La storia del lupo cattivo
La crisi russo-ucraina: una guerra per procura
La percezione di che cosa sia veramente in gioco nella guerra tra Russia e Ucraina si sta lentamente ma inesorabilmente facendo strada tra le popolazioni dell’Europa Occidentale e persino tra l’opinione pubblica del nostro Paese, frastornata in questi due mesi di guerra da una informazione a dir poco molto emotiva e politicamente sbilanciata. Massimo Giannini, direttore de La Stampa, ha ammesso durante la trasmissione serale del 29 aprile condotta da Lilly Gruber che questa è ormai “una guerra per procura” della NATO contro la Russia di Putin - e certamente Giannini non si può definirlo un sovversivo o peggio ancora un “putiniano”. Giuseppe Conte ha messo i puntini sulle “i” riguardo la penosa questione dell’invio di armi all’Ucraina invasa, precisando che di mandare “armi offensive” non se ne parla.
Ma è forse Giorgia Meloni – candidata in pectore a primo ministro, in caso di vittoria alle prossime elezioni - che ha stupito più di tutti con una dichiarazione importante: siamo alleati non sudditi degli Stati Uniti. Quanto a dire che dobbiamo cominciare a guardare ai nostri interessi nazionali che, non da ora in verità, non coincidono affatto con quelli del governo americano.
Le dichiarazioni della Meloni o di Giannini in Italia hanno suscitato qualche scalpore, mentre in Francia o in Germania, dove esiste una opinione pubblica più formata e meno abbindolabile dalle fanfare filoatlantiche a oltranza del sistema dei media mainstream, sarebbero accettate come valutazioni più che ragionevoli di quel che sta succedendo (una guerra per procura) e di che cosa dovremmo fare (gli alleati, non i sudditi degli americani). Purtroppo la posizione del governo incarnata da Mario Draghi, da qualcuno definito senza mezzi termini un “proconsole degli USA”, resta confusa al di là dei proclami reiterati di solidarietà al paese aggredito e di condanna senza appello del malvagio Putin. Intanto le cancellerie europee, Germania e Francia in primis, a differenza del nostro governo, si sforzano quanto meno di porre dei distinguo sia a livello di comunicazione (le critiche di Macron al linguaggio aggressivo del duo Biden-Johnson), sia a livello più sostanziale con il no tedesco al blocco delle importazioni di gas dalla Russia.
La demonizzazione di Putin è andata di pari passo con il crescendo di contumelie e insulti del presidente americano, quasi anticipato da Di Maio, un ministro degli esteri che non trova di meglio che definire “animale” il capo di un paese estero da cui l’Italia trae ancora buona parte del suo approvvigionamento di gas, fertilizzanti, grano e mais. Ma, come dice un vecchio proverbio di universale circolazione, la pace (o la tregua) devi farla con il tuo nemico: sciocco e infantile è dunque demonizzarlo e insultarlo gratuitamente.
Fatta questa premessa, proviamo a inquadrare questa terribile sciagura che ha colpito l’Europa, la civilissima Europa culla dell’Occidente, in questo inizio 2022. Se, come fa un miope, osserviamo la questione molto da vicino, non possiamo che rimanere orripilati dall’immenso dolore e dalle sofferenze inaudite provocate dall’invasione russa dell’Ucraina, e ammirare il grande coraggio e la determinazione di un popolo che non accetta di farsi imporre il proprio futuro da una potenza straniera. Ecco, ma davvero “straniera”?
Non occorre molto, anche da una semplice scorsa della voce “Ucraina” e della voce “Russia” sulla più popolare enciclopedia online (Wikipedia), per capire che l’Ucraina è tanto straniera alla Russia quanto lo è il sud Italia al resto del Paese, o la Scozia alla Gran Bretagna, o la Catalogna alla Spagna e così via. Ma abbandoniamo la prospettiva del miope e allarghiamo ora l’orizzonte oltre e sopra l’Europa orientale, ed ecco che ci accorgiamo che siamo di fronte a uno scontro tra grandi imperi, il russo e l’americano (per il momento, la Cina resta a guardare). L’Ucraina è il campo di battaglia, il suo esercito ci mette gli uomini e le loro vite per una resistenza coraggiosa e inevitabile, ma che – aspetto di solito trascurato dai nostri media più filoatlantici - rientra alla grande in un gioco altrui.
Gli Stati Uniti sono oggi in campo non solo con l’invio massiccio di armi di ogni tipo all’Ucraina, ma anche con la fisica presenza di militari dei corpi speciali, ufficialmente in posizione di addestratori e istruttori, in realtà con compiti di coordinamento delle forze di difesa dell’esercito ucraino e dei mercenari provenienti da vari paesi, nonché – l’aspetto più importante – con una massiccia attività di intelligence che si avvale di una rete di radar, satelliti e agenti che non teme confronti. Gli inglesi di Boris Johnson sono anche in prima fila in questo sostegno attivo all’Ucraina, con la presenza delle SAS (le forze speciali inglesi), di mercenari (contractors) e con l’invio di armi di ogni genere. Ecco, la definizione di “guerra per procura” coglie perfettamente la situazione.
Certamente Putin con la sua invasione dell’Ucraina ha fornito alla NATO l’occasione d’oro, di quelle che non ci si può lasciare sfuggire, per impantanare l’autocrate russo in un nuovo Afghanistan, o meglio un Afghanistan moltiplicato per 10, da cui la Russia non dovrebbe riuscire a sganciarsi per un bel po’ per finire, negli auspici di Biden recentemente espressi a chiare lettere, completamente dissanguata finanziariamente, squalificata moralmente, infine esclusa per chissà quanto tempo dal consesso dei paesi “civili e democratici” e ridotta a un paria della comunità internazionale.
Lo scopo degli USA? Separare definitivamente i destini di Russia e Europa, altrimenti avviati a incontrarsi e a “sposarsi” con reciproco vantaggio per le note sinergie (di cui ho parlato in articoli precedenti). È realistico questo scenario?
Perché la guerra?
Prima di rispondere ricordiamo in breve le motivazioni dell’invasione russa. Si suppone infatti che un impero abbia sempre motivazioni di carattere razionale, o che rispondono a una logica (militare, politica, economica o geopolitica) per iniziare una operazione bellica di questa portata. Non mi soffermo qui sulle motivazioni di carattere morale-propagandistico: “denazificare” l’Ucraina dalle bande fascistoidi tipo il battaglione d’Azov (peraltro inquadrato, come forza regolare, nel Ministero degli Interni ucraino); vendicare i russi separatisti del Donbass che dal 2014 hanno subito uno stillicidio di bombardamenti da parte dell’esercito ucraino e sono stati vittime anche di episodi catalogabili come crimini di guerra.
Più verosimile appare la motivazione economica: il Donbass è la regione industrialmente e dal punto di vista minerario più ricca dell’Ucraina, che potrebbe far gola a Putin.
Ma neppure questa è in fondo una ragione convincente: finché l’Ucraina era retta da governi filorussi, Putin non si sognava certo di sostenere i separatisti del Donbass. Ecco, siamo al punto: dal 2014, con la fine dell’ultimo governo filorusso, l’Ucraina ha cominciato a guardare a Ovest e a distanziarsi dal sistema imperiale russo, accrescendo costantemente negli anni i suoi rapporti non solo economici ma anche militari e di sicurezza con i paesi della Nato. Sarebbe un po’ come se, facendo della fantapolitica, il governo del Messico decidesse di entrare nella sfera di influenza russa stringendo via via contatti con Cuba e col Venezuela, e magari cominciando a importare armi e istruttori russi, a votare all’ONU in sintonia con Russia e Cina e così via.
È l’ipotesi fatta in una recente intervista da Noam Chomski, il quale, dopo avere significativamente paragonato l’attuale invasione russa dell’Ucraina a quella americana dell’Iraq e a quella nazista degli anni ’40 della Russia, si chiedeva: credete che se il Messico imboccasse quella strada, gli USA lo lascerebbero fare in nome del sacrosanto principio del rispetto della sovranità di ogni paese e del suo inalienabile diritto a scegliersi gli alleati che vuole? Domanda retorica evidentemente, e chi non ricorda che un paese molto meno importante del Messico, ossia il Cile del socialista Allende, fu schiacciato negli anni ’70 dal golpe dei militari di Pinochet organizzato, per candida ammissione degli americani stessi, dall’ambasciata USA a Santiago?
Qui emerge, credo un aspetto che chi guarda “come il miope” non può assolutamente cogliere e che prescinde largamente da valutazioni morali. Gli imperi, ahinoi, si muovono non secondo le leggi morali ma secondo quelle di una fisica del potere, e l’Impero Romano se non il “Principe” di Machiavelli dovrebbero averci insegnato qualcosa al riguardo. Gli stati e a maggior ragione gli imperi hanno una loro logica, e quando sentono la propria sicurezza o il proprio potere messo in pericolo, reagiscono senza esitare in modo violento: un colpo di stato, un assassinio politico, una invasione militare ne conseguono, a seconda delle circostanze. La Russia, da questo punto di vista, ha avuto le sue ragioni per sentirsi provocata dalla NATO e dagli USA. La propaganda di Mosca non cessa di ricordare che quando Gorbaciov acconsentì alla riunificazione tedesca del 1989 lo fece con l’esplicita promessa dell’allora presidente americano George Bush senior di “non allargare la NATO ai paesi dell’Est Europa”, ossia quelli dell’ormai ex-Patto di Varsavia.
Sappiamo che questa promessa è rimasta sulla carta. Nel decennio del governo Eltsin, da molti russi considerato uno zerbino degli USA, i paesi dell’ex blocco sovietico sono stati accolti a braccia aperte dalla NATO, dalla Polonia alla Romania e fino ai Paesi Baltici. L’avvento al potere vent’anni fa di Putin ha segnato la riscossa russa: da allora Putin ha promosso interventi in Caucaso (guerre di Cecenia e in Georgia), in Moldavia (secessione della Transnistria) e infine in Ucraina (annessione della Crimea e sostegno ai separatisti del Donbass dal 2014) con un unico evidente scopo: sbarrare la strada all’espansionismo della NATO e riscattare agli occhi dei russi le umiliazioni degli anni ’90, il decennio di Eltsin.
Agli occhi di chi osserva la situazione attuale, non solo guardando al di là dell’Ucraina ma anche guardando indietro nel tempo fino al crollo dell’URSS e alle sue conseguenze, non ci sono dubbi sul fatto che l’impero americano attraverso il docile strumento della NATO abbia perseguito un programma di espansione a est nelle piena consapevolezza che ciò rappresentava una continua provocazione nei confronti dell’impero rivale. E anche nella tacita attesa – ne siamo convinti – che la inevitabile reazione russa avrebbe potuto portare a una finale resa dei conti con l’Orso russo, tant’è che non pochi osservatori di geopolitica affermano che Putin sia incautamente caduto nelle trappola ucraina. Personalmente credo che anche un altro zar al posto di Putin avrebbe finito per prendere la stessa decisione, nel tentativo di puntellare l’impero traballante e bloccare le intrusioni dell’impero rivale.
Ciò non toglie, beninteso, che quei paesi, dalla Polonia all’Ucraina di oggi, avessero il sacrosanto diritto di scegliere di andare in braccio allo Zio Sam e alla NATO, ma com’è noto i vassalli di un Impero non possono ignorare che l’imperatore non se ne resterà con le mani in mano. I capi di Polonia o dei Paesi Baltici hanno fatto la scelta di abbandonare l’impero russo nel momento giusto, ossia quando la Russia di Eltsin era ridotta a un Orso zoppicante. Ma Zelenski, ci chiediamo, nel perseguire una politica filo-atlantica in questi ultimi anni e nel confidare a oltranza sull’aiuto degli USA e della UE, ha fatto davvero bene i suoi calcoli? I suoi compatrioti, non noi, lo giudicheranno.
La propaganda
Veniamo ora a un altro aspetto di questo conflitto: la guerra delle opposte propagande e la guerra delle cifre.
Sarà utile ricordare che per la prima guerra del Golfo (17 gennaio-27 febbraio 1991) gli USA misero in campo mezzo milione di uomini e che i 40 giorni di eventi bellici che portarono alla vittoria provocarono secondo le stime più caute non meno di 100.000 morti tra i civili circa 20.000 militari irakeni (le vittime degli anni successivi, connesse alla fame, alla mancanza di medicine per le durissime sanzioni americane e alla guerriglia interna sono difficilmente stimabili, e vanno da 300.000 in su). Per fare un altro confronto, questa volta con la guerra in corso in Yemen, abbiamo 377.000 morti in 7 anni (il 60% per effetti indiretti del conflitto, in media poco più di 55.000 l’anno, fonte: “L’Avvenire” online del 19 marzo), cui vanno aggiunti milioni di sfollati. Cito queste cifre perché, venendo all’Ucraina, si parla dopo due mesi di guerre di circa 20.000 vittime militari da una parte e dall’altra e di circa 5.000 vittime civili accertate tra morti e feriti secondo fonti ONU (Agenzia dei Diritti Umani, che fornisce dati continuamente aggiornati). Va da sé che queste cifre di vittime civili, fossero pure sottostimate e poniamo anche 1/5 di quelle reali, non giustificano minimamente il vocabolario usato nella retorica della propaganda di guerra ucraina e dei media euro-americani in cui ricorrono parole roboanti come “genocidio”, “fosse comuni”, “deportazioni”, parole che evocano immediatamente nella mente del pubblico uno scenario da Shoah in corso.
La narrazione di questa guerra si caratterizza a volte anche per evidenti omissioni. Per esempio si sente dire che migliaia di civili, compresi vecchi e bambini, sono tristemente prigionieri nei sotterranei dell’acciaieria di Mariupol, e che solo pochi sono usciti sfruttando i corridoi umanitari; ma ai nostri media pare non venga il dubbio che il battaglione d’Azov colà asserragliato li stia usando come scudi umani, nella convinzione (più che plausibile) che Putin darebbe ordine di snidarli con i gas tossici, se non fosse appunto per la presenza dei civili.
Un’altra omissione mi pare notevole. I media hanno insistito sull’idea di una strage di civili scientificamente perseguita dai militari russi sul modello di Bucha. Che molti civili siano morti o siano stati passati per le armi a Bucha e in altri paesi ucraini è ormai una certezza. Si omette tuttavia un particolare decisivo: sin dai primi reportage sull’Ucraina abbiamo appreso di massicce distribuzioni di armi ai cittadini maschi ucraini, nel tentativo di organizzare una resistenza armata capillare, in ogni villaggio, in ogni quartiere delle città grandi e piccole. Questo ha determinato una situazione a noi italiani ben nota di “guerra partigiana” con civili armati pronti a imboscate contro l’esercito invasore. La nostra stessa storia ci insegna che, se il nemico in divisa quando viene catturato gode delle garanzie della Convenzione di Ginevra, questo non accade per i civili armati catturati i quali, se gli va bene, vengono subito passati per le armi. Tanto deve essere accaduto a Bucha e in altri paesi ucraini, dove le truppe russe hanno sicuramente compiuto non solo esecuzioni sommarie di civili armati, ma anche atti di pura rappresaglia su civili considerati indiscriminatamente “partigiani” o loro parenti e sostenitori (noi ne sappiamo qualcosa dopo Marzabotto, S. Anna di Stazzema…).
Come finirà? I nostri media ci raccontano la favola di una Russia isolata dal consorzio della nazioni. Ma Putin ha in realtà ancora moltissimi amici. In Asia paesi come Cina, India, Pakistan, Indonesia, Turchia, Iran, Kazakhstan hanno rifiutato di applicare le sanzioni: insieme assommano alla metà della popolazione mondiale… Ma quel che più brucia a Biden è la defezione dei paesi arabi del Golfo, con l’Arabia Saudita in testa (un alleato storico degli USA), che si sono categoricamente rifiutati di applicare le sanzioni. E brucia ancora di più la defezione dei due grandi paesi dell’America Latina, Brasile e Argentina, ormai l’ ex “cortile di casa” degli USA.
No, davvero questa crisi mostra che isolati ormai siamo solo noi, la parte bianca civile e benestante del pianeta: Nord America e Europa Occidentale. Davvero il mondo dopo questa sciagura non sarà più quello di prima, se Arabi e Latino-Americani non obbediscono più a Mr. Biden. Ormai a obbedirgli ciecamente e scioccamente siamo rimasti solo noi europei. Le nostre élite di governo appaiono incapaci di dire no a politiche che, anche senza evocare l’incubo di una terza guerra mondiale, mettono in pericolo la nostra prosperità e sicurezza e ci spingono verso un futuro oscuro ma ormai non più indecifrabile.
Una Russia che venisse sconfitta e finanziariamente rovinata finirebbe inevitabilmente in braccio alla Cina, consegnandole: 1. il granaio del mondo, 2. un fondo di riserve energetiche senza pari (gas e petrolio) e 3. una tecnologia militare di prim’ordine: giusto quello che serve alla Cina per accelerare la sua corsa a divenire la prima potenza mondiale. Non sarebbe convenuto a noi europei sganciarci in tempo dalla politica degli USA e tenerci ben cara e stretta la Russia di Putin?
Ma i nostri media preferiscono raccontarci ogni giorno la storia del Lupo cattivo e del Cacciatore buono che arriva in soccorso…