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QT n. 7, 9 aprile 2005 Servizi

Il papa superstar visto da un non credente

Le contraddizioni di un lungo papato: la svolta autoritaria e personalistica, la riproposizione di forme di religiosità primordiali, l’appoggio a establishment corrotti. Ma anche il primato dei valori e dell’etica, la strenua difesa della pace, il riconoscimento delle colpe, il secco rifiuto allo scontro tra religioni.

Come giudica il papato di Giovanni Paolo II un ateo come il sottoscritto, che si vorrebbe attento ai fenomeni culturali della società, e fra essi importantissimo, la religione? Cattolici e laici, credenti e agnostici, devono convivere nella società; di più, dovrebbero relazionarsi nel profondo, intrecciare le culture, criticarsi, ma anche imparare gli uni dagli altri. In quest’ottica, come valutare l’era di Wojtyla?

Sgombriamo subito il campo dal fastidio per l’accanimento mediatico (definizione di Michele Serra) dei giorni scorsi. Fa parte dell’ormai acclarata incontinenza dei media, accoppiata alla tradizionale subalternità al Vaticano della fragile politica italiana, particolarmente succube oggi, quando non riesce ad essere essa portatrice di valori.

Eppure la stessa predominanza mediatica - ben ne parlano altri in queste pagine (Dopo il diluvio mediatico) - è stata una caratteristica intrinseca al wojtylismo, al di là degli eccessi talora penosi degli ultimi giorni. Il titanismo del papa polacco, che erge se stesso possente contro i mali del mondo; oppure esibisce il corpo macerato e dolente come messaggio in sé, prova vivente della forza della fede: tutto questo è stato uno dei dati più caratterizzanti degli anni di Wojtyla.

Una riaffermazione al contempo fisica e mediatica, della supremazia del papato. Il papa dilatato senz’altro a superuomo, se non a divinità egli stesso ("In questi giorni la gente non prega per Giovanni Paolo, prega Giovanni Paolo" - ha scritto un ossequiente commentatore, involontariamente avanzando un’accusa di idolatria).

Tutto questo porta all’annichilimento della Chiesa come comunità: di fronte a Zarhatustra gli altri sono polvere; cardinali, vescovi, comunità dei credenti non contano più. E’ l’opposto della Chiesa conciliare, giovannea.

E probabilmente la svolta wojtyliana è anche il frutto delle difficoltà post-conciliari. La Chiesa plurale, dialogante, arrancava nell’individuare una propria collocazione nel mondo cui si era aperta: di qui la tentazione del ritorno al passato, dell’esaltazione delle certezze e quindi dell’autorità e del primato papale.

Questa è stata una svolta secca all’interno della Chiesa: la riaffermazione dell’autorità è stata ferma e dura. Ed altrettanto secca è stata la svolta nei rapporti con i non credenti, non più ritenuti validi interlocutori: e d’altronde anch’essi trovavano stimolante rapportarsi con i cattolici del dialogo, molto, molto meno con quelli delle certezze assolute.

Il ritorno alla tradizione si è poi tradotto anche in una riproposizione delle caratteristiche più popolane, ma anche più retrograde, della religiosità: la miracolistica, le Madonne dei santuari e quelle delle lacrime, Fatima e le sue improbabili profezie. Una religione quindi non più rivolta a capire "i segni dei tempi", a mescolarsi con umiltà nella nuova società, per farne germogliare le pulsioni migliori; ma invece tutta rivolta all’indietro, a riaffermare sentimenti antichi e gestire le pulsioni più irrazionali.

Un balzo all’indietro, appunto; che in effetti può trovare ampi spazi nella società odierna, percorsa da nuove insicurezze, ansie e spaesamenti. Ma sono spazi affollati: sul piano dell’irrazionalità pura, la Chiesa entra in concorrenza con i vari reverendi Moon e i telepredicatori, le sette e riti vari, dai Bambini di Dio alle sedicenti Chiese Evangeliche, alla Macumba. E’ un esito auspicabile per il cattolicesimo? Sia sul piano dei numeri (i cattolici sono sensibilmente diminuiti nel quarto di secolo wojtyliano) che su quello del significato profondo di una grande religione.

A nostro avviso è l’aspetto più discutibile del papato wojtyliano, che probabilmente il Conclave dovrà ben valutare.

Ma i ventisette anni di Giovanni Paolo II sono anche molto altro. E su altri fronti, anche per un laico, il giudizio è più articolato.

Anzitutto il terreno dei valori, dove la forza e il rigore morale di Wojtyla hanno forse dato il meglio di sé. La sua predicazione infatti non è stata mai vuota: al contrario, ha sempre comportato un’enfasi tutta particolare sull’impegno personale, sulla coerenza morale, sulla necessità etica di un’adesione ad una scala valoriale.

Di fatto la Chiesa, almeno nell’Italia disastrata dal crollo dell’etica laica conseguente agli orribili anni del craxismo, è stata l’unica grande agenzia culturale che ha continuato a porre come prioritaria la moralità dell’agire. Di qui, a mio avviso, il grande interesse dei giovani, delusi dal parallelo sfaldarsi dell’autenticità delle ragioni delle istituzioni laiche, in primis quelle politiche.

Se entriamo invece nel merito di questi valori, c’è molto da discutere. Perché accanto a valori indiscutibili (e praticati nella realtà da centinaia e centinaia di associazioni del volontariato), come l’accoglienza agli immigrati, l’assistenza ai deboli, la cooperazione con il Terzo Mondo, ce ne sono altri - come il rispetto della vita nei suoi molteplici aspetti - più delicati e discussi, e invece branditi con tracotante sicumera; ed altri ancora - come il perdurante tabù sessuofobico - francamente balzani (ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere: basti pensare alla campagna anti-preservativi in Africa, o alle devastanti turbe omosessuali di troppa parte del clero) e ascrivibili anche all’incapacità personale di un uomo vigoroso e maschio, incatenato per tutta la vita alla costrizione della castità, a riconoscerne, anzi decretarne, da settantenne, l’inutilità.

Di qui quindi il paradossale risultato: Wojtyla incontra un immenso, incomparabile successo, ma tutto personale, accompagnato infatti dalla palese indifferenza per la parte prescrittiva della sua predicazione. I papa-boys lo osannano, ma poi lasciano il prato dell’accampamento ricoperto di preservativi; gli africani lo accolgono con sincera gioia, e tornano a casa alla tradizionale poligamia.

Voglio azzardare un’interpretazione in positivo: è il principio dell’impegno morale, l’incitamento a spendersi per gli altri, quello che viene accolto e forse rimane; non i dogmi e le prescrizioni obsolete.

Rimane infine il piano storico. Wojtyla attore del suo secolo, come ogni papa del resto, ma sicuramente più di tanti altri.

Anche qui il giudizio va articolato. Liberiamo subito il campo dalla bubbola del distruttore del comunismo, su cui abbiamo già scritto, e da cui vediamo che - finalmente - anche altri cominciano a prendere le distanze. Il comunismo implose per le proprie contraddizioni interne, non certo per l’intervento del sacerdote di Roma, semplicemente sconosciuto in Russia (0,3% di cattolici) e poco apprezzato in tanti paesi dell’Est europeo (Cecoslovacchia, Ungheria, Germania). Il fatto che la Chiesa tenda ad appropriarsi di meriti inventati è normale (la falsificazione dei documenti di Costantino, la favola di Attila fermato dal papa...); meno normale è la servile acquiescenza di media e commentatori, ma questa è un’altra storia.

La foto che ha scandalizzato tanti cattolici: Giovanni Paolo II con il dittatore Augusto Pinochet.

L’influenza storica vera è stata altra. E contraddittoria. Da una parte infatti è pesante la partita negativa: la condanna della teologia della Liberazione, e con essa il duro allineamento del clero latino-americano alle convenienze di un establishment corrotto e responsabile della rovina del continente; il personale ed esibito avallo persino a un sanguinario golpista come Augusto Pinochet; l’incitamento alla disgregazione della Yugoslavia, con il supporto al tristo catto-nazionalismo croato, salvo poi rendersi conto, di fronte all’esplodere dei Balcani, di aver agito da apprendista stregone; e ancora altri tentativi di ingerenze da imperialismo religioso, come la tentata penetrazione in Ucraina ai danni della Chiesa ortodossa.

Giovanni Paolo II al Muro del Pianto.

Ma è significativa anche la partita positiva: il non facile pubblico riconoscimento dei torti anzi, dei peccati passati, come le persecuzioni contro gli ebrei; il tentativo (fallito ma tutt’altro che irrilevante) di arginare, in nome del primato dell’uomo, il dilagare delle distorsioni del capitalismo e del consumismo; una dura, coerente (almeno negli ultimi 15 anni) e talora solitaria denuncia della guerra, anche a costo dello scontro con l’unica iperpotenza mondiale, cosa assolutamente non scontata per un’istituzione abituata a benedire tutti gli eserciti.

E infine quello che a mio avviso è il merito storico maggiore: aver rifiutato, con forza e determinazione, la guerra di religione contro l’Islam, ipotesi di lavoro accarezzata da tanti nelle sale vaticane, come cinica (e ahimè tradizionale) via d’uscita all’attuale crisi del cattolicesimo. Wojtyla non solo ha detto di no: ha agito con chiarezza in senso contrario, evitando una catastrofe. Riteniamo che per questo merito il personaggio, peraltro e a ragione non amato dai non credenti, meriti stima e riconoscenza.