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QT n. 16, 29 settembre 2007 Servizi

Che succede in Asia?

Contrariamente all’apparenza, le cose in Irak vanno bene per Bush. Ma ci sono altri problemi, l'Iran e molto altro...

Il generale David Petraeus, con questo suo strano nome latineggiante, è tornato a Washington per tenere rapporto sullo stato della provincia più turbolenta dell’impero, l’Irak, così come un tempo il comandante dei legionari romani sul Reno periodicamente tornava a Roma per informare il senato sulla guerra ai barbari. Forse - s’è supposto - ha detto proprio quello che l’amministrazione Bush si aspettava che dicesse, a un anno dalle elezioni presidenziali: le cose non vanno male, un po’ alla volta si stanno sistemando, possiamo permetterci di iniziare il ritiro del contingente.

Marines americani in Irak.

A nessuno è sfuggito che la proposta di ritiro, condizionata peraltro esplicitamente da ulteriori progressi sul terreno, riguarda solo i rinforzi di 30.000 uomini mandati di recente, non il contingente "stabile" di 165.000 uomini. Per quelli Bush è stato lapidario: resteranno a lungo, anche dopo il cambio alla presidenza degli Stati Uniti.

Per chi ha seguito le mie analisi pubblicate su questa rivista, nulla di nuovo: Bush ha dato in pasto all’opinione pubblica americana (e non solo) stanca della guerra il bocconcino ghiotto della parola "ritiro", quanto basta per tenerla buona ancora un po’, almeno fino alle prossime elezioni. Ma nulla cambia nella strategia di fondo, che contempla la continuazione della occupazione dell’Irak presumibilmente a tempo indeterminato. La notizia di questi giorni delle rinnovate minacce di attacco americano all’Iran confermano indirettamente che il presidio americano in Irak (e in Afghanistan) non sarà smantellato né domani né dopodomani, semplicemente è lì per rimanerci finché serve alle logiche dell’impero.

Queste minacce, ci si potrebbe chiedere, rientrano pure nel fumo della propaganda pre-elettorale? Servirebbero forse a distrarre l’opinione pubblica dal "disastro Irak"?

La risposta qui è più complessa. Certo, un’opinione pubblica - il vero tallone d’Achille di ogni presidenza americana dai tempi del Vietnam a oggi - stanca della guerra, non può venire tranquillizzata con la minaccia di una nuova guerra, sarebbe un controsenso. Il "disastro Irak", dal punto di vista di Bush, è soprattutto un disastro mediatico, di calo catastrofico della popolarità del Presidente e del Partito Repubblicano.

Il gen. David Petraeus.

Le cose sul terreno in realtà sono andate, per gli americani beninteso, sempre meglio. Il piano di suddivisione etnico-confessionale dell’Irak è andato avanti a meraviglia, quasi da solo: i curdi si sono subito arroccati nel Kurdistan, scacciandone con le buone o le cattive gli estranei; sunniti e sciiti si sono dati da fare egregiamente, scannandosi a vicenda con attentati a catena, rapimenti e sgozzamenti, sino a giungere alla attuale quasi perfetta divisione su basi etnico-religiose del Paese: sciiti al sud, sunniti al centro, Baghdad rigidamente suddivisa in quartieri sunniti o sciiti. Gli inglesi hanno colto la palla al balzo per lasciare il sud del paese dove, ormai, c’era poco da fare: gli sciiti hanno il totale controllo del territorio; gli americani con qualche accordo azzeccato hanno accontentato sceicchi e capitribù sunniti (e qualche esponente del vecchio Baath al potere con Saddam), ottenendo una significativa riduzione delle aree calde del Paese. I morti ci sono sempre, ma sono soprattutto civili e poliziotti irakeni, quelli americani sono di meno, tanto basta…

Oggi il contingente americano, via via sempre più libero da compiti di polizia e peace-keeping, può dedicarsi meglio allo scopo principale per cui è stato inviato in Irak: organizzare il proprio compito di presidio armato sul confine orientale dell’Impero, quello che in sostanza era una volta il compito dell’armata americana in Germania Ovest, ai tempi della Cortina di Ferro. Resta, come si diceva, il tallone d’Achille dell’opinione pubblica, oggi cavalcata (interessatamente) dal Partito Democratico che probabilmente, se domani andasse al potere, si troverebbe a fare comunque più o meno le stesse scelte di Bush.

Chiariti questi aspetti, veniamo alla notizia del giorno: la minaccia di attacco all’Iran. E’ credibile? La situazione appare un po’ confusa: El-Baradei per conto della AIEA ha appena raggiunto un accordo con l’Iran che certifica in sostanza la "buona volontà" di Teheran e la sua disponibilità a collaborare per un nucleare a soli scopi civili; gli americani, dal canto loro, fanno finta di non aver sentito né visto nulla, e premono sulle Nazioni Unite per un programma di pesanti sanzioni; la Francia di Sarkozy - inaspettatamente per chi era abituato a una Francia che sistematicamente fa la fronda - calca la mano, dando per imminente un intervento americano e, addirittura, proponendo sanzioni extra-ONU, ossia promosse e gestite direttamente dalla Unione Europea. E’ probabile che gli americani abbiano da tempo nel cassetto non uno ma più piani di attacco all’Iran, di diversa intensità e con diversi obiettivi: qualcosa che per gli uffici di pianificazione militare del Pentagono costituisce lavoro di routine e che non riguarda solo l’Iran ma anche qualsiasi altro Stato potenzialmente nemico. Periodicamente si hanno queste fughe di notizie su attacchi imminenti a questo a quel Paese-canaglia, del resto ben pilotate, che hanno l’evidente scopo di aumentare la pressione sul nemico di turno e di fornire, con la minaccia, i muscoli di cui abbisogna l’azione diplomatica di un grande impero.

George W. Bush.

Ma qui c’è qualcosa di più, e francamente preoccupante. Dobbiamo fare un passo indietro. Solo un mese fa, in pieno agosto, le agenzie davano poche righe di notizia, a malapena riprese dai quotidiani, in cui si annunciava la trasformazione del Patto di Shanghai (sorto nel 1998) da organizzazione volta alla consultazione su temi economici e di sviluppo della cooperazione, in vera e propria alleanza militare. Imponenti manovre militari congiunte russo-cinesi tra gli Urali e lo Xinjang, che diverranno periodiche, ufficialmente solo "per allestire una risposta rapida e efficace contro il terrorismo, il traffico di droga e i gruppi criminali internazionali", hanno in realtà aperto gli occhi anche ai ciechi. La Russia di Putin si è stancata della pretesa americana di ficcare il naso nel suo cortile di casa (Ucraina, Georgia…); la Cina, con gli americani alle porte (pochi ricordano che l’Afghanistan ha un lembo di territorio che confina con la repubblica cinese), hanno deciso di piantare dei paletti ben visibili.

La nuova alleanza sulla carta è impressionante, con numeri paurosi: 1/3 della popolazione mondiale, due forze nucleari di tutto rispetto, 4 milioni di soldati in divisa, due seggi permanenti all’ONU. Per l’occasione sono stati invitati al vertice del Patto di Shangai, oltre agli stati fondatori (Cina, Russia, Uzbekistan, Tajikistan, Kirgizistan, Kazakistan), anche altri in veste di osservatori interessati, ossia la Mongolia, l’India e - manco a farlo apposta - l’Iran, presente al massimo livello con il suo presidente Ahmadiinejad!

Il presidente russo Vladimir Putin.

Non è un caso che proprio di recente Bush abbia stretto un accordo con l’India che pone fine a sanzioni trentennali originate dal programma nucleare indiano; non è un caso che gli USA premano da tempo per una revisione della costituzione giapponese che permetta il riarmo del Sol Levante: tutto in Asia si sta muovendo. Mentre noi europei pensiamo ancora di stare al centro del mondo, i grandi giochi si sono spostati a Oriente, e le spedizioni americane in Irak e Afghanistan ne sono state soltanto l’inizio.

Come abbiamo già segnalato in altri articoli, si è compiuto in questo agosto 2007 un disegno di ampia portata, promosso inizialmente dalla Cina, che ha coinvolto via via la Russia e gli altri paesi dell’Asia Centrale, tutti accomunati dalla determinazione a bloccare l’espansionismo imperiale americano. Se prima, separatamente, la Cina si era incaricata di gestire (e risolvere brillantemente, come s’è poi visto) la questione nucleare della Corea del Nord), e la Russia aveva preso sotto tutela l’Iran, ora è il Patto di Shanghai che emerge con discrezione come il vero dominus della situazione in Asia e si fa carico direttamente del "dossier Iran". Ecco allora che il rinnovo delle minacce americane all’Iran, incomprensibile nell’ottica di dare un contentino all’opinione pubblica interna, acquista il suo più preciso significato di ballon d’essai: l’America vuole saggiare la solidità e la consistenza reale del nuovo Patto che riunisce praticamente le potenze dell’Asia, la loro reale volontà di ergersi a contropotere e barriera all’espansionismo neo-imperiale degli USA.

La conclusione è ovvia: il "dossier Iran" sarà la cartina al tornasole, la prova del nove, della saldezza e della solidità di questa nuova alleanza che, evidentemente, aspira a coprire il posto che nel mondo bipolare fino al 1989 era occupato dall’URSS. Il generale Petraeus, in conclusione, è tornato a Washington per rassicurare i senatori che le cose in Irak vanno meglio, o per consultarsi sui nuovi piani del Pentagono e sulla strategia di contenimento della nuova potenza dell’Asia?