Il grande inquisitore
La leggenda del Grande Inquisitore è sempre, e purtroppo ora più che mai, attuale. In essa Dostoevskij racconta di Gesù che ritorna sulla terra ai tempi dell’Inquisizione. Viene subito arrestato, sbattuto in galera, e così apostrofato dal Grande Inquisitore: “Ma cosa sei tornato a fare? Credi che al popolo interessi la tua libertà? La libertà è un peso insopportabile, la gente non la regge, vuole essere guidata. Domani ti farò giustiziare in piazza, e il popolo ti sputerà in faccia, ed entusiasta mi osannerà”.
E’ questa la dinamica che crea le dittature. Quella su cui gli autocrati odierni, da Putin a Orbàn a Xi, contano, per contrastare e sconfiggere le imbelli democrazie, ricche e decadenti.
In effetti, i segnali di incipienti sgretolamenti sociali, ci sono. A partire dall’inversione delle aspettative della gente. Mentre in quella che lo storico Eric Hobsbawm chiama (almeno per l’occidente) “l’età dell’oro”, dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ’80, in cui ogni generazione poteva ragionevolmente sperare di vivere meglio della precedente, siamo nella situazione attuale di un progressivo, costante, generale arretramento delle disponibilità economiche e dei servizi sociali (a fronte di un’esplosione delle disuguaglianze). Nelle democrazie rischia di rompersi il patto sociale: lavoro e voto perché io e soprattutto i miei figli possiamo vivere meglio. Per tantissimi non funziona più.
Questo ha generato la crisi della politica, responsabile e al contempo vittima di questa involuzione. Di qui le derive autolesioniste: i sovranismi, l’incredibile Brexit, il trumpismo, la diffusione programmata dell’odio verso una categoria debole. Dalla padella alle brace.
In parallelo si registra un’involuzione della cultura di massa, con il diffondersi di un individualismo esasperato: il professore universitario che a pagamento elargisce consulenze farlocche, il giovane che proclama: “Crisi della sanità? Me ne frego, io diventerò ricco e mi pagherò quello che mi servirà”, il rapper che esalta lo stupro, il commentatore sportivo che incensa il cinismo dell’atleta che imbroglia, l’animatore che sbertuccia l’impegno scolastico. Sono tutti sintomi di un autentico inquinamento sociale.
Gli anticorpi? Ci sono. Non è un caso che in Turchia e Polonia abbiano vinto partiti che avevano messo al primo punto il ritorno alla democrazia; che sullo stesso tema anche nella disgraziata Israele ci sia un imponente movimento di massa; che in Italia il film di maggior successo parli dell’umile resilienza negli anni del dopoguerra di una donna oppressa dal maschilismo, e ne faccia partire la rivincita (“C’è ancora domani”) dalla conquista del voto; che oggi il personaggio più popolare sia uno sportivo che non della sbruffonaggine, ma della gentilezza, dell’umiltà, dell’etica del lavoro ha fatto la sua cifra comunicativa ed esistenziale.
La battaglia, insomma, non è persa.
Però non può essere solo culturale. O meglio, dovrà riuscire a combattere con maggior puntualità l’individualismo. A iniziare da quello sotteso al rifiuto, al disprezzo verso le tasse. Che significa rifiuto di una visione comunitaria della società.
Perché noi pensiamo che la democrazia sarà difendibile e difesa solo quando riuscirà a dare risposte alla gente, innanzitutto attraverso una drastica riduzione delle disuguaglianze. Altrimenti rischiano di aver ragione sia il Grande Inquisitore (se il voto a nulla serve, la folla acclama il demagogo) sia Putin (la democrazia non riesce a prendere decisioni scomode).