò a rielaborarli secondo criteri sempre più personali, e quindi arbitrari.

Non conosco le sue vicende coniugali. Quando, ormai di rado e casualmente, ci vedevamo, vi alludeva disincantato, con rapidi cenni liquidatori. Rimaneva in lui invece, incredibilmente, l’ossessione per il primo amore, la ragazzina che lo aveva rifiutato ai tempi del liceo. "L’hai più vista? Sai in che città abita, cosa fa?". Una volta, quando gli risposi che non ne avevo la minima idea e che francamente ritenevo bizzarro questo suo interessamento, sfoderò la sua migliore auto-ironia: "Non ti credo. Ma stai attento: se la sposi, mi darai, finalmente, uno scopo per cui vivere: farti le corna!".

In uno dei nostri ultimi incontri, sempre casuali, per strada, mi fece perdere la pazienza: "Ma ancora con questa storia! Vergognati! Hai cinquant’anni, hai avuto una moglie, dei figli, avrai avuto altre donne, e ancora stai a frignare dietro il ricordo della compagna di banco! Ma Enrico - e senza volerlo lo colpii duro - che razza di vita sentimentale hai?". Sbiancò, mi rispose balbettando che no, scherzava, era tanto per dire, figurarsi, non gli interessava più…

Naturalmente non era vero. Il giorno del processo, quando si illudeva di imbastire una vicenda di rilievo nazionale, di attirare l’attenzione dei media, mi si strinse il cuore sentirgli dire: "Di un processo del genere parleranno tutti. Anche lei lo verrà a sapere. E vuoi vedere che questa è la volta buona che me la dà?".

Ci eravamo visti nel periodo immediatamente successivo alla sua separazione. Aveva una strana euforia: "Inizio una nuova vita, ritorno libero" - diceva. Ma si sentiva isolato, e mi pregò di organizzare a casa mia una cena, con gli amici del liceo e dell’università. Lo feci molto volentieri, pensando di potergli dare una mano.

Ma fu un disastro. Durante tutta la serata fu insopportabile: esigeva, pretendeva che la discussione vertesse su quello che lui decideva, che tutti stessero ad ascoltarlo, bacchettava ora questo ora quello. Non c’era verso di arginarlo: in breve sui volti di tutti si dipinse un mesto sorriso di ironica sopportazione. Al momento del commiato due amici, in momenti diversi, trovarono il modo di dirmi: "Ti ringrazio, ci vediamo ancora. Ma la prossima volta, lascia a casa quel tanghero".

Non ce n’era bisogno: lo avevo già deciso due ore prima. Enrico era ormai destinato a essere un animale solitario.

Lo vedevo sempre meno. E ogni volta lo trovavo peggio in arnese, gli occhi un po’ spiritati, parlava per allusioni. Poi iniziarono le lettere: farneticanti, in cui alludeva a complotti, e mi invitava ad indagare su ipotetiche vicende di oscuri malaffari, che Questotrentino avrebbe potuto smascherare. Ormai era fuori dalla realtà.

Così mi misi a rigirare tra le mani una di queste lettere, quando appresi dell’omicidio. "E’ stato lui" - mi ripetevo. Ricordavo i sintomi di follia, percorrevo la triste parabola della sua esistenza, che ora era giunta al fondo.

Anche se non mi tornava il discorso della violenza. Questo non quadrava: mai, né io né gli altri amici, ne avevamo avuto sentore. Poi la polizia scoprì che in casa aveva un arsenale: armi da fuoco, da taglio, esplosivi. E allora i conti tristemente tornarono.

Andai al processo. Fu una rimpatriata: il suo avvocato era il mio compagno di banco del liceo, e c’era pure suo fratello, avvocato anch’egli e carissimo amico. Enrico era elettrizzato: raccontava con grande vivacità della vita in carcere, degli altri detenuti con cui aveva fatto comunella, dell’imminente processo; erano scherzi, lazzi, risate sincere, come ai bei tempi; un carabiniere, scandalizzato da tanta ilarità, venne a redarguirci.

Andai a sedermi due fila dietro, capitando a fianco dei parenti delle vittime. Poi Enrico fece il suo show: schernì il Pubblico Ministero, bacchettò il presidente, rese palese la sua megalomane intenzione di fare del processo una ribalta, un palcoscenico per un grande personaggio, lui naturalmente. Fece anche di peggio: non mostrò alcuna pietà per le vittime; anzi palesò per loro un aperto disprezzo, con espressioni di scherno per il loro livello culturale. Sentivo come ogni sua parola fosse un’ulteriore ferita per la moglie e gli altri parenti che avevo vicini: ogni tanto un gemito, un fremito delle spalle.

Me ne andai provato: Enrico aveva perso l’umanità. In lui ormai prevaleva il Cuore di Tenebra, il lato oscuro che tutti coviamo nei recessi dell’animo.

Non tornai per le altre udienze.

Mi scrisse una lettera dal carcere. Non gli risposi. Quando fu condannato in via definitiva e trasferito altrove, un amico propose di andarlo a trovare. "Ci devo pensare" - risposi. Poi dissi di no: non fino a che non avesse riconosciuto la propria colpa, non avesse mostrato un minimo di umanità verso le vittime.

Qualche anno dopo confessò il delitto. A un amico manifestò, nella sua maniera, una prima forma di pentimento: "Mai potrò essere perdonato per aver ucciso un figlio sotto gli occhi del padre" - gli scrisse, collegandosi a sentimenti antichi, più volte riportati nei classici.

Dieci giorni or sono, un altro compagno del liceo mi si avvicinò e chiese di lui; e se pensassi che si potesse andare a fargli visita. Passeggiavamo nel buio: "Sì - risposi - Adesso sì. Credo che faremo una cosa buona".

Ma il giorno dopo Enrico si uccise.