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La riforma del premierato: un pericolo per la democrazia

Rolanda Mora

Nel consiglio dei ministri del 3 novembre il governo ha approvato i cinque articoli del disegno di legge di riforma costituzionale che introduce l’elezione a suffragio diretto del presidente del Consiglio contestualmente a quella delle Camere. Cinque articoli che, a detta della maggior parte dei costituzionalisti, rischiano di sconquassare l’assetto istituzionale della nostra Repubblica parlamentare, rompendone il delicato sistema di divisione ed equilibrio dei poteri.

Un potere senza il contrappeso del parlamento

Ribaltando l’attuale rapporto di dipendenza tra potere esecutivo e legislativo, il Parlamento finisce per svolgere un ruolo defilato e di natura quasi notarile rispetto al capo dell’esecutivo.

La stessa fiducia del parlamento al governo non è più una libera scelta, ma una scelta obbligata su ipotesi predefinite dalla legge, pena lo scioglimento delle camere.

Al risultato concorre in particolare la norma cosiddetta antiribaltone, che vorrebbe impedire i cambi di maggioranza e i governi tecnici, ma che in realtà finisce per comprimere la libertà del Parlamento, che si vede costretto in caso di crisi politica durante il mandato del primo governo a dare la fiducia, pena lo scioglimento, ad un secondo governo presieduto sempre dal premier eletto o da un premier scelto tra i parlamentari della maggioranza. Non è più possibile dare la fiducia a un governo presieduto da una persona esterna al Parlamento. Una possibilità, questa, che in un contesto di fragilità della politica, dei partiti e del tessuto socio-economico, aveva consentito al Capo dello Stato e al parlamento, in momenti difficili della nostra storia recente, di attingere a risorse e competenze presenti nel Paese anche se esterne a partiti e Parlamento.

I rischi di un sistema ingessato

Questa norma antiribaltone crea una asimmetria tra il premier e il parlamento. In caso di crisi del governo, il nuovo (presieduto dal precedente premier o da un altro) dovrebbe chiedere la fiducia per attuare l’indirizzo politico e gli impegni programmatici del precedente. Con ciò si sottintende che il premier o il suo governo fossero inadeguati e quindi intercambiabili, mentre il programma deve rimanere ossificato anche se è trascorso tempo e sono mutate le condizioni. E se le situazioni cambiano, anche le soluzioni devono poter cambiare. E qui il cambiamento è possibile solo attraverso il ricorso al voto, che è prevedibile risulterà molto, troppo frequente, con conseguente ulteriore disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e della politica. È probabile inoltre che con il premierato elettivo lo scontro elettorale sia ulteriormente personalizzato e il populismo delle soluzioni semplici a problemi complessi venga rinforzato.


Un potere senza il contrappeso del Capo dello Stato

Fissando un diverso modo di elezione del Presidente del Consiglio si crea automaticamente uno squilibrio di potere a vantaggio di questa figura. Situazione temibile, perché rompe un altro delicato meccanismo di pesi e contrappesi sul quale si basa il nostro sistema democratico.

Oggi la Costituzione assegna al Capo dello Stato un importante ruolo di mediazione, di arbitro e di garanzia nella formazione dei governi e nella gestione di situazioni di crisi con prerogative di scelta fra varie ipotesi, che con la riforma sono fisse e obbligate. Di fatto si fa scivolare anche la carica del Capo dello Stato verso un ruolo più notarile. Chi guida il governo potrebbe non avere più bisogno di negoziare le proprie decisioni con altri: né con le camere né con la sua stessa maggioranza, della quale diventerebbe un dominus, grazie alla propria legittimazione diretta, al premio di maggioranza e alla possibilità di ventilare lo spettro dello scioglimento delle Camere.

E ancora: a eleggere il Presidente della Repubblica sarebbe un parlamento fedele al Presidente del Consiglio. Per questo indebolire il ruolo del Capo dello Stato in un momento in cui è riconosciuto dai cittadini come unico punto di riferimento istituzionale stabile, rispetto alla mutevolezza e alla fragilità delle istituzioni più direttamente politiche, è grave e pericoloso. A maggior ragione in una società che, fin troppo divisa e conflittuale, sente fortemente il bisogno di una figura super partes, garante dei valori comuni e dell’unità nazionale.

Governabilità forzosa non è per niente sinonimo di salute della democrazia.

La Carta Costituzionale saggiamente non impone alcun modello elettorale e lascia al parlamento piena discrezionalità nella scelta dei singoli sistemi elettorali con legge ordinaria. La riforma Meloni rompe questa impostazione con l’assegnazione in Costituzione di un premio di maggioranza che garantisce il 55% dei seggi in ciascuna camera alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio vincente, dimenticandosi totalmente di inserire un solido quorum minimo a garanzia del principio di rappresentatività, che viene solo citato come riferimento per una futura legge elettorale. In tal modo contribuisce a delineare un modello in cui la stabilità di una persona e del suo governo prevale su tutto a costo di sacrificare l’equilibrio dei poteri e il principio supremo della rappresentatività. Il rischio che si possa governare il Paese blindati da un premio di maggioranza costituzionalmente garantito avendo ottenuto solo il 30% dei consensi può diventare realtà.

Democrazia non è plebiscitarismo

Con questa impostazione della riforma si può ben dire che la visione di democrazia sottesa al premierato elettivo è frutto di una concezione della politica come delega di potere ad un capo investito della funzione istituzionale ogni 5 anni, o quando ce ne fosse bisogno in caso di crisi. Un capo al quale non è stato posto nemmeno il limite dei due mandati come antidoto istituzionale alla prolungata concentrazione di potere in una sola persona. Limite, questo, in genere, stabilito negli Stati democratici, in cui è prevista l’elezione diretta del Presidente al fine di salvaguardare quei principi di equilibrio e divisione dei poteri che caratterizzano le democrazie occidentali.

La pericolosa accoppiata:

premierato elettivo e autonomia differenziata delle Regioni

L’obiettivo del governo è far approvare la riforma costituzionale dalle due camere, in prima lettura, entro le elezioni europee, con l’impegno di far approvare contestualmente, almeno in un ramo del Parlamento, come sta avvenendo, l’autonomia differenziata delle Regioni.

Più potere del governo centrale da un lato compensato da una maggiore autonomia delle Regioni dall’altro. Una ricetta semplicistica e superficiale dell’assetto istituzionale che non tiene in considerazione il pericolo maggiore insito in entrambe le riforme: la disgregazione dell’unità nazionale.