Dall’Irak alla Georgia
Successi e disfatte della politica estera americana
E' arrivato in Irak fresco di nomina il gen. Odierno, e il gen. Petraeus torna negli USA con l’aureola del vincitore passando al Comando Generale delle operazioni per il Medio Oriente e l’Asia Centrale. Ormai il fronte caldo è l’Afghanistan, o meglio il confine afghano-pakistano, e Petraeus dovrà pianificare la nuova strategia per uno scacchiere che negli ultimi tempi si è rivelato una fonte di preoccupazioni crescenti. In realtà, l’Afghanistan è solo l’iceberg della più ampia polveriera pakistana dove, dimessosi Musharraf, si apre un periodo di incertezza. Tocca ora a Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, giunto al potere sull’onda emotiva suscitata dalla morte tragica della moglie, fronteggiare un Paese con problemi immensi, i cui umori sono da sempre anti-americani, in cui le masse sono manovrate da ulema più che sensibili alle sirene del verbo fondamentalista. E in cui una parte consistente del potente SIS, il servizio segreto dell’esercito, è in ambigua relazione coi Taliban afghani, secondo molti osservatori dal SIS medesimo a suo tempo creati e tuttora foraggiati. Insomma, risolvere il problema afghano, dal punto di vista degli USA, non si può senza avere risolto il rebus della politica interna pakistana.
Il Pakistan è un paese formalmente alleato degli Stati Uniti, e sotto questo aspetto il passaggio da Musharraf a Zardari non dovrebbe cambiare le cose; ma qualsiasi governo pakistano, per sopravvivere, è costretto a un qualche compromesso con i poteri forti del Paese (le moschee, l’esercito, i servizi segreti) che in pratica agiscono spesso come attori politici autonomi. L’impressione è che gli USA potranno arrivare a presidiare in modo più o meno efficace l’Afghanistan, ma non possono sperare di vincere sul campo definitivamente, come in sostanza sta avvenendo in Irak: occorrerebbe infatti "normalizzare" con la forza la sterminata retrovia dei Taliban, ossia quel Pakistan che ha 150 milioni e passa di anime, ossia è cinque volte più popoloso del semidesertico Irak. Nessuno in America si illude di farlo direttamente: meglio lasciare il compito a un governo amico, come promette di essere quello di Zardari, e sperare poi che sia in grado di farlo davvero (e lo voglia).
Un’occasione storica sprecata
Nel frattempo sono venuti al pettine i nodi della politica estera americana posteriore al crollo dell’URSS. Gli Stati Uniti hanno ampiamente profittato della debolezza russa durante la presidenza Eltsin che, in cambio di poche lenticchie, non solo aveva rinunciato ad ogni ambizione di primato politico-militare, ma aveva persino lasciato agli americani via libera nell’Europa dell’Est: a uno a uno i Paesi dell’ex Patto di Varsavia (Polonia, Cekia, Slovacchia, Ungheria) sono entrati nella NATO. Il gioco sembrava così facile che gli americani ci hanno provato anche con la cerchia dei Paesi confinanti della Russia, quelli formanti la sua cintura di sicurezza: i Paesi baltici, Ucraina, Georgia che hanno dato vita alle famose "rivoluzioni arancioni" in chiave filo-americana.
La risposta russa non poteva tardare, e la presidenza Putin ha segnato in effetti un giro di boa: nel Caucaso e in Ucraina i russi sono tornati a far sentire la loro voce, se necessario anche quella delle armi. Al contempo la Russia neo-imperiale di Putin ha stretto legami con la Cina nel cosiddetto Patto di Shangai, che include anche gli stati dell’ex Asia Centrale sovietica (Uzbekistan, Kazakhstan, Tajikistan, ecc.) e ospita spesso, in veste di osservatore, persino la bestia nera di Bush, l’Iran di Ahmadinejad.
Questo breve riassunto ci mostra come gli USA abbiano perso una storica occasione. Invece di stringere con la Russia post-sovietica un accordo leale di cooperazione economica e di alleanza politica in vista della sfida che proviene da Oriente (Cina, India, tigri del Sud-Est asiatico), gli USA hanno insensatamente braccato l’Orso russo sino a costringerlo a una furiosa reazione. Gli ultimi atti di questa dissennata politica, la decisione di installare postazioni anti-missile in Polonia e Cekia, l’aiuto sottobanco alla Georgia nella sua folle impresa in Ossezia, sono state autentiche provocazioni a cui il Cremlino non ha potuto che rispondere nel modo che sappiamo.
Questa politica di provocazione ha fatto però, inaspettatamente, un miracolo: quello di unire una volta tanto l’Europa intorno a Sarkozy che, ridotte al silenzio le opposizioni dei Paesi UE più filoamericani, ha promosso il primo netto smarcamento europeo dalla politica americana del dopoguerra, rifiutandosi di approvare sanzioni contro la Russia. Parallelalmente in agosto, alla riunione del Patto di Shangai in Tajikistan, la Russia incassava un’ altra discreta, ma importante copertura: quella cinese.
Gli USA, dopo la guerra Georgia-Ossezia, anche a prescindere dalla débacle finanziaria di queste settimane, sono più deboli e, soprattutto, più isolati. Il fatto nuovo è che Putin e Sarkozy sono emersi come nuovi protagonisti sullo scenario della geopolitica contemporanea e hanno dato un segnale inequivocabile della riscossa non solo della Russia post-comunista, ma anche dell’Europa nel suo insieme. Quell’Europa che –diceva il vecchio De Gaulle, ai tempi della cortina di ferro- non risorgerà come soggetto autonomo e forte sulla scena mondiale finché non andrà dall’Atlantico agli Urali. La profezia forse si sta avverando.