Il mondo multipolare di Aleksandr Dugin
L’assassinio di Darya Dugina e l’ideologia antagonista del padre: il tramonto dell’Occidente e il sorgere di un polo euro-asiatico
Due fatti dominano la cronaca politica sui media internazionali di fine agosto:l’assassinio di Darya Dugina, figlia del filosofo russo Aleksandr Dugin e la fase finale dei colloqui di Vienna tra gli USA e il cosiddetto quintetto (Germania Francia Regno Unito più Cina e Russia) con l’Iran sulla riesumazione dell’accordo nucleare del 2015, stracciato unilateralmente da Trump nel 2018. Due fatti apparentemente lontani ma in realtà legati in qualche modo tra loro.
Rileviamo anzitutto il diverso peso che le due notizie hanno avuto sui media italiani: l’assassinio di Darya Dugina ha tenuto banco per diversi giorni, anche per l’ampia sottolineatura di Papa Francesco, che ha commemorato la giovane figlia del filosofo russo come “vittima innocente” di una guerra in cui tutti (russi e ucraini, europei e americani ) si comportano “come pazzi”, in cui diventano orfani tanti “bambini ucraini e bambini russi”. Si tratta di espressioni che hanno a dir poco imbarazzato la stampa nostrana, in generale allineata con le posizioni filo-atlantiste di Draghi e della UE; e che hanno scandalizzato gli ucraini, che denunciano gli accenti razzisti di alcuni discorsi di Darya Dugina sull’Ucraina.
Le posizioni di Bergoglio non sono una novità e, si può dire, fanno non da oggi un sommesso ma deciso controcanto alle narrazioni ufficiali della guerra iniziata il 24 febbraio con l’invasione russa dell’Ucraina. Chi non ricorda quella dichiarazione spiazzante di Papa Francesco che, mentre riconosceva la Russia come paese aggressore, accusava senza giri di parole la NATO di “provocare”, di essere andata “ad abbaiare fino ai confini della Russia”? Metafora pesante, che implicitamente paragonava gli USA e i suoi obbedienti alleati europei a cani rabbiosi. Il Vaticano in questo senso non si smentisce, rifiutando anche questa volta di accodarsi alle narrazioni della guerra prevalenti sui media; basterebbe ricordare la veemente opposizione di Papa Wojtyla alla seconda Guerra del Golfo (2003) e alle sue narrazioni distorsive che facevano perno su bugie grossolane (le fantomatiche armi di distruzioni di massa del tiranno Saddam Hossein…). Anche in questa guerra in Ucraina, un po’ per volta, stanno venendo a galla bugie, come quella dei russi che si auto-bombardano sparando razzi sulle centrali elettronucleari di Zaporizha che essi stessi occupano; o verità sottaciute, come quella denunciata da Amnesty International, che ha accusato l’esercito ucraino di essersi fatto troppe volte scudo di edifici civili come scuole e ospedali, a danno dei propri cittadini. La frottola più grande naturalmente continuano a raccontarla i media russi, che si ostinano a considerare una Operazione Speciale quella che è una guerra a tutti gli effetti; mentre i media filo-atlantici fanno finta di non sapere che in Ucraina ha luogo una guerra per procura: ufficiali inglesi, americani e polacchi coordinano e dirigono sul campo le operazioni ucraine contro l’invasore russo.
La morte tragica di Darya Dugina è servita quantomeno ad accendere i riflettori sul padre, il discusso teorico “eurasiatista” e filosofo Aleksandr Dugin, che taluni accreditano come ideologo di corte e grande ispiratore della politica estera di Putin, altri invece come un personaggio eccentrico molto meno influente di quanto si creda.
Dugin deve la sua fama principalmente a un libro-pamphlet uscito a S. Pietroburgo nel 2009 (tradotto anche in italiano nel 2020), “La Quarta Teoria Politica”, uno scritto di oltre 400 pagine che riassume il suo pensiero politico in maniera piuttosto efficace e ben articolata. Dugin guarda alle tre grandi ideologie politiche del XX secolo – il comunismo, il nazismo/fascismo e il liberalismo – come eredi in varia misura dell’idea ottocentesca di un progresso lineare e illimitato che farebbe perno sull’idea di stampo “evoluzionista” dell’emergere, rispettivamente, di una classe rivoluzionaria (l’operaia), o di una razza superiore (l’ariana), o di una élite mercantile-finanziaria benedetta da Dio (l’anglofona) che ha i suoi templi in Wall Street e alla Borsa di Londra.
Il liberalismo ha avuto chiaramente partita vinta sulle prime due ideologie – per le quali Dugin non nutre nessuna nostalgia – ma per lui ciò non significa affatto “la fine della storia”, come frettolosamente aveva proclamato a suo tempo il politologo americano Francis Fukuyama. La critica della globalizzazione di marca euro-americana e dell’unipolarismo che si è stabilito nel mondo dopo la fine dell’Unione Sovietica, va di pari passo in Dugin con la denuncia del deserto di valori imposto dal dominio finanziario, tecnologico e culturale dell’ideologia rimasta vincitrice sul campo: il liberalismo. Un liberalismo però considerato mendace e snaturato nella sua essenza, secondo Dugin, perché oggi in realtà lascerebbe agli individui la sola libertà “di andare a fare shopping” e, alle nazioni, la sola libertà di aderire pienamente alle regole del NWO (New World Order - Nuovo Ordine Mondiale) stabilito dall’unico Impero rimasto in piedi, quello a stelle e strisce, pena l’esclusione dal consorzio civile, lo stigma di “stati canaglia” con corredo di sanzioni e boicottaggi.
Non meno dura è la denuncia in Dugin del tentativo di spianare e livellare tutte le differenze tra i popoli, perché al Big Business servirebbe un mondo di consumatori omologati che credono più o meno negli stessi valori (democrazia, diritti umani, politically correct…) e in cui gli stati nazionali e i rispettivi governi si riducano a fedeli esecutori delle decisioni prese a Wall Street, per non intralciare le esigenze del capitale multinazionale o meglio apolide.
Cosa propone Dugin? Egli vede nell’alleanza organica delle potenze asiatiche e euroasiatiche – va da sé che la Russia incarna in pieno anche geograficamente il suo eurasiatismo – l’unica possibilità di costruire un mondo alternativo al mondo unipolare in cui tutti viviamo, compresa la sua stessa Russia e la Cina le quali, per commerciare e pagare, devono pur sempre servirsi dei dollari e dello SWIFT, il sistema di pagamenti interbancari controllato dagli USA (che decidono a piacere chi ammettervi e chi escludere).
In Cina, Russia, India, Iran ma anche nei paesi sudamericani “ribelli” a Washington (Venezuela e Cuba in primis), Dugin vede – e qui troviamo una delle idee cardine della sua “quarta teoria politica” – altrettanti fulcri di un nuovo mondo multipolare che, secondo lui, va prendendo sempre più coscienza della necessità storica di liberarsi dal dominio economico-finanziario e culturale del primo mondo, dall’unipolarismo di marca anglosassone.
Dugin peraltro insiste molto sul concetto che questa lotta sarà anzitutto una lotta di idee, di ideologie, ovvero una lotta per l’egemonia culturale, perché egli fondamentalmente vede nella ideologia liberale-atlantista, di cui sarebbero ormai succubi gli scristianizzati paesi dell’Europa occidentale, il Male assoluto, cui è necessario opporsi con ogni mezzo, a partire appunto dalla lotta ideologica.
Dugin – e qui abbordiamo un altro aspetto poco noto della sua personalità – è un fervente cristiano ortodosso e vede naturalmente nella Russia ortodossa il campione di questo antagonismo ineluttabile che – aggiungiamo noi – è venuto completamente allo scoperto con la guerra ucraina e la clamorosa rottura dei rapporti della Russia con la Unione Europea (sanzioni e contro-sanzioni, ostracismo degli intellettuali non allineati, campagne di reciproci insulti sui media).
La Russia ortodossa, secondo lui, è l’ultimo vero baluardo di una cristianità vilipesa e stuprata dall’egemonia del Dio Denaro e dei suoi sinistri profeti anglo-americani. In questo quadro, Dugin chiama a raccolta gli esponenti religiosi di tutte le grandi religioni mondiali, islamismo e induismo in primis, invitandoli a dismettere ogni contesa tra loro per fare fronte comune con la cristianità in una battaglia senza quartiere contro la desertificazione spirituale, che egli vede come un portato inevitabile (il lato satanico) del liberalismo di marca anglosassone.
Darya, la ventinovenne giornalista politologa di formazione filosofica e credente ortodossa, condivideva appieno queste idee del padre e la missione liberatrice assegnata alla Russia, come si evince anche dalle ultime parole che gli avrebbe indirizzato durante la Festa della Tradizione, giusto un’ora prima della sua terribile fine: “Papà, mi sento una guerriera, mi sento come una eroina, voglio essere così, non voglio nessun altro destino, voglio stare con il mio popolo, con il mio paese, dalla parte delle forze della luce, questa per me è la cosa più importante”. L’accenno alla luce non è casuale: padre e figlia sono notoriamente devoti del mistero della Trasfigurazione di Cristo nella luce del Monte Tabor, un episodio evangelico di grande pregnanza e significato nella fede e nella mistica cristiana ortodossa.
Mondo in movimento
Ma veniamo ora all’altro grande fatto segnalato sui media internazionali (non su quelli italiani, alquanto distratti dalle imminenti elezioni). Dopo due anni di sfiancanti trattative a Vienna, i paesi europei summenzionati più la Cina, la Russia e gli USA sono giunti a un passo dalla firma del nuovo accordo con l’Iran sulla questione nucleare. La cosa ci riguarda da vicino, anzi vicinissimo, perché a seguito di tale accordo le sanzioni all’Iran cadrebbero, con la conseguenza per noi benefica di sbloccare le enormi risorse di petrolio e soprattutto di gas del paese mediorientale che arriverebbero così, provvidenzialmente, sul mercato europeo alle prese con il gas giunto a oltre 300 dollari.
In queste settimane d’agosto alcuni ansiosi ministri israeliani sono volati a Washington per cercare di bloccare l’accordo con l’Iran che farebbe troppe concessioni al loro arcinemico, senza reali garanzie che questo sospenda il suo sviluppo nucleare e rinunci a costruire la bomba atomica (quella bomba che Israele ha, ma non dichiara, e tutti fan finta di niente nel silenzio omertoso dei media).
L’accordo con l’Iran, patrocinato da Russia e Cina, preme evidentemente e soprattutto a noi europei, che siamo ormai con l’acqua (anzi il gas…) alla gola. Gli USA, dopo avere costretto l’Europa occidentale ad applicare le sanzioni alla Russia di Putin, con le note conseguenze-boomerang sui prezzi del gas, non possono certo negare agli europei la possibilità di approvvigionarsi dall’Iran, il secondo o terzo detentore di risorse energetiche a livello mondiale, che potrebbe risolvere i nostri guai energetici. Se l’accordo va in porto, oltre a comprare petrolio e gas a prezzi più ragionevoli, le imprese europee potrebbero in teoria fare affari d’oro in un paese che, prostrato da decenni di dure sanzioni americane, ha bisogno urgente di rimodernare o ricostruire ex-novo molte strutture petrolifere, da quelle d’estrazione a quelle di raffinamento del greggio o liquefazione del gas.
Ma qui l’Europa, succube della politica americana, arriva troppo tardi: è di qualche mese fa la notizia che la Russia di Putin ha firmato un accordo decennale con l’Iran per il rinnovo delle strutture petrolifere e energetiche del paese. L’Iran l’anno scorso aveva pure firmato un altro accordo 25ennale con la Cina di 400 miliardi di dollari per avere strutture di trasporto (ferrovie e porti soprattutto) costruiti o ampliati dai cinesi in cambio di petrolio, anche lì mettendo fuori gioco le industrie europee bloccate dal regime sanzionatorio. Dulcis in fundo, è stata di recente inaugurato l’INSTC (International North South Transport Corridor), una nuova via d’acqua che permette ai prodotti russi di scendere da S. Pietroburgo attraverso la rete fluviale fino al Mar Caspio e di lì, approdando ai porti iraniani, proseguire poi via terra su ferrovia fino al porto sempre iraniano di Bandar Abbas sull’oceano indiano , e più oltre fino al porto di Mumbay in India.
Questa nuova via d’acqua nord-sud, che dà alla Russia uno strategico sbocco diretto sui mari caldi (vecchia ambizioni degli zar) va collegata con la “Nuova via della seta” che connette la Cina al Mediterraneo incrociando il corridoio S. Pietroburgo-Bandar Abbas all’altezza proprio dell’Iran.
Cosa ci dice tutto questo? Che ormai l’Asia va per conto suo, può largamente prescindere dall’Europa e dal Mediterraneo e di fatto si sta creando una enorme rete di trasporti che collega i grandi paesi asiatici o euroasiatici, ovvero i grandi poli storico-culturali del pianeta su cui ragiona Dugin: Russia, Iran, India e Cina, il cosiddetto Heartland, il cuore delle terre emerse.
Parallelamente a questi sviluppi, la Russia e l’India hanno stabilito di recente di commerciare sempre più in rubli vs. rupie, progressivamente abbandonando il dollaro; e la Cina ha fatto qualcosa di analogo con l’Arabia Saudita (suo primo fornitore di petrolio) con transazioni in yuan cinese vs riyal saudita. Ma non è solo l’Asia che si muove. Il cosiddetto BRICS (che riunisce Brasile Russia India Cina e Sudafrica) sta aprendo le porte a due nuovi paesi, l’Iran e l’Argentina, con Indonesia Messico Nigeria Pakistan Arabia Saudita e Turchia in lista d’attesa; e anche qui si comincia a parlare di regolare i commerci reciproci con l’uso crescente delle valute nazionali piuttosto che col dollaro, e si annuncia la prossima creazione di una moneta comune.
Perché questi sviluppi? Non è sfuggito ai paesi menzionati che tra le prime e più pericolose sanzioni promosse dagli USA contro la Russia (e in precedenza contro l’Iran, la Siria, l’Afghanistan) c’è il sequestro dei suoi depositi in dollari nelle banche americane e europee. Insomma il sequestro dei fondi russi rischia di tramutarsi in un vero boomerang e, secondo alcuni analisti, si profila una marcata de-dollarizzazione del commercio mondiale a breve-medio termine, con conseguenze difficilmente calcolabili ma esiziali per la supremazia finanziaria degli Stati Uniti.
Dopo la guerra ucraina, come ormai tutti hanno capito, non sarà più nulla come prima. Aleksandr Dugin (un Lenin del XXI secolo?) ha offerto a Russia, Cina e paesi dell’Asia una ideologia antagonista, coerente e temibile, abilmente costruita su un mix di richiami 1. all’anti-imperialismo di marca sovietica, 2. a un nazionalismo dalle connotazioni religioso-escatologiche (lotta contro il Male), e 3. alla liberazione di popoli e individui in nome dei valori tradizionali dal rullo compressore di una globalizzazione (culturale) che vorrebbe cancellare ogni radice e differenza. E ora la dottrina ha non solo il profeta, Dugin padre, ma anche la sua martire iconica, la figlia Darya. Dugin propone una rivoluzione mondiale, i cui attori però non saranno soggetti collettivi (la classe operaia di Lenin o quella contadina di Mao), bensì le nazioni dell’ex-terzo mondo; e la religione non è per lui l’oppio dei popoli, bensì un fattore decisivo del cambiamento.
Due grandi poli
Dugin si è sbagliato forse su un punto: il mondo nuovo non sarà proprio multipolare come lui s’immagina nella sua “Quarta Teoria Politica”, ma almeno in questa fase tornerà ad essere diviso in due grandi poli come durante la guerra fredda, il polo euro-americano e il polo euro-asiatico. Con una differenza sostanziale, però: nel polo euro-asiatico, dove si concentra già la maggior parte delle risorse del pianeta, il tasso di sviluppo industriale e commerciale è da tempo a due cifre. Soprattutto, questo nuovo grande polo sta esercitando un potere di attrazione irresistibile sul resto dei paesi asiatici e non solo, come mostrano le nuove domande di adesione ai BRICS (vedi sopra) e persino allo SCO (Shanghai Cooperation Organization, controllato da Russia e Cina, e cui partecipano altre due potenze nucleari come India e Pakistan). La cartina al tornasole di questa tendenza che pare inarrestabile è l’Africa, dove gli USA sono quasi assenti, ma la Cina e la Russia stringono accordi commerciali e di sviluppo a ripetizione, da nord a sud del continente. Intanto la Francia mestamente abbandona il Mali e l’Italia da qualche tempo è stata soppiantata in Libia dalla Turchia di Erdogan.
Davvero è iniziata un’altra storia. E il polo atlantista euro-americano, per la prima volta da 500 anni a questa parte, non ne sarà il protagonista.