Belluno verrà con noi?
Da quella provincia giunge la richiesta di passare dal Veneto al Trentino-Alto Adige: un appello disperato per sopravvivere
Quanta sfiducia, quanta rassegnazione si respira sulla montagna italiana. Dalla dorsale appenninica per salire fino alla catena alpina, tutta. Ovunque i sintomi di una malattia quasi cronica sono gli stessi: spopolamento, fuga dei giovani, specialmente delle donne, territori abbandonati, dissesti idrogeologici, privazione dei servizi, dalla sanità alla formazione scolastica, assenza di lavoro. Da tanta desolazione si salvano solo alcune isole privilegiate, le Province autonome, i comuni turistici più famosi. Ma anche queste realtà, in una situazione di abbandono culturale e politico della montagna, quanto resisteranno? Com’è possibile sostenere il turismo in assenza di cura del territorio, di tipicità, di identità culturale e specialmente di servizi e di popolazione locale?
Sono domande alle quali, da decenni, la politica italiana non risponde.
La montagna soffre anche oltralpe: è in atto, in Austria come in Francia e in Svizzera, una progressiva decrescita sul territorio alpino. Ma non è agonia come accade da noi, non c’è assenza di risposta politica. Anzi, nelle Alpi del Nord la montagna è anche innovazione, sviluppo di nuove attività, turismo che sposa e sostiene l’agricoltura. I giovani quasi ovunque rimangono legati al loro territorio, alla loro identità e la modernizzano con fantasia. Creando lavoro e scolarizzazione, legando i territori delle alte quote alle università delle grandi città: Grenoble, Berna, Vienna. Una filiera di saperi che sale e scende attraverso vasi comunicanti che costruiscono nuove opportunità e specialmente nuovi lavori.
In Italia gli abitanti della montagna sono invece costretti ad alzare la voce, attraverso i referendum secessionisti dei comuni. Si è iniziato nel 2005 con Lamon, per poi passare a Sappada, Cortina, Livinallongo e Colle Santa Lucia, i comuni dell’altopiano di Asiago, Sopramonte e Pedemonte, Valvestino e Magasa. Senza dimenticare i comuni piemontesi che intendono passare con la Valle d’Aosta.
Per la prima volta in Italia, l’11 gennaio, una intera Provincia, Belluno, ha chiesto di venire annessa alla Regione Trentino Alto Adige.
Belluno è inserita in una Regione, il Veneto leghista, incapace perfino di applicare l’art. 116 della Costituzione, quello che passa dallo Stato alle Regioni deleghe importanti e che la stessa Regione, assieme ai fondi necessari, può trasferire alle Province. Il Comitato Belluno Autonoma Dolomiti Regione ha indetto un referendum clamoroso, che recepisce l’art. 132, comma II della Costituzione, su una richiesta esplicita: “Volete che il territorio della Provincia di Belluno sia separato dalla Regione Veneto per entrare a fare parte integrante della regione Trentino Alto Adige?”
Le forze politiche del centrodestra che governano la Provincia di Belluno avevano quasi irriso questo insieme di semplici cittadini che si erano permessi di sollevare una simile proposta: si riteneva che a malapena riuscissero a superare le necessarie 8.000 firme. Ed invece è arrivato il risultato clamoroso: 17.500 firme. Raccolte nelle città, ma specialmente in tutta la periferia della provincia. Tutte le forze politiche hanno dovuto riflettere su un simile risultato, perfino la Lega federalista, sbugiardata in casa, in una Regione governata da Luca Zaia ed in una Provincia che da poco si è vestita di verde. Il Consiglio Provinciale di Belluno ha votato con 22 sì e soli due no la proposta di referendum. I due no vengono dai consiglieri leghisti Renza Buzzo e Gino Mondin, il proprietario dell’albergo che a Calalzo ogni estate ospita i dirigenti nazionali della Lega. I loro cinque consiglieri di partito hanno votato un sì definito “tecnico”. Il Presidente della Provincia Gianpaolo Bottacin ha provato a creare un po’ di confusione rendendo esplicita la complessità del cammino verso l’autonomia: prima il voto referendario, scontato, poi i pareri delle Province di Trento e Bolzano e delle Regioni, quindi il Parlamento e la modifica della Costituzione. Passaggio, quest’ultimo, non vero, giacché per ratificare il risultato referendario è sufficiente che il Parlamento vari una comunque impegnativa legge costituzionale.
Gli elementi unificanti: guerre e sfiga
Cosa vogliono i referendari? Impossessarsi dei “privilegi” dei cittadini delle Province autonome?
Assolutamente no, il loro ragionamento è lineare.
La provincia di Belluno è nata nel 1866 e i suoi attuali confini risalgono al 1923, con l’acquisizione dei comuni di Cortina, Livinallongo- Fodom e Colle Santa Lucia. Si tratta di una provincia priva di grande coesione, con territori che parlano linguaggi diversi ed hanno economie diverse. Cosa ha unito nel passato queste fratture, specialmente quella storica tra la Belluno nobiliare e possidente del 1500 con il resto del “contado” produttivo? La risposta che il Comitato offre è decisa: le guerre e la sfiga.
Oggi il primo argomento ha perso senso, l’Alemagna non assume la valenza strategica del passato. La sfiga si è chiamata anzitutto miseria, con un secolo di emigrazione che è arrivato al ritmo di 5.000 fughe l’anno. Una situazione che ha sfibrato l’intera comunità, l’ha dissolta. E poi le occupazioni, le alluvioni sempre più devastanti ed i crimini come il Vajont. Non c’è un solo passaggio positivo, e lo sappiamo che una comunità si consolida solo con i successi. Che almeno parzialmente sono arrivati negli ultimi trent’anni con l’assunzione di un modello di sviluppo urbano, estraneo alla cultura della montagna. Sia nello sviluppo industriale, slegato dal territorio, sia nel turismo, che ha ulteriormente impoverito i coltivatori dell’alpe, i contadini, i boscaioli. Ma tutta questa ricchezza prodotta - ci ricorda il sociologo Diego Cason - non si è trasformata in capitale sociale, ma in una somma di patrimoni individuali.
Questa debolezza comunitaria e di identità ha avviato dal 1990 un saldo naturale negativo fra nati e morti, 800 persone l’anno. La popolazione è anziana, entro il 2020 si saranno persi 13-15.000 lavoratori attivi, oltre il 10% della attuale forza lavoro. L’indice di vecchiaia è salito a 182, il 25% della popolazione supera i 65 anni già oggi. Come mantenere e gestire il patrimonio esistente si chiede il Comitato, se a Selva di Cadore, ad esempio, ci sono 887 abitazioni non occupate su 1115, il 78,7% degli immobili? La provincia diventerà solo una terra di conquista per ricchi affari immobiliari, in quanto si è in assenza di un disegno di sviluppo autonomo, autogestito e condiviso con la popolazione. Infatti le élites dirigenti del Veneto non hanno alcun interesse per la montagna, o meglio, non ne hanno alcuno per i montanari. In vacanza in Dolomiti ci verranno comunque, che gli frega se l’albergo non è più di proprietà di un imprenditore locale?
Il referendum
Certo, non è attraverso i referendum comunali, che pure hanno colto la profondità del disagio, che si risolve il problema della provincia di montagna. Questi accentuano solo effetti negativi: dividono la popolazione dello stesso comune, l’eventuale loro successo indebolisce tutti gli altri e li rende più esposti alla dissoluzione, e si troveranno a convivere in comunità già strutturate entro le quali rimarranno per sempre minoranza.
All’interno di questa analisi è stata strutturata la proposta referendaria di annessione al Trentino-Alto Adige. Il Comitato proponente ritiene che al giorno d’oggi questa sia l’unica possibilità per l’intera provincia di evitare la dissoluzione come entità e vita.
Perché si offre fiducia alle comunità inserite all’interno di una nuova collocazione amministrativa. Perché questo trasferimento si inserisce in una Regione non accentrante, un contenitore di due Province autonome alle quali non viene “annessa” Belluno, ma una terza provincia autonoma, necessariamente dotata di potere legislativo poiché la nostra Regione questo potere l’ha delegato alle Province.
Perché questa soluzione inserirebbe la provincia in un contesto di due legislazioni (di Trento e Bolzano) attente ai problemi della montagna e capaci di proporre leggi e regolamenti adeguati. Non vi sarebbe subordinazione ma autonomia nella collaborazione. E, fatto non trascurabile, le due Province autonome si sono già dotate di comunità (otto a Bolzano e sedici a Trento) ed hanno già compreso come, nelle realtà montane, gli enti amministrativi centrali sono strumenti per le diverse comunità di valle, alle quali delegare molte competenze dirette. L’adesione a questo modello riconoscerebbe non solo una teorica specificità della Provincia, ma una reale autonomia delle comunità di valle, mantenendo una coesione amministrativa indispensabile per poter produrre politiche territoriali adeguate. L’obiettivo è quello di costruire un’autonomia basata su una identità proiettata al futuro, mai nostalgica. Le comunità che si lasciano morire senza reagire sono già morte. E l’identità con loro.
La reazione dei “nostri”
Il mondo politico regionale si è mostrato indispettito dall’azione diretta promossa dai cittadini bellunesi.
Durnwalder ha tagliato corto invitando i bellunesi a chiedere l’autonomia per loro stessi. Al massimo, risponde provocatoriamente, accetterebbe solo Cortina nei suoi confini.
Dellai presenta un quadro più articolato e convincente. Invita le popolazioni di montagna a costruire un sistema, una rete di territori autonomi dell’intero arco alpino.
Marco Boato, il sostenitore del referendum di Lamon, giudica invece questo passaggio politicamente impossibile.
Certo la confusione è tanta. Anche perché l’asse Durnwalder-Dellai non ha alcuna intenzione di investire in una politica solidaristica che sposti l’asse Nord Sud, quello ricco, mercantile, verso i paesi poveri dell’est o ad ovest. Al massimo sono disposti ad elargire l’elemosina di qualche progetto, non sempre disinteressato, ai soli comuni confinanti.
Nel bellunese è la Lega ad essere in difficoltà. È stato dimostrato come il federalismo, qualora applicato nella attuale proposta, porti vantaggi solo a 18 comuni bellunesi, quelli turistici, ad alto capitale immobiliare. Gli altri subiranno ulteriori tagli ai bilanci, in pratica saranno portati alla morte.
Quanto discusso nel bellunese in questi mesi di campagna referendaria riporta la politica complessiva al dovere di rifondare il significato dell’autonomia, superando visioni nostalgiche della storia, superando letture superficiali che ci descrivono come isole di privilegio. È necessario investire, come (a parole) ben propone Dellai, in autonomie basate sui territori, in autonomie legate alla specificità montana. E questo anche per la sempre troppo sbandierata “difesa della (nostra) autonomia”: che per non apparire gretto privilegio, non può ridursi a discusse motivazioni storiche o a non irremovibili ancoraggi internazionali, né quindi può essere escludente; deve invece rappresentare la veste istituzionale adatta a una vera politica per i territori di montagna. E quindi, i vicini rinchiusi in una gabbia istituzionale ghettizzante (la ricca pianura veneta degli sfigati montanari se ne frega) è pronta ad accoglierli, non ad escluderli per tema di diluire privilegi.
Insomma, questa di Belluno è anche per noi una provocazione decisa e autorevole, che da sassolino in poco tempo potrebbe assumere le dimensioni di una frana.
Difatti le reali esigenze della montagna non si possono più nascondere, né ridurre a una guerra fra poveri. Anche perché il buon governo dei territori delle alte quote potrà portare risposte significative e di qualità anche alle esigenze urbane e della pianura. Non solo perché l’alpe ritornerà ad essere coltivata e gestita, non solo perché gli spazi ricreativi e naturali ancora presenti diventeranno i grandi parchi ricreativi che ospitano la fuga dai ritmi delle metropoli, ma perché una montagna ben governata, popolata, ricca di servizi e opportunità per i giovani, costruirà la sicurezza - ambientale ed ecologica innanzitutto - delle grandi pianure. Belluno chiede a tutti noi l’assunzione di un forte senso di responsabilità collettiva.