Fatti nuovi in Medio Oriente?
Dopo la fiammata in Libano, tutto sembra fermo. Ma non è così...
Il Medio Oriente è apparentemente entrato, nel dopo Libano, in una fase di bonaccia: tutto sembra fermo, stagnante.
In Palestina Hamas e Fatah non trovano un accordo per fare un governo unitario (né ad Israele preme più di tanto affrettare l’evento), e intanto proseguono attentati e rastrellamenti quotidiani; in Iraq la guerra civile non dichiarata tra sunniti e sciiti continua a celebrare i suoi macabri riti giornalieri; l’Iran, forte dell’ormai esplicito appoggio di Cina e Russia, si fa beffe delle minacce di sanzioni dell’Occidente o dell’ONU al suo programma nucleare.
Ma vi sono anche fatti – diremmo noi di cronaca culturale e di costume - apparentemente lontani dalle fiamme dell’incendio mediorientale - da segnalare: la Turchia subisce l’ affronto del parlamento francese che vara la legge sull’olocausto armeno quasi nelle stesse ore in cui, a Stoccolma, si decide di premiare col Nobel lo scrittore scomodo Pamuk; in Marocco, uno stato musulmano retto da una dinastia che si dichiara discendente diretta di Maometto, si pensa di vietare il velo dichiarandolo ufficialmente un emblema politico (sottinteso: estremista), non più religioso; infine un gruppo di esponenti e autorità religiose musulmane pubblica una lettera aperta al Pontefice romano accettandone le scuse per l’incidente di Ratisbona e dicendo altre cose estremamente interessanti. Vediamo, in questo primo articolo, all’interno di quale panorama si collocano
E’ chiaro che la Palestina è nuovamente uscita dall’agenda dei problemi urgenti dei Grandi del pianeta. Intanto, finché Fatah e Hamas litigano, Israele può continuare alacremente a portare avanti il suo piano di separazione di ebrei e palestinesi: il Muro non verrà demolito e il suo completamento porterà a compimento un progetto di lunga data.
Pochi ricordano in effetti che l’idea ha radici antiche: già dal 1923 il fondatore di una sorta di “sionismo revisionista”, Ze’ev Jabotinsky, in alcuni suoi saggi proclamava l’esigenza di erigere nel futuro stato ebraico “un muro di ferro che loro (gli arabi palestinesi) non avranno il potere di distruggere” (si veda in Limes di ottobre dedicato a “Israele contro Iran”). L’idea era che l’insediamento dello Stato ebraico dovesse essere di necessità un atto unilaterale che programmaticamente escludeva qualsiasi accordo o patteggiamento con i “locali” defraudati della loro terra. Qualcosa di simile alla mentalità dei conquistadores spagnoli seguiti all’impresa di Colombo, i quali non pensavano certamente che la costituenda colonia cattolica d’oltremare dovesse scendere a patti con gli indigeni “brutti e cattivi” e persino pagani.
Che a quasi un secolo di distanza questa sia la realtà – l’auspicato “muro di ferro”, anzi, è qualcosa di ben più sofisticato di quanto Ze’ev potesse a suo tempo immaginare - è ormai sotto gli occhi di tutti. Con buona pace di chi crede ancora al desiderio delle élites di Israele di addivenire a un accordo reale e ad una pace equa con i defraudati. E con la benedizione dell’Europa e dell’America (di Clinton o Bush, qui non importa), che mugugnano un po’ ma non si oppongono. Israele da un secolo a questa parte ha sinceramente perseguito un sogno antico, il suo sogno: lo ha realizzato a spese dei palestinesi, e, come i fatti e le temibili prospettive future ci mostrano, a spese di qualsiasi speranza di pace duratura nell’intera regione.
E’ vero che l’Inghilterra degli ultimi anni del colonialismo aveva tentato di fermare, o meglio di rallentare questo progetto, ansiosa di non urtare troppo il mondo arabo; ma né l’Inghilterra né alcun altro Stato europeo si levò in armi per bloccare sul nascere la fondazione motu proprio dello Stato d’Israele nel 1948 e tantomeno per costringere gli israeliani a rispettare le risoluzioni dell’ONU degli anni successivi. Fu cinicamente accettato il fatto compiuto e qui – comunque la si rigiri - è la radice dei problemi attuali. Indubbiamente l’Europa, anche su pressione della lobby ebraico-americana, aveva finito per accettare l’idea di uno Stato ebraico, forse già intravedendo la possibilità di farne il cane da guardia degli interessi dell’Occidente nell’area.
Inoltre - fatto che si tende a sottovalutare - all’indomani del grande processo di Norimberga – che aveva messo sotto gli occhi del mondo l’immensa tragedia dell’Olocausto - la coscienza sporca dell’Europa cristiana era psicologicamente pronta (o rassegnata) ad accettare lo Stato di Israele nell’ottica del “risarcimento”. Anche la successiva infinita indulgenza europea per il disprezzo israeliano delle risoluzioni ONU sulla Palestina e, in generale, dei diritti delle popolazioni dei Territori occupati, ha la sua genesi a mio avviso proprio in questo stato psicologico dell’Europa cristiana del dopoguerra, nel suo bisogno di farsi perdonare il genocidio ebraico.
Su questo tipo si spiegazioni si può certo discutere e discordare. Non credo sia possibile però negare:
1. il carattere brutalmente coloniale della fondazione dello Stato d’Israele;
2. l’assoluto disprezzo delle ragioni dei “locali”, semplicemente inesistenti dal punto di vista del movimento sionista e di quello degli statisti inglesi e francesi dell’epoca;
3. la remissività dell’Occidente, che da sempre critica sommessamente ma non cerca mai di condizionare seriamente, come potrebbe, le politiche di Israele in materia di amministrazione dei Territori occupati.
L’America appare scossa da quello che tutti i media ormai presentano come il grande fallimento dell’operazione irakena. Non bastasse lo scandalo delle torture di Abu Grayb e Guantanamo, ora anche le statistiche mortuarie sembrano buttare benzina sul fuoco delle polemiche, rivelando una dimensione insospettata della tragedia: 650.000 morti tra i civili e i soldati americani uccisi ormai ben più numerosi dei 3000 morti delle Twin Towers.
Dulcis in fundo, persino il fronte afghano è diventato critico: la missione di peace keeping somiglia sempre più alla guerra civile irakena. Ci sono fondati sospetti che sottobanco Pakistan, India, Iran e Russia (per non parlare della Cina) supportino o finanzino la guerriglia anti-americana (si veda l’articolo di Ahmed Rashid, studioso ben informato, su La Repubblica del 10 settembre).
L’America di Bush, ormai sotto elezioni, non può permettersi di inviare altre truppe (del resto, esaurite le riserve di volontari e soldati di professione, bisognerebbe ricorrere alla coscrizione obbligatoria).
Tutto nero dunque? Dal punto di vista di Bush e dei repubblicani certamente sì: alle prossime elezioni si aspettano una batosta. Il disastro irakeno è, per i repubblicani, tutto lì.
In realtà, già ampiamente promossa e strombazzata da alcuni autorevoli “think tank” americani in questi ultimi tempi, è discretamente iniziata la fase 2, che verrà portata avanti e realizzata anche da un eventuale parlamento a maggioranza democratica. Si tratta della divisione amministrativa del Paese su basi etniche, con prevedibile inevitabile corollario di pulizie etniche (ormai già in atto in molte zone), secondo il modello tristemente noto della ex-Jugoslavia: kurdi a nord, sciiti a sud e sunniti nel resto si preparano ad auto-amministrarsi in modo autonomo. L’esercito e l’amministrazione centrale, alla fine del processo, controllerebbero direttamente poco più della capitale, mentre le forze americane,man mano che la “normalizzazione etnica” procederà, contano di ritirarsi nelle loro basi ben protette e soprattutto isolate fuori delle città.
In realtà, si tratta di un progetto alternativo già contemplato nel piano originale dell’invasione dell’Irak e tenuto di riserva fino ad ora. Gli americani resteranno poi – se tutto va come previsto - a tempo indeterminato.
Tutti sanno che un abbandono improvviso dell’Irak scatenerebbe gli appetiti dei paesi circostanti, e precipiterebbe l’intera regione mediorientale nel caos. Ma, come ho avuto modo di spiegare in altri interventi, non è affatto intenzione degli USA abbandonare l’Irak. Tutta l’operazione irakena (e la precedente in Afghanistan) si giustificano solo in un’ottica (imperiale) di lungo periodo. Non si può “lasciare la zona in balia degli estremisti islamici”: questo il ritornello della propaganda americana. In realtà: non si può lasciare una zona tanto vitale per gli interessi geo-strategici ed economici occidentali in balia di se stessa e delle paventate mire espansionistiche del gigante asiatico, la Cina.
Qui il quadro si complica un po’ nell’analisi, ma il senso complessivo è sufficientemente percepibile. Già dalla fine del XX secolo è in vigore il “Patto di Shangai”, di cui non si parla molto al di fuori delle riviste specializzate. Il Patto unisce alla Cina, in un accordo di consultazione e reciproca solidarietà economico-militare (e di intelligence), la Russia di Putin e i paesi centro-asiatici dell’ex-Urss, a partire dall’ Uzbekistan. Lo scopo di questo Patto è stato il ricompattamento dei soggetti asiatici di fronte all’ “invadenza” americana degli ultimi anni, a partire dalla guerra per il Kuwait.
Il Patto, oltre alla novità di manovre militari congiunte russo-cinesi nella Siberia orientale, una svolta dopo la lunga ostilità che aveva regnato tra le due grandi potenze comuniste nell’era sovietica, ha già prodotto tre o quattro eventi significativi: l’espulsione delle basi USA (presenti sin dalla guerra afghana) dall’Uzbekistan, la presa sotto tutela dell’Iran di Ahmadinejad che entra di fatto nell’orbita russo-cinese; il visibile riaccostamento del Giappone alla Cina e la gestione coordinata russo-cinese del caso Corea del Nord.
In buona sostanza, a cavallo di fine millennio, è nato un contro-potere su scala planetaria. E agli americani è stato dato un altolà, discreto nella forma ma energico nella sostanza, su qualsiasi eventuale progetto di aggressione all’Iran o di ulteriore “satellitizzazione” dei Paesi dell’ex-URSS. In quest’ottica, la Russia di Putin ha pure efficacemente manovrato per normalizzare l’Ucraina, ora ritornata all’ovile moscovita dopo le ebbrezze degli Arancioni, e nello stesso senso sta lavorando nel Caucaso.
Occorre tener presente questo nuovo quadro internazionale e geopolitico, senza capire il quale neppure si capisce granché del puzzle mediorientale. Solo a partire da esso si comprende perché le periodiche notizie sui media circa un prossimo “inevitabile” sganciamento americano dall’Irak o dall’Afghanistan siano solo fumo negli occhi. L’Occidente - di cui gli Usa, bene o male, interpretano il disegno egemonico su scala mondiale - sta puntellando, pur con crescente affanno, la sua presenza nelle province critiche dell’ Impero. L’intervento militare USA o Nato nell’area irakena e afghana è – da un punto di vista geostrategico - una quasi normale e ovvia attività di presidiamento dei confini, difficile e onerosa, ma ineluttabile nell’ottica imperiale del confronto a distanza in atto col gigante asiatico. L’Asia Centrale è oggi, come ho avuto modo di sostenere ancora, il vero confine avanzato dell’Occidente dagli anni ’90 in poi, così come ieri lo era la Cortina di ferro.
Dall’altra parte ora non c’è più l’URSS ma la Cina, un Paese in crescita impetuosa (10 % annuo e probabile sorpasso del PIL americano entro 10-15 anni), politicamente e commercialmente sempre più aggressivo, una politica estera espansiva discreta ma incisiva e senza remore. Un paese che non da oggi flirta vantaggiosamente con gli islamici: delegazioni arabo-saudite, iraniane, uzbeche, ecc. sono di casa a Pechino, ansiosa di assicurarsi risorse petrolifere indispensabili al suo sviluppo e nuovi mercati, nonché di estendere la sua influenza politico-diplomatica.
Il “pericolo Cina” era chiaramente denunziato nei santuari dei conservatori americani da ben prima della fine del secolo. La Cina si spinge in Africa e persino nel “cortile di casa” degli USA, facendo accordi economici di lunga durata con paesi dell’America Latina e addirittura col cattivo Chavez; stringe poi rapporti politici ed economici con tutti i paesi musulmani che contano, senza remore ideologiche. E che ora “guardano a oriente” come ad una vantaggiosa alternativa alla troppo lunga (e spesso umiliante) dipendenza dell’Occidente. Davvero, la sfida all’egemonia americana è ormai a tutto campo…
Intanto gli USA si attardano in una acritica difesa - questa sì disastrosa per l’immagine dell’Occidente nel mondo musulmano – del paleocolonialismo israeliano e della sua ottusa visione del rapporto con i palestinesi. Lentamente il mondo arabo-musulmano, corroso dall’odio e incattivito da troppe umiliazioni, sta consumando la sua secessione psicologica dall’Occidente, e i frutti, guarda caso, li sta raccogliendo il Patto di Shangai… Insomma, il rischio della dissennata politica occidentale nel Medio Oriente - che, nella percezione dei musulmani, continua a criminalizzare gli arabi cattivi e a benedire il virtuoso Israele - è quello di spingere gradualmente il mondo musulmano nelle ampie braccia del potente gigante asiatico.
E’ lo spettro – di cui si discute per ora solo a livello di ipotesi accademiche - della realizzazione di una grande alleanza Cina-Islam. Che in un futuro non lontano potrebbe mettere l’Occidente alle corde: petrolio arabo, tecnologia e potenza cinese, un mercato immenso…
La risposta americana? E’ nel progetto di Bush di costruire un “Grande Medio Oriente”, solidamente ancorato alla democrazia, ai valori (e agli interessi strategici) dell’Occidente, reso insomma alleato strutturale, organico, di USA e Europa . Progetto che è, sulla carta, molto razionale e più che sensato.
Nei fatti, però, succede che l’Occidente, per difendere a oltranza cause sbagliate e controproducenti, raccoglie in Medio Oriente solo odio, promuove suo malgrado e allarga la base di consenso all’estremismo religioso e anzi, rischia di regalare buona parte del mondo islamico –che da sempre guarda all’Occidente - alla Cina e al Patto di Shangai.
(1. continua)