21 sfumature di giallo
Il Trentino non è mai stato costretto a chiudere tutto, ma a che prezzo?
I numeri sono diventati il vero campo di battaglia su cui misurare l’efficienza della risposta sanitaria, ma anche politica, all’emergenza epidemica.
Sono i numeri dei contagi, dei morti, i numeri dei ricoverati in ospedale, sia ordinari che di terapia intensiva. Oltre ai numeri dei vaccini e dei vaccinati.
Adesso che la situazione comincia a migliorare (lo speriamo di cuore, anche se alcuni segnali dicono che potrebbe essere solo un momento di alleggerimento in vista di un’altra onda), su quei numeri si sta scatenando un redde rationem nazionale.
Il Trentino, sui numeri, non è stato secondo a nessuno: sia nella prima che nella seconda ondata è forte l’impressione che i numeri del contagio siano stati manipolati, con interpretazioni “creative” delle disposizioni ministeriali. Come abbiamo scritto nel numero di gennaio, i sospetti riguardo a quest’ultimo periodo nascono dalle tempistiche con cui venivano (e vengono?) fatti i tamponi di conferma di chi veniva trovato positivo con il solo antigenico rapido. Che per un lungo periodo non sono entrati nei conti dei positivi perché il tampone molecolare veniva fatto solo dopo una decina di giorni, dando alle persone contagiate il tempo di negativizzarsi e sparire così dai conti.
Questa volta invece siamo andati a vedere in dettaglio come sono stati “lavorati” i numeri delle terapie intensive. Che sono un pilastro dell’algoritmo in base a cui si colora un territorio: tante terapie intensive abbassano il livello di rischio di un territorio, anche con un alto numero di contagi. Così è stato per il Veneto. Noi siamo ancora una volta un caso a parte, ma di questo parleremo dopo. Partiamo dai fondamentali.
In Trentino ci sono normalmente 32 posti di terapia intensiva, di cui 24 a Trento e 8 a Rovereto. Però i posti dichiarati disponibili al ministero sono stati fin dall’inizio 90.
Da dove saltano fuori questi posti?
È molto semplice: convertendo le sale operatorie in posti di rianimazione.
Quindi, ai 32 iniziali, sono stati aggiunti un blocco di 16 posti sfrattando completamente il reparto di chirurgia vascolare, non solo le sue sale operatorie. E poi sono state fagocitate molte altre sale operatorie, tra cui quelle di ortopedia.
Questo all’ospedale di Trento. Rovereto poi è diventato totalmente ospedale Covid.
Che problemi comporta? Per noi tutti, che le normali operazioni chirurgiche devono aspettare. Quanto e come abbiamo aspettato non è dato sapere con certezza. Abbiamo chiesto all’Azienda sanitaria i dati delle operazioni chirurgiche di novembre e dicembre del 2019 e del 2020 per un confronto, ma non è arrivata risposta.
Diciamo subito che sono state comunque garantite le operazioni urgenti: la gamba rotta o il cuore che si ferma sono stati curati. Ma normalmente la gran parte delle operazioni, circa il 70 per cento, è costituito da interventi programmati. I tendini della spalla da sistemare o i calcoli da togliere. Fate voi, la lista è variegata.
E ci sono delle differenze: se devo operarmi una cataratta o rimuovere una ciste superficiale la probabilità statistica che io finisca in rianimazione è praticamente nulla. Perciò, questo tipo di chirurgia è sempre continuata. Ma se ho 75 anni e devo fare una protesi al ginocchio è possibile che qualcosa si complichi e abbia bisogno di essere ricoverato in terapia intensiva. Quindi gli interventi ortopedici sono stati sospesi. Anche la chirurgia oncologica è stata rallentata. Non sospesa, ma certamente sono state fatte delle scelte su chi operare e chi far aspettare. Non possiamo sapere se le persone messe in stand-by abbiano subito delle conseguenze gravi, ma è di sicuro molto brutto sapere di avere un tumore e dover attendere.
Intendiamoci: la temporanea conversione delle sale operatorie fatta a marzo per il periodo dell’emergenza è quello che ci ha permesso allora di reggere l’onda d’urto. Ma allora c’erano anche pochissime persone che finivano in rianimazione per altre cause: il mondo era congelato e non c’erano incidenti stradali o sul lavoro. In autunno invece la vita è in qualche modo continuata. E quindi ai tanti malati Covid si sono aggiunte le persone che finivano in rianimazione per altri motivi. Al 22 gennaio, ad esempio, ci dicono che c’erano in totale 61 persone in terapia intensiva, di cui 41 a causa del Covid. (Il dato l’abbiamo trovato noi, l’Azienda sanitaria non ci ha dato risposta nemmeno su questo).
Per questo viene fissata la soglia massima del 30 per cento di occupazione delle terapie intensive per i malati Covid. Altrimenti, come ha detto recentemente Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di sanità, “si entra in una fase di dilazione (rinvio, n.d.r.) dei servizi”. Cioè quello che è ampiamente successo a Trento. Per rimanere in zona gialla abbiamo fatto aspettare i problemi di moltissime persone.
In ogni caso la cannibalizzazione delle sale operatorie non è che se la siano inventata a Trento Sud o in piazza Dante. Come noi l’ha fatto ampiamente il Veneto. Scegliendo, esattamente come in Trentino, di far aspettare i malati non Covid per poter mantenere il territorio in zona gialla.
Tuttavia tra noi e il Veneto c’è una differenza. Il buon Luca Zaia, con questo metodo, è riuscito comunque a tenere sempre l’occupazione per Covid delle rianimazioni nella sua regione dentro la soglia del 30 per cento indicata dal ministero. Noi no.
Noi, nonostante lo sfratto dei malati non Covid, abbiamo comunque sempre avuto un tasso di occupazione delle terapie intensive per Covid ben più alto del 30 per cento. Siamo arrivati a punte del 60% e, facendo una media degli ultimi tre mesi, abbiamo sempre veleggiato intorno al 50%.
E anche stavolta dobbiamo concludere il nostro discorso con il solito punto di domanda su cosa pensano a Roma quando guardano i nostri dati. I quali, per molte delle settimane passate, avrebbero giustificato misure di contenimento dell’epidemia ben più restrittive del giallo canarino in cui siamo rimasti allegramente mentre continuavamo a contare morti.