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QT n. 3, marzo 2024 Servizi

Democratura, la nuova normalità

Come svuotare la democrazia dall'interno senza che (quasi) nessuno se ne accorga.

Da anni sentiamo dire che l’ungherese Orbán è un autocrate (dire dittatore, oggi come oggi, par quasi sconveniente). Ha silenziato stampa e opposizione, ha messo il guinzaglio alla magistratura, ha emanato un’infinita serie di leggi che imbavagliano il parlamento, obbligato i suoi cittadini al lavoro forzato e potremmo continuare. Ciononostante non ci agitiamo più di tanto quando lo vediamo incedere baldanzoso nei palazzi di Bruxelles e non facciamo una piega pensando che dal primo luglio prossimo avrà la presidenza dell’Unione Europea.

Né ci arrabbiamo quando vediamo l’Europa pietire il suo consenso e blandirlo (col nostro denaro) invece che dichiararlo tout court “esiliato” dal consesso europeo.

Solo quando, poco tempo fa, abbiamo visto le immagini di Ilaria Salis portata in ceppi in tribunale abbiamo fatto un salto sulla sedia: “Allora è vero che Orbán è un cattivone!” ci siamo detti.

Perché? Perché solo adesso, dopo anni che Orbán spadroneggia e solo quando abbiamo visto le mani e i piedi inchiavardati della Salis?

“Abbiamo visto” è la parola chiave di questo enigma, perché il nostro cervello “legge” la realtà attraverso un sistema di immagini archiviate nel tempo, di cose che abbiamo già visto.

Allora facciamoci tutti una domanda. Se diciamo “colpo di stato” e “dittatura” quali immagini arrivano istantaneamente nella nostra testa?

Non so voi, ma a me si accendono carri armati nelle strade e militari col fucile puntato che radunano persone ammanettate negli stadi. È l’esperienza della mia generazione, quella che ha visto il golpe in Cile nel 1973 e pianto su “Z, l’orgia del potere” di Costa-Gavras. I fucili spianati, i carri armati e le catene, le milizie assassine - in una parola la violenza senza controllo - sono probabilmente ancora oggi lo schema iconico necessario perché il nostro cervello del 2024 senta con chiarezza che si trova davanti ad una dittatura e percepisca le sue ramificazioni e conseguenze. Ed è proprio a livello di questa percezione che si trova il trucco mimetico usato da svariati autocrati negli ultimi vent’anni, per procedere indisturbati.

“Usa la democrazia per fotterla”

Ce lo spiega molto chiaramente Kim Lane Scheppele, sociologa di Princeton, in uno studio pubblicato peraltro già nel 2018 e che oggi risulta sempre più confermato, purtroppo, dalla realtà.

La Scheppele ricostruisce il modus operandi di una serie di autocrati moderni che sembrano agire in base ad un manuale del piccolo dittatore.

Orbán in prima fila, ma poi anche Erdogan, Putin, il defunto Chavez (e verosimilmente anche il suo allievo Maduro), l’ecuadoriano Correa (anche a sinistra il potere dà alla testa), i polacchi del Pis. Noi, in base al ragionamento proposto dalla studiosa, ci permettiamo, a distanza di cinque anni dalla stesura dello studio, di aggiornare la lista con un probabile Trump e con un quasi certo Netanyahu. Per l’argentino Milei le notizie che arrivano da Buenos Aires parlano da sole.

La prima regola del manuale è: “Usa la democrazia per fotterla” (chiediamo venia, ma è il vocabolo più adatto).

Il presupposto dell’ascesa al potere è sempre quello di uno stato di crisi: economica certamente, ma non solo. Soprattutto crisi di fiducia nelle istituzioni pubbliche, e quindi di legittimità sostanziale, presso i suoi cittadini.

Il passo successivo è sollevare le folle contro l’establishment e dichiarare di essere l’uomo (o la donna) del popolo. Cosa che fa stravincere le elezioni all’autocrate in pectore. Tutto perfettamente democratico. “Lo ha voluto il popolo” è il refrain di questo tipo di autocrati. E fin qui è banale populismo che conosciamo fin dall’antichità.

Ma è quel che succede dopo l’ascesa, democratica, al potere che cambiano le carte in tavola. Perché da quel momento parte un’onda “trasformativa”.

Orbàn
Erdogan
Milei

Il primo sospetto di legalismo autocratico - così lo chiama Scheppele, n.d.r. - è quando un leader democraticamente eletto sferra un attacco concertato e prolungato alle istituzioni che hanno il compito di controllare le sue azioni o alle regole che lo obbligano a rendere conto del suo operato, anche quando lo fa in nome del mandato democratico. Allentare i vincoli costituzionali sul potere esecutivo attraverso una riforma giuridica è il primo segno”.

Orbán, in questo senso, ha avuto vita facile: la costituzione ungherese, come quasi tutte, richiede i due terzi del voto parlamentare per essere modificata. Una maggioranza di solito impossibile per un solo partito, ma lui aveva ottenuto il 68 per cento dei seggi parlamentari. E così ha attaccato l’indipendenza della magistratura, dei media, della pubblica accusa, delle autorità fiscali (perché Bruxelles continua a dare soldi a Orbán che non fa altro che distribuirli ai suoi amici?), della commissione elettorale.

Ma per non apparire dittatoriale e sollevare una reazione immunitaria generale, anche Orbán doveva mascherare le sue intenzioni. Lui, ma pure Erdogan, ad esempio, hanno fatto così: hanno gonfiato a dismisura le competenze delle loro rispettive corti costituzionali, cosa che ha richiesto la nomina di un numero considerevole di nuovi giudici. Tutti ovviamente fedeli al partito del presidente. Ed ecco fatto come si controlla la corte. I polacchi del Pis invece hanno modificato i criteri di nomina dei giudici costituzionali, come prima cosa. Una variante sul tema.

Ma per avere poi il controllo di tutta la magistratura, Orbán ha abbassato l’età della pensione dei magistrati, mandando a casa molti giudici autorevoli e sostituendoli con persone fedeli al suo partito. I polacchi invece hanno dato direttamente al ministro della giustizia il potere di licenziare i presidenti dei tribunali.

Putin ha cominciato da un punto diverso del sistema. Una volta eletto democraticamente, aveva riorganizzato la struttura amministrativa del paese eliminando l’elettività dei governatori locali, sostituiti con persone nominate direttamente dal presidente. In un paese sconfinato come la Russia, questo significa avere il controllo ferreo di quel che succede.

In Sudamerica, invece, sia Chavez che Correa hanno convocato assemblee costituenti con cui riscrivere la costituzione e attribuire premi di maggioranza esorbitanti. Un campanello di allarme per noi: mentre ci parlano di premierato dovremmo ricordarci che c’è anche questa idea che continua a rimbalzare. Più potere al capo del governo coniugato ad un premio di maggioranza un po’ obeso non sono belli da vedere, eh!.

Anche se Scheppele ha scritto già cinque anni fa, siamo certi che anche l’israeliano Netanyahu sarebbe nella sua lista come apprendista, visto il suo progetto di sottoporre la Corte suprema israeliana al controllo del potere politico, dando al governo un grande peso nella selezione dei giudici e togliendo alla corte il controllo costituzionale delle leggi. Gli israeliani, a dire il vero, se n’erano accorti e, prima del 7 ottobre, stavano manifestando da mesi contro questa riforma.

Quanto a Trump, nel 2018 quando la ricerca è stata fatta, non aveva ancora dato il meglio di sé.

A questo punto gli esempi sono troppi per darvene conto completamente. Ma lo schema sottostante è quello di trasformare il costituzionalismo in maggioritarismo. Ovvero: un sistema costituzionale sano è capace di reggere tensioni e anche di trovare le sintesi corrette delle diverse spinte politiche perché funzionano i pesi e contrappesi del meccanismo. Cosa ben diversa dalla pura volontà della maggioranza che non fa sintesi, ma impone semplicemente il volere dei più. Spesso personificato dal volere del capo che non dimentica mai di ricordare a chi lo critica che lui ha vinto e questo deve bastare. E anche questo dovrebbe far scattare un allarme per noi.

Perché non scatta l'allarme?

Nella seconda parte dello studio, la Scheppele individua in dettaglio il meccanismo per cui a fronte di quel che abbiamo finora detto, non c’è stata quasi mai una reazione travolgente dell’opinione pubblica interna e internazionale.

Il primo trucco dei nuovi autocrati - scrive - consiste nel fare affidamento sugli stereotipi delle dittature che stanno nella testa delle persone”. Riferendosi a Hitler e Stalin (ma lo stesso vale per il Cile e altri esempi) così riassume: “In entrambi gli scenari la concentrazione del potere è brutale, completa e del tutto evidente. Entrambe le narrazioni presentano leader che giustificano ciò che stanno facendo in nome di una forte ideologia autoritaria. L’avvento dell’autoritarismo è accompagnato dalla presa violenta del potere e dalla distruzione delle precedenti istituzioni politiche. Gli agenti della distruzione sono paramilitari irregolari, polizia segreta e organi di partito che vengono dall’esterno del sistema per schiacciarlo”.

Il potere, continua la studiosa, è monopolizzato è c’è violazione dei diritti umani su scala di massa.

Quando succedono queste cose, afferma, “sai che sei nei guai” e questi sono i segnali che il pubblico riconoscerà come pericolo imminente.

Ma, prosegue Scheppele, le persone si aspettano che accadano proprio questo tipo di fatti e, se non avvengono, si convincono che il pericolo non sia poi così grande. Nella loro testa non si accende l’allarme destato dai carri armati e dalle milizie scatenate.

Anche perché i moderni autocrati si premurano di “non ripetere quegli scenari ben noti”. Sono ideologicamente flessibili e “lasciano in gioco quel tanto di dissenso da sembrare tolleranti... In questi regimi si troverà sempre una manciata di piccoli giornali di opposizione, alcuni partiti politici deboli, alcune Ong favorevoli al governo”.

Non c’è stato di emergenza, né violazione dei diritti umani in massa, non ci sono carri armati nelle strade. Chi si oppone al regime viene cacciato dal paese invece che incarcerato e si usa contro di lui l’arma economica: licenziamento dal lavoro, perdita di benefici sociali, sfratti di casa per piccoli motivi pretestuosi; le associazioni vengono private di ogni finanziamento, la stampa di opposizione è strangolata economicamente facendole mancare in toto la pubblicità e via dicendo.

Qui dobbiamo fare un inciso.

Chi ha studiato la storia, sa che queste cose sono accadute in ogni regime visto finora. Un esempio per tutti: i docenti universitari che non erano iscritti al partito fascista venivano cacciati dalle università. Per questo Scheppele parla di una “sottonarrazione” delle dittature che nel tempo è stata poco valutata, ma che è effettivamente sempre esistita. Oggi è quello il livello di repressione che gli autocrati utilizzano in tutte le sue, notevolissime, potenzialità senza grandi contraccolpi. Fino al momento in cui vediamo Ilaria Salis in catene. Probabilmente quell’immagine ha fatto veri danni al regime di Orbán: non a caso adesso l’Unione Europea si sta domandando se sia davvero opportuno lasciargli in mano la presidenza dell’Unione Europea tra qualche mese.

Alla fine però dobbiamo anche domandarci come stiamo noi in Italia. Che, siamo seri, non è l’Ungheria. Ma quando ci parlano del premierato noi, in sottofondo, un campanello d’allarme lo sentiamo.

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