La rabbia della montagna dimenticata
A proposito dei referendum secessionisti di Cortina & C.
Non c’è dubbio alcuno: i referendum secessionisti che provocano emozioni in tanti comuni veneti rappresentano l’ urlo disperato della montagna dimenticata, l’urlo deciso contro la politica di Roma, quella di Venezia, Torino e Milano.
Da Lamon e Meduna di Livenza fino ad Asiago, da Sappada fino a Cortina, dalla Valtellina ai comuni del cuneese lo slogan è uno solo: basta privilegi alle Regioni e alle Province autonome, costruiamo una specifica politica per la montagna, riportiamo rispetto e dignità a chi sceglie di rimanere e vivere in montagna. Ed i risultati dei referendum sono eloquenti: altissime percentuali di votanti e fra questi la schiacciante vittoria dei sì: si va dal 75 al 90%.
La lettura dei risultati non è però tanto semplice e tocca alla politica riprendere le fila della complessità dimenticata e riordinare un progetto. Ci sono sindaci che si sono trovati esclusi dall’ondata di referendum, pensiamo alla intera vallata del Cadore. Il sindaco di Borca, alquanto deluso, affianca il malessere dimostrato dai comuni ladini di Selva, Colle Santa Lucia e Cortina, ma avrebbe preferito trovare in tutte le amministrazioni un linguaggio comune con obiettivi concreti da sottoporre a Galan e al governo italiano: il problema della viabilità, la certezza della candidatura di Cortina ad ottenere i mondiali di sci alpino del 2013, l’intervento sulla enorme frana di Cancia, fino ad oggi mai messa in sicurezza, il golf a Cortina.
Il sindaco di Agordo, Rizieri Onagro si sofferma invece sulla concorrenza scorretta sull’economia praticata dalle Regioni autonome, si pensi ai contributi elargiti con tanta leggerezza all’industria dello sci, o agli alberghi. In positivo afferma che Cortina ha messo in rilievo il disagio complessivo della montagna italiana: "Il referendum è stato una vetrina mediatica che ha avuto maggiore impatto della manifestazione dei 4.000 comuni scesi a Roma per rivendicare una politica per la montagna". A suo dire i privilegi che cadono su Trento e Bolzano non hanno più alcun motivo storico di esistere.
Sono le parole che abbiamo letto durante tutto il mese di ottobre sui quotidiani bellunesi, sono le parole dei sindaci coinvolti nel referendum, dei rappresentanti delle associazioni di categoria. Una cordata lega queste individualità: ovunque i termini usati esprimono rabbia e rancore.
A questo comune sentire risponde in modo rozzo il governatore del Veneto Gianfranco Galan, esponente di Forza Italia, che vede i referendum come passaggi inutili, umilianti, destabilizzanti.
Galan, sentendosi isolato, attacca Durnwalder, dal quale viene a sua volta ricambiato con l’ironia ed il sarcasmo: "Galan resta un amico, ma lotti per la sua Regione, per avere più autonomia; perché toglierla agli altri?"
E poi arriva alla conclusione che fa tremare il governatore veneto: "I tre comuni ladini bellunesi hanno fatto parte per secoli del Tirolo storico".
Questi, a Bolzano, saranno quindi bene accetti non appena saranno superati tutti i necessari e lunghi passaggi istituzionali previsti dalla Costituzione e dall’accordo De Gasperi-Guber.
I media nazionali hanno finalmente parlato del caso Cortina, proprio perché l’ampezzano rappresenta il gioiello pregiato delle Dolomiti. Rimane invece pesante il silenzio che Durnwalder e Dellai, il governatore trentino, mantengono verso Lamon, Sovramonte o i comuni dell’altopiano di Asiago.
Se già questo fatto sconcerta, si rimane poi allarmati dalla impostazione culturale e politica che ovunque ha animato il dibattito: si parla esclusivamente di economia, di contributi al turismo, di privilegi che permettono alle Province autonome di costruirsi grande viabilità, circonvallazioni... Solo la voce, troppo isolata, del presidente della Provincia di Belluno, Sergio Reolon, esprime la rivendicazione di politiche autonome, quindi anche di fondi sufficienti, necessarie per governare al meglio le grandi sofferenze della montagna, sulle Alpi come sugli Appennini: la scolarizzazione, i temi della salute, dell’assistenza, di politiche utili ad incentivare ricerca e lavoro di qualità, della gestione del territorio per garantire sicurezza e vivibilità alle vallate, di responsabilità delle comunità montane nel costruire politiche di autogoverno.
Probabilmente questa assenza, questa mancata chiarezza è il passaggio chiave che non permette ai 4.000 sindaci italiani di trovare credibilità né a Roma, né nei governi delle grandi metropoli della pianura padana; è l’incapacità degli amministratori e dei sindaci delle vallate che costruisce tanta debolezza e che li relega in un isolamento sempre più sofferto, privo di sbocchi propositivi.
La voce delle istituzioni è fin troppo conosciuta: accanto a questi lamenti non siamo però riusciti a trovare dichiarazioni ufficiali dei partiti, né in territorio bellunese - se non tranquille difese dell’immobilismo istituzionale - né nel governo. Siamo quindi usciti dalla palude istituzionale per cercare il pensiero di chi vive in conflitto con queste amministrazioni ed abbiamo sentito il parere di Marina Lecis, una combattiva ambientalista di Cortina d’Ampezzo che collabora come giornalista anche con diverse testate nazionali e radio locali.
Come avete letto nel mondo dell’associazionismo ambientalista il risultato dei referendum secessionisti dal Veneto?
"Da un lato ci sono le aspirazioni dei movimenti ladini, carichi di nostalgie. Oggi questo motore, senza dubbio minoritario, ha trovato alleanza con più situazioni.
Una prima, scandalosa, riguarda la montagna dimenticata da parte di chi governa. Da qui, da questo comune sentire è nata la provocazione verso Venezia e verso Roma, verso Galan e verso il governo centrale.
Il Veneto da decenni non si interessa di montagna. Galan, o Oscar de Bona (assessore regionale) fanno le loro apparizioni solo quando devono promettere soldi o sviluppo di aree sciabili agli impiantisti, o quando si tratta di proporre e promettere devastanti circonvallazioni o autostrade. Poi spariscono e non riescono a dare risposta nemmeno alla necessità di coprire le buche che si formano sulle strade. Nel 2003 il Presidente della Provincia di Belluno aveva aperto una dura guerra contro Galan sulla gestione della risorsa idrica nel bellunese. Chiedeva il rilascio del deflusso minimo, chiedeva vita per i corsi d’acqua, chiedeva autonomia nella gestione delle risorse locali. Ma Galan ha sempre risposto a muso duro, vedendo nella montagna una mucca da mungere a favore delle popolazioni della pianura".
Come si potrebbe uscire da una situazione priva di regia politica? Alcuni comuni sfondano verso il Trentino Alto Adige, altri verso il Friuli...
"Non c’è che una risposta immediata: dare alla provincia di Belluno l’autonomia della quale godono Trento e Bolzano. E contemporaneamente porre le basi per ridefinire un unico grande ambito regionale, unito dal territorio, da una specificità ambientale forte, certa, la Regione delle Dolomiti. Se Cortina e gli altri comuni ladini confluissero nella provincia di Bolzano si formerebbe una formazione di serie A serrata mentre altre decine di entità comunali, il restante bellunese da serie B, sarebbero declassate a serie C, sempre più deboli.
Perché non si offrono risposte adeguate a tutti i comuni del Cadore e dell’Agordino? Alcuni mesi fa le associazioni ambientaliste avevano chiesto un confronto su questi temi al ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio. Volevano un tavolo per confrontarsi su una vera legge della montagna, non sui contenuti quasi farseschi delle proposte della Lanzillotta e dei suoi consiglieri. Ma fino ad oggi il ministro non ci ha degnati nemmeno della risposta. Eppure le vere emergenze della montagna riguardano tutte la tenuta dell’ambiente: la gestione della risorsa idrica, le sorgenti, il fenomeno del carsismo da tutelare e studiare, la sicurezza e la fertilità dei suoli, la politica forestale ed agricola.
Mi interessa poi un altro aspetto che nessun sindaco o governatore mai ha toccato in questi mesi di confronto: la questione sociale. Si guarda con invidia ai cosiddetti ‘privilegi’ delle Regione autonome, ma non si offre dignità ad un confronto sui temi sociali. Le domande strategiche alle quali siamo chiamati tutti a rispondere sono: quale futuro offriremo ai nostri giovani, quali prospettive di lavoro, quali servizi troveranno sul loro territorio fra pochi anni? Questo è il silenzio più pesante che abbiamo riscontrato".
Non è consolante quanto si è raccolto. L’occasione referendaria poteva permettere a tutta la comunità bellunese slanci ben più impegnativi: si poteva cominciare a forzare il mondo politico indirizzandolo verso strade che progettano dignità e qualità di vita in montagna. Invece il disegno che abbiamo trovato è alquanto misero: l’attrattiva del denaro che affluisce nelle casse delle Regioni autonome e la rivendicazione di poter disporre di risorse da riversare nella industria turistica più obsoleta e matura.
La classe politica veneta si è dimostrata vecchia e limitata quanto quella delle ricche Province autonome tanto criticate.
Gli aspetti più qualificanti del vivere in montagna, il ruolo delle Dolomiti, la qualità dell’ambiente e la sua conservazione sono passati in secondo piano, o sono stati oggetto di confronto solo in settori minoritari della società: nel mondo ambientalista e in settori cattolici impegnati nella solidarietà sociale.
Ne siamo convinti: è questo scenario così debole, specialmente all’interno delle istituzioni, dei municipi, che oggi impedisce alla montagna un riscatto. Sono istituzioni incapaci di una proposta sociale che risulti convincente quando viene presentata, e questo anche quando quattromila sindaci e presidenti di comunità montane scendono in piazza.
Invece di provare ogni strada per incrinare l’autorevolezza delle autonomie regionali e provinciali attuali, questi governatori e questi sindaci avrebbero il dovere di guardare in casa propria.
Alcuni esempi ci sono vicini: Galan ha riempito le tasche degli impiantisti trentini e veneti con contributi a fondo perduto sugli altipiani dei Fiorentini e Folgaria, sul Cansiglio, in Marmolada e inventando un folle piano-neve fermo da anni negli uffici della Sovrintendenza ai Beni Ambientali e Paesaggistici. Questi milioni di euro spesi in modo più intelligente, innovativo, diffuso, magari stringendo collaborazioni con le importanti università locali, avrebbero probabilmente portato queste popolazioni a guardare verso Venezia con maggiore rispetto.