Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 2, 26 gennaio 2008 Servizi

Il silenzioso, incredibile compromesso

L’Iran assolta dalle accuse “nucleari”; in cambio gli USA non vengono disturbati nell’opera di normalizzazione in Iraq.

Ancora una volta il quadro mediorientale sembra in movimento. Due elementi condizionano fortemente la situazione dello scacchiere. Il primo: la "vittoria morale" dell’Iran, che ha inopinatamente avuto da un ormai famoso rapporto della CIA un attestato di buona condotta sulla questione delle armi atomiche: gli allarmi erano ingiustificati, l’Iran non aveva lavorato alle armi atomiche.

Il secondo elemento, che abbiamo più volte, su questa stessa rivista, anticipato e che ora è sotto gli occhi di tutti: in Irak l’America ha vinto la partita. Il Presidente cow-boy, proprio quando l’opinione pubblica lo abbandonava e sempre più numerose si levavano le voci favorevoli al disimpegno, come un bravo giocatore di poker ha saputo mantenere la calma e tentare l’azzardo estremo del rafforzamento del contingente di truppe in Irak. Sembrava l’ultima pazzia, ma i fatti gli hanno dato ragione, almeno dal punto di vista militare. Quei 30000 soldati in più arrivati un anno fa hanno fatto la differenza. Oggi l’Irak si avvia alla normalità. Gli attentati ci sono ancora, è vero, ma su scala infinitamente ridotta.

Acqua e elettricità arrivano ormai in tutte le città irakene. Il petrolio pompato ha di nuovo raggiunto le quantità prebelliche. Metà della popolazione possiede un telefonino. Stanchi della guerra, sciiti e sunniti, questi ultimi forti di qualche robusta concessione in più, sono ormai manifestamente alla ricerca della normalizzazione dei rapporti interreligiosi (magari a spese dei curdi che, oggi, sono decisamente più preoccupati di ieri).

Muqtada al-Sadr

I due fatti di cui sopra sono tra loro collegati? E’ possibile. Nessuno può pensare che il rapporto della CIA che scagiona l’Iran sia venuto fuori per sbaglio o per caso: la CIA dipende dal ministero della difesa americano il cui titolare siede in tutte le riunioni di governo accanto a Bush. L’America, minacciando e promettendo di castigare un Iran evidentemente sicuro di sé (perché al riparo dell’ombrello russo, o russo-cinese), s’era certamente cacciata in un vicolo cieco; né, s’è detto, Bush desiderava terminare il suo mandato con un’ennesima avventura militare devastante per lui e il suo partito. Bisognava fare marcia indietro, senza perdere troppo la faccia, anzi magari anche cercando di fare la bella figura di chi dice: vedete, noi americani siamo bravi e onesti, se sbagliamo, siamo pronti a riconoscerlo per primi.

Tuttavia questa lettura ci appare un po’ semplicistica, anche se non priva di verità. La premessa della costruzione della vittoria militare sul campo irakeno è stata, a ben vedere, la relativa tranquillità della componente sciita (maggioritaria nel paese) dell’Irak che ha in mano il governo del paese insieme ai curdi. Non senza mugugni e inquietudini: le milizie sciite estremiste di Muqtada al-Sadr ogni tanto si fanno sentire (si pensi ai recenti attentati di Bassora, nel sud), ma nel complesso "collaborano" col governo centrale filo-americano. Gli USA hanno vinto sul campo perché proprio le componenti sciite – legate religiosamente e storicamente all’Iran- hanno appunto collaborato. Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo, se le milizie di Muqtada al-Sadr, sobillate dall’Iran, avessero in questi anni stretto un ferreo patto d’azione con i ribelli sunniti e magari con al-Qaeda; controllare l’Irak sarebbe davvero divenuto un’impresa impossibile per gli americani, a meno di non mettere in conto un intervento militare due o tre volte più massiccio (di difficile gestione di fronte all’opinione pubblica) o di dare il via libera a qualche Stato della regione, la Turchia per esempio, per una occupazione del Paese, con conseguenze imprevedibili su tutto lo scacchiere.

La dirigenza iraniana in questi anni si è dovuta muovere letteralmente sul filo del rasoio, cercando di comporre due esigenze strategiche antitetiche: mantenere l’Irak, per la prima volta nella sua storia dopo l’indipendenza dagli Ottomani, sotto il controllo di un governo amico perché sciita; e allo stesso tempo tenere a bada la tentazione americana di regolare i conti con l’Iran, agitando lo spauracchio di alimentare il caos nella regione e la guerriglia anti-americana.

A ben vedere l’aspetto più incredibile della situazione dell’Irak di questi difficili anni sta in una serie di paradossi, almeno tre.

1. Il governo irakeno è stato (è tuttora) filo-americano per necessità e filo-iraniano per vocazione: dopo tutto al-Sistani, il grande ayatollah sciita dell’Irak, è di origini iraniche ed è legato alla gerarchia sciita d’oltreconfine, da sempre sovranazionale.

2. All’Iran è sempre convenuto (e tuttora conviene) fare ogni cosa per mantenere in piedi il governo irakeno a maggioranza sciita, ossia il governo messo in piedi dagli americani…

3. Gli americani sbraitano e minacciano (oggi, in verità, un po’ di meno) contro il Paese che, appoggiando il governo sciita, obiettivamente è stato un alleato non-dichiarato nella loro campagna militare per stabilizzare l’Irak.

George Bush.

Misteri della politica internazionale… o non, piuttosto, grande realpolitik del conio più classico, che impone di fare accordi sottobanco anche con il Diavolo, se alla fine conviene a Dio?

Forse si può immaginare il "grande compromesso" – che mai sarà dichiarato né riconosciuto da nessuno- che ormai si profila tra le due parti: l’Iran ottiene un riconoscimento de facto del suo status di potenza regionale, abilitata (sotto la discreta tutela della Russia) a un limitato sviluppo atomico; gli USA ottengono la garanzia che la recente vittoria in Irak e la relativa normalizzazione della sua situazione non siano rimessi in discussione o in pericolo dall’unico Paese che avrebbe la concreta possibilità di farlo. L’Irak si stabilizzerebbe in futuro come un protettorato americo-iraniano.

Scenario credibile? Certamente possibile. Specialmente se a Teheran, come molti segnali lasciano intuire, al prossimo giro elettorale vi sarà anche un giro di boa politico, con il ritorno al timone del Paese di una coalizione di riformisti e pragmatici, insomma di un Khatami e di un Rafsanjani.

C’è comunque dell’altro. L’America con la vittoria in Irak ha probabilmente conseguito il suo obiettivo strategico immediato: il dominio di una delle zone-chiave per il controllo del rubinetto dei rifornimenti petroliferi e il posizionamento geo-strategico in uno scacchiere che tutte le analisi indicano come decisivo per l’evoluzione degli equilibri mondiali futuri. Ma il prezzo che si profila è stato altissimo: nel mondo arabo l’America è odiata da masse crescenti e i regimi "amici" (Arabia, Egitto, Pakistan) appaiono sempre meno sicuri o persino traballanti (di qui lo sforzo di Bush di rifarsi la faccia, perorando l’eterna causa palestinese di fronte ai caparbi israeliani); l’Europa, non certo avvantaggiata dall’aggressività neocoloniale americana, viaggia ormai su altri binari cercando in ogni modo di prendere le distanze dalla politica estera americana ed è ormai convinta che deve averne una tutta sua: è la fine della NATO classica come sistema di potere politico-militare funzionale alla politica degli USA; la Russia, fornendo protezione (e programmi nucleari) all’Iran è riemersa di prepotenza sullo scacchiere mediorientale come attore discreto, ma con cui si devono fare i conti.

Ma soprattutto in questi anni in cui l’America bastonava gli arabi e alimentava il razzismo anti-islamico, è silenziosamente emersa l’Asia nel suo complesso: se trent’anni fa Europa e America avevano tre quarti del commercio mondiale, ora il loro peso è pareggiato e forse già superato dalle potenze commerciali asiatiche vecchie e nuove: Giappone e Corea, gli "sceicchi del golfo", ma anche Cina e India, per non parlare delle "tigri" del Sud-Est asiatico. Il debito estero americano poggia in gran parte sulla benevolenza di banche creditrici arabe e cinesi. Le banche americane in crisi per i mutui sub-prime vengono salvate da capitali cinesi e arabi… Il dollaro ha visto il suo valore dimezzarsi rispetto all’euro: all’inizio il cambio era 1 euro = 0,70 dollari, oggi è l’inverso, e il risultato è che il dollaro sta cedendo posizioni nel suo ruolo di moneta di riserva.

E’ finita un’ epoca. Forse la vittoria di Bush in Irak sarà ricordata davvero come la vittoria di Pirro del XXI secolo.