Morte di una nazione
Il fallimento delle politiche populiste in Venezuela e in Sudamerica
In ampi settori della politica europea (soprattutto a sinistra) è diffusa l’idea che presidenti come Hugo Chàvez (1999-2013) e Nicolàs Maduro (dal 2013) in Venezuela, Néstor e Cristina Kirchner (2003-2016) in Argentina e Rafael Correa (2006-2017) in Ecuador siano l’esempio di una nuova sinistra radicale, alternativa e (fino ad alcuni anni fa) vincente rispetto al modello capitalista imperante. La sintonia tra questi governi e politici di spicco della politica europea è stata costante negli ultimi anni, e spesso non disinteressata, anzi lautamente retribuita, come vedremo più avanti. Qui anzitutto ci preme spiegare le dinamiche che hanno portato questi movimenti populisti al potere a rovinare le loro nazioni, anche quando – vedi il Venezuela – erano potenzialmente molto ricche.
Prima di tutto è totalmente falso che in Venezuela, e in quasi tutti i paesi della regione, sia in corso una lotta tra movimenti di sinistra rivoluzionari e una destra dittatoriale o neoliberista. Buona parte degli attuali movimenti di opposizione sudamericani in Europa sarebbero classificati come partiti di ispirazione socialista che credono nella democrazia – soprattutto in una vera separazione tra il potere politico e quello giudiziario – e nella necessità di non soffocare il mercato burocratizzando e statalizzando l’economia.
Queste opposizioni soprattutto rinnegano l’idea di un sistema politico basato sul culto della personalità del leader, sulla lealtà indiscussa nei suoi confronti, sulla coincidenza tra il concetto di Stato e quello di Governo, tale per cui chi lavora come dipendente pubblico debba eterna gratitudine al governo che lo ha assunto: vedi l’obbligo (non de jure ma de facto), soprattutto nei momenti di crisi, di partecipare alle manifestazioni filogovernative.
Un modello che non poteva funzionare
[p]Se è vero che gli avvenimenti in Venezuela non sono lontanamente comparabili con quanto accaduto negli altri paesi menzionati (in Argentina come in Ecuador le elezioni hanno portato a un avvicendamento di presidenti con una visione e uno stile molto differente, mentre in Venezuela la cupola militare che ha governato il paese dall’avvento di Chàvez sta cercando di rimanere ad ogni costo al potere per timore della giustizia, basti pensare ai molteplici processi per narcotraffico aperti negli Stati Uniti contro molti dei militari venezuelani) nell’ultimo decennio tutti questi paesi hanno condiviso una visione della società e dell’economia nella pratica risultata insostenibile.Si è dimostrato irrazionale un modello che pretendeva di redistribuire ricchezza e garantire servizi pubblici gratuiti per tutti senza quasi produrre e, per di più, senza l’esistenza di un vero sistema fiscale: se i ricchi pagano poche tasse, il ceto medio quasi nessuna. Di conseguenza, come nel caso dell’Ecuador, la maggior parte delle entrate fiscali proviene dai dazi doganali e dalle tasse sulle attività economiche, col risultato che comprare qualsiasi tipo di prodotto, anche basico, costa più che in Italia. Puro populismo, totalmente insostenibile, che non ha nulla da condividere con il modello socialdemocratico alla base del welfare europeo; e che fungeva invece da moneta di scambio per coprire la corruzione e lo smodato arricchimento dei capi militari. Di qui, di fronte ai sussulti dei prezzi delle materie prime (in particolare il crollo del prezzo del petrolio) la crisi del paese.
E anche la fuoriuscita dalla povertà di molti settori della popolazione, tanto propagandata dai governi sudamericani e celebrata anche da molti intellettuali nostrani, è stata garantita in buona parte da misure temporanee basate su sussidi di poco valore economico ma dall’alto impatto elettorale, che hanno sì ridotto la povertà estrema da un punto di vista statistico – con un guadagno pro-capite superiore a 1,25 dollari al giorno – ma non in modo strutturale, in quanto non sono mai state associate a obblighi nell’accesso al sistema educativo o alla ricerca di un lavoro. Risultato, una volta che per motivi economici si dovessero ridurre o eliminare questi sussidi, o per colpa dell’inflazione non dovessero essere più sufficienti a coprire il costo della vita, la maggior parte delle persone ritornebbe in una condizione di estrema povertà.
Altra strategia politica è stata quella di aumentare in modo spropositato il numero di dipendenti pubblici e, nel caso dell’Ecuador, gli stipendi, soprattutto per i posti dirigenziali. Basti pensare che durante il governo ecuadoriano di Correa sono stati in funzione a livello centrale 21 ministeri, 6 ministeri coordinatori e 11 Segreterie di Stato. E dato che tutte queste entità erano considerate ministeri, tutte le autorità a capo guadagnavano come ministri e avevano diritto ai propri viceministri, sottosegretari, direttori di dipartimento, assessori, analisti, tecnici e vari SUV; il tutto ripetuto nelle succursali che questi organismi possiedono in ognuna delle 9 zone, o in alcuni dei 140 distretti del paese; che, ricordiamolo, ha poco più di 16 milioni di abitanti).
Ci sono stati sicuramente aspetti positivi in Ecuador - ed è uno dei dati che lo rende profondamente differente dal Venezuela. Nell’ambito della sanità e dell’educazione sono stati fatti ingenti investimenti per migliorare la qualità delle infrastrutture e del personale – attraverso un sistema di valutazione annuale o mediante pratiche di assunzioni di docenti dall’estero, incentivati da stipendi molto alti, se in possesso di un dottorato. Attraverso una lungimirante politica di borse di studio, il governo ha permesso nell’arco di 5/6 anni a più di 10.000 studenti ecuadoregni, indipendentemente dall’estrazione sociale, di studiare all’estero, anche nelle migliori università del mondo - Harvard, Yale, Stanford, MIT, Oxford, Cambridge, London School of Economics, solo per citarne alcune. Grazie all’azione congiunta con organismi internazionali come il Banco Interamericano di Sviluppo, il paese è stato modernizzato e l’amministrazione pubblica resa più efficiente.
Allo stesso tempo, per tutta una serie di cause, queste politiche positive sono state realizzate a costi altissimi, totalmente gonfiati, e soprattutto senza considerare la necessità di garantire un minimo di equilibrio con le entrate a disposizione. L’idea fortemente propugnata dal presidente Correa che si fosse in una situazione di emergenza nella quale tutto doveva essere fatto rapidamente senza perdere tempo in valutazioni e controlli ha chiaramente facilitato il diffondersi della corruzione, soprattutto attraverso il moltiplicarsi dell’uso di meccanismi di aggiudicazione diretta, senza il bisogno di giustificare la necessità e i costi di opere e servizi pubblici.
Esistono altri fattori che hanno facilitato lo sperpero di denaro pubblico. Per esempio, la limitata durata delle pene, soprattutto se il reato è commesso da un privato cittadino, cosa che ha incentivato l’utilizzo da parte dei funzionari pubblici di famigliari come prestanome per le società intermediarie. Inoltre, il forte controllo esercitato dall’esecutivo e dal presidente sul sistema giudiziario specialmente sugli organi creati appositamente per controllare la corruzione nel sistema pubblico, cosa che permette che le denunce verso i politici di spicco rimangano chiuse nel cassetto fino a che per motivi di interesse politico non sia di maggiore utilità che ritornino alla luce; il divieto di permettere ai parlamentari di accedere alla documentazione dei vari ministeri se non attraverso richiesta formale al presidente del Parlamento, il quale, legato com’è al governo, in genere rifiuta l’accesso; infine l’inesperienza diffusa di ministri e tecnici, data la giovane età di molti di essi.
In Ecuador la crisi economica è stata al momento molto limitata – anche grazie al fatto di utilizzare una moneta forte come il dollaro statunitense, rendendo meno competitive le esportazioni ma mantenendo stabile l’inflazione; invece in Venezuela, alle prese con un’inflazione vertiginosa, in questo momento la quasi totalità delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà, la denutrizione infantile è ormai un problema generalizzato e le medicine sono quasi introvabili se non a prezzi esorbitanti. Nel caso venezuelano sono bastati poco più di 15 anni di populismo per fare terra bruciata di tutto il benessere di un paese ricchissimo di risorse.
Perché solo adesso?
A questo punto sorge la domanda: come mai i nodi al pettine sono venuti così tardi, a situazioni ormai incancrenite?
Due i motivi: l’incremento vertiginoso del petrolio tra il 2005 e il 2015, che ha permesso di occultare la corruzione e l’inefficiente gestione delle risorse; e la debolezza del sistema giudiziario, ulteriormente avvilito dalle riforme attuate dai governi (con i consigli dei populisti spagnoli di Podemos), con il preciso intento di sottomettere il potere giudiziario al potere politico, con la scusa che si tratterebbe di un maggiore avvicinamento alla volontà popolare. La mancanza di autonomia (spesso auto-imposta) dei giudici è risultata lampante in Ecuador.
Ora che il precedente presidente ha lasciato il potere dopo 10 anni di governo e i suoi uomini di fiducia sono stati emarginati, improvvisamente la magistratura ha cominciato ad aprire contro di loro processi, con grandi quantità di prove, relative anche a eventi accaduti molti anni addietro. Cioè, i giudici già da tempo erano in possesso di prove contro molti uomini politici, ma fino a quando il presidente è rimasto in carica non hanno potuto - e voluto, per non compromettere la propria carriera - muovere un dito. Soprattutto perché lo stesso presidente si è sempre speso, in modo energico, per difendere i suoi uomini. Cosa peraltro strana per un presidente che probabilmente era uno dei pochi onesti all’interno del governo, ma che è forse rimasto vittima della sua stessa propaganda, che poneva al primo posto la lotta contro i poteri forti, la corruzione, la casta, e non poteva riconoscere la pur palese disonestà al proprio interno. Per inciso, questa è la strategia adottatta, oltre che dai populisti sudamericani, anche da quelli europei targati “5 stelle” e “Podemos”: se si appartiene al loro gruppo si deve essere considerati antropologicamente onesti, in caso contrario criminali certi.
Vale la pena sottolineare come questo risveglio dei giudici dovuto solamente a un cambiamento politico non sia necessariamente di per sé positivo. Fino a quando non sarà garantita la totale autonomia della magistratura tutti i processi potranno essere visti come un regolamento di conti del nuovo potere nei confronti del precedente. E infatti, l’attivismo giudiziario contro ministri e burocrati della vecchia stagione non è certamente accompagnato da una analoga verve nel controllo dei nuovi potenti.
L’informazione impossibile
Esiste poi un altro fattore che accomuna questi regimi populisti del Sudamerica: il terrore che l’informazione possa circolare liberamente. Ovviamente non l’informazione celebrativa, ma quella critica che, per assioma, deve automaticamente essere considerata falsa e frutto solo dell’interesse di destabilizzare il loro sistema. Nel libro “Omaggio alla Catalogna”, Hemingway affermava che il movimento stalinista della resistenza spagnola, a forza di credere che gli altri movimenti passassero il tempo a produrre propaganda falsa nei loro confronti, finivano con l’essere i principali produttori di falsi, usati per eliminare la concorrenza. Nel caso dei populisti sudamericani e pure europei il meccanismo sembra lo stesso.
Non esistono errori da parte loro, non esiste una realtà che stia sconfessando il loro operato, i loro problemi sono solo frutto di una macchinazione da parte di poteri forti, ogni volta differenti a seconda del caso: i banchieri, la stampa, le multinazionali, i giudici che fanno politica, l’impero USA o i politicanti corrotti che governavano prima e che ora vogliono tornare al potere. Ed ecco quindi la necessità in tutti questi paesi di “regolare” l’informazione: con pene amministrative e potenzialmente detentive per chi pubblica articoli di critica verso il governo e il presidente se valutati come non obiettivi dal ministero creato appositamente con questo compito (Superintendencia de Informaciòn y Comunicaciòn); creazione di programmi televisivi della durata di più ore durante i quali il presidente si esibisce a reti unificate – pena forti multe per censura lesiva dell’interesse pubblico per i canali privati che decidessero di non trasmettere – in proclami durante i quali celebra, senza un minimo di confronto, il proprio operato e deride (e spesso minaccia) apertamente le opposizioni e la stampa che lo critica. Tutto condito da musica, canti, balli e barzellette.
E se proprio la realtà non riesce ad adattarsi ai proclami di governo, si passa alla falsificazione dei dati.
Esempio ampiamente conosciuto è certamente l’Argentina di Néstor e Cristina Kirchner, ma anche l’Ecuador di Correa non sembra essere stato da meno. Un mese dopo il cambio di governo, nonostante il nuovo presidente provenisse dal medesimo partito del predecessore, sono stati finalmente pubblicati dati veritieri (in realtà ampiamente noti all’interno del settore pubblico) sul debito: non il 27% del PIL, ma più o meno il 60%, cifra non facile da gestire da un paese in via di sviluppo. A questo dato va aggiunto il debito derivante dalla prevendita del petrolio principalmente ai cinesi. Questo valore non è ancora stato aggiunto in quanto negli ultimi dieci anni le condizioni di vendita del petrolio ai paesi esteri sono state tenute nascoste, perché contemplanti prezzi spesso molto più bassi dei valori di mercato, e perché comprendenti lauti compensi agli intermediari, in vari casi imprese legate, tramite prestanomi, ai politici e tecnici del governo. E qui è doveroso notare come le stesse persone che avevano condannato duramente la svendita delle risorse naturali del proprio paese durante il periodo neoliberista, hanno poi fatto lo stesso una volta al potere. Il problema è che a causa delle insostenibili politiche di brevissimo raggio adottate dal precedente governo, molto probabilmente sarà necessario eliminare buona parte dei servizi e delle migliorie introdotte durante l’ultimo decennio.
“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni” – scriveva Karl Marx. Questo proverbio credo possa riassumere perfettamente la storia dei governi populisti in Sudamerica degli ultimi 20 anni.
Politici provenienti dal ceto medio e arrivati al potere sull’onda del malcontento generalizzato prodotto dalle catastrofiche politiche liberiste che hanno affamato la maggior parte della popolazione sudamericana e che hanno creato profonde fratture tra le classi sociali, hanno preferito assecondare totalmente le nuove pulsioni maggioritarie nella società, senza alcun freno e spirito critico, con l’obiettivo sia di dare una risposta rapida ai propri elettori sia di permanere al potere e nelle condizioni di agiatezza che questo permette.
Il risultato sono state politiche altrettanto irrazionali rispetto a quelle dei predecessori: ai tagli indiscriminati alla spesa sociale e alla mancanza di investimenti hanno risposto con un’esplosione della spesa pubblica sia corrente sia per investimenti non accompagnata da equivalenti produzione di ricchezza o aumento delle tasse; al culto della libertà assoluta del mercato hanno risposto con una statalizzazione generalizzata dell’economia; e all’impunità e al potere soverchiante dei latifondisti e dei grandi imprenditori hanno risposto con quella dei burocrati di Stato, o meglio, burocrati di Governo, dato il sistema di spoil system introdotto.
E poi, sì, la corruzione endemica, ma questo forse è l’unico elemento di perfetta continuità con il passato, e in realtà comune alle società europee all’interno delle quali i populisti sono forti e con buone possibilità di andare al potere.
Gli aiuti europei
Dicevamo in apertura di come questo disastro politico-sociale abbia trovato dei supporter, anzi dei veri cantori, tra i politici europei. Un’azione di supporto tutt’altro che disinteressta. In Ecuador e Venezuela, per esempio, sono state varie le consulenze molto costose e di dubbia utilità vinte dai principali esponenti del partito spagnolo Podemos. Per esempio, i 425.000 euro ricevuti da Juan Carlos Monedero (cofondatore di Podemos) dai governi venezuelano, ecuadoriano e boliviano nel 2013 per una consulenza della durata di un paio di mesi sulla possibilità di creare una moneta unica nei paesi della regione andina. Proposta chiaramente gonfiata nei costi e mai discussa dai vari parlamenti della regione. O i 4 milioni di euro pagati per consulenze e corsi sulla globalizzazione tra il 2002 e il 2012 dal governo venezuelano alla fondazione CEPS, i cui membri direttivi sono stati negli anni Pablo Iglesias, Iñigo Errejòn e Juan Carlos Monedero del partito Podemos. O i 25.000 dollari pagati dallo Stato ecuadoriano nel 2008 a Errejòn per aiutare nel processo di riforma “democratica” dello Stato.
Per non parlare del lavoro dell’ex premier spagnolo Zapatero, impegnato da alcuni mesi a convincere l’opposizione venezuelana – in realtà, dati i numeri, la quasi totalità della società – della bontà del progetto di Maduro di indire una assemblea costituente con l’intento di ristabilire la pace sociale in un Paese stremato dalla fame. E sarebbe interessante capire in cosa consisterebbe la bontà del progetto.
Infatti, dopo aver impedito le elezioni amministrative locali, nonostante i termini naturali delle legislature fossero scaduti da oltre un anno, il partito del presidente Maduro, conscio della sconfitta certa alla quale sarebbe andato incontro, si è inventato una costituente che segue meccanismi totalmente differenti da quelli di una normale (e onesta) elezione. Non hanno potuto partecipare gli esponenti dei partiti politici – tranne gli esponenti del governo che si sono dimessi giusto poco prima della scadenza dei termini per potersi candidare, e si è dato vita a una clamorosa rappresentanza territoriale sostanzialmente indifferente al numero di abitanti, tale per cui la maggioranza dei circa 550 deputati eletti proviene dalle aree rurali disabitate (ma elettoralmente molto fedeli al governo), anziché dalle aree urbane, popolose ma apertamente anti-governative; e a questi rappresentanti si sono aggiunti circa 200 rappresentanti dei “settori sociali”, cioè associazioni e corporazioni filogovernative.
Risultato, una nuova assemblea “ad hoc” nella quale il governo gode della maggioranza assoluta, e che potrà chiudere il parlamento eletto con le ultime elezioni legali del 2015, in cui due terzi degli scranni erano delle opposizioni.