Dopo il diluvio mediatico
L’attenzione debordante dei media e la reale influenza esercitata da Giovanni Paolo II sugli stessi fedeli: due cose da non confondere.
Avevamo pensato di dedicare questo articolo all’atteggiamento che i mezzi di comunicazione tenevano rispetto alla malattia e alla sofferenza del Papa, quando giungevano le notizie sull’aggravamento generale del pontefice e sulla sua morte, dopo due giorni di agonia. Il termine dell’esistenza terrena di Giovanni Paolo II ha sconvolto le nostre intenzioni, anche se le continue e doverose dirette televisive, i collegamenti costanti da Piazza San Pietro, le immagini di repertorio, i ricordi, i bilanci, l’emozione in diretta, le dichiarazioni di tutti i potenti della terra e l’esaltazione della figura del Papa polacco ci spingono a riflettere globalmente su quello che è stato definito (da cardinali e opinionisti cattolici) come un pontificato dal grande impatto comunicativo.
Dobbiamo però confessare di non essere in grado, nel momento in cui scriviamo, di valutare in maniera adeguata il diluvio mediatico che ci sta travolgendo. Ci ritorneremo dopo l’ondata, quando si saranno ritirate le acque, per far la conta dei danni.
La definizione di "Papa mediatico" riveste due ambiti diversi: da un lato l’innata capacità comunicativa del Pontefice (che amava il teatro e aveva studiato anche recitazione) e il modo in cui è riuscito ad attrarre su di sé l’attenzione globale; dall’altro lato, viceversa, i rapporti, spesso discutibili, che i mass media hanno avuto con una figura così centrale per la storia contemporanea.
Qualche decennio fa, anche un papa in perfetta attività non usciva mai dal Vaticano, parlava pochissimo in pubblico e, per vedere la sua immagine, era necessario guardare i francobolli e le monete o i ritratti ufficiali. Quando un pontefice era ammalato, praticamente spariva.
Tutto ora è cambiato. Con la diffusione generalizzata dei mezzi di comunicazione anche un papa è diventato un personaggio pubblico, un uomo visibile, un leader che deve compiere gesti significativi, incontrare la gente, intervenire tempestivamente nelle varie questioni. Fino al pontificato di Giovanni Paolo II, i papi precedenti hanno tuttavia subito questa trasformazione comunicativa: si trovavano impacciati davanti ai microfoni prima e telecamere ed anche i gesti significativi ed epocali di Giovanni XXIII nascevano dalla spontaneità di papa Roncalli piuttosto che da una calibrata strategia mediatica.
Karol Wojtyla ha rovesciato la situazione, condizionando in maniera eccezionale i mezzi di comunicazione di massa, piegandoli alla sua visione ecclesiale e pastorale, concentrandoli sulla propria figura, se non proprio sulla sua fisicità. Andrebbe sempre tenuto presente come si comportava un Papa prima di Giovanni Paolo II per capire la vera e propria rivoluzione (di sostanza e quindi di immagine) compiuta dal defunto pontefice: vedere un successore di Pietro sugli sci, sui più improbabili mezzi di trasporto o tra balli e canti, una volta giudicati sconvenienti, è diventato per noi una consuetudine, ma in realtà è stata una svolta epocale.
I numerosissimi viaggi, l’incontro con le culture locali, la conoscenza di molte lingue che gli consentiva un rapporto immediato con la gente, la capacità di improvvisare andando oltre il rigido protocollo, financo il tono di voce deciso e solenne, sono alcuni elementi che hanno creato un’arte comunicativa senza precedenti, almeno per un Papa.
Va ricordato inoltre che Giovanni Paolo II possedeva un’autocoscienza fortissima della missione di vicario di Cristo e riteneva che la Chiesa dovesse essere guidata da una figura carismatica, capace di attrarre le masse in un’epoca di incertezza e relativismo.
E’ indubbio che questo Papa sia entrato prepotentemente nella storia degli ultimi anni semplicemente perché ha esercitato un potere e un’influenza per un periodo di tempo smisurato rispetto a qualsiasi altro leader mondiale. Nessuno è stato mai capace di essere presente sulla scena dei media mondiali per oltre 26 anni: è diventato così un punto di riferimento, una presenza costante, per alcuni anche ingombrante, comunque una certezza. Spesso in primo piano, Giovanni Paolo II ha raggiunto giocoforza quasi una familiarità con milioni di persone, come forse solamente gli uomini di spettacolo possono vantare; si sa poi che sulla massa il contagio mediatico è travolgente. Tuttavia è davvero notevole come prevalgano, a prescindere dalle proprie convinzioni, i sentimenti positivi verso il Papa: dall’entusiasmo e dalla devozione dei fedeli, al rispetto dei critici e dubbiosi, dall’attenzione dei credenti in altre religioni, all’ammirazione per una vita spesa nella dedizione totale ai propri ideali. Questo resterà per lungo tempo.
Le azioni simboliche da lui compiute rivestivano una importanza maggiore delle parole perché più adatte a concretizzare la propria grande visione spirituale, ma anche capaci di catturare l’attenzione della società dell’immagine, di toccare l’emotività della gente e quindi di essere fruite più agevolmente dai media. Innumerevoli, nel corso di questi quasi ventisette anni, gli episodi da ricordare: dall’incontro interreligioso di Assisi del 1986 per pregare per la pace, ai colloqui con tutti i leader mondiali, dalla visita nella sinagoga di Roma (uno dei suoi gesti veramente storici), al viaggio in Terra Santa, dalle oceaniche radunate con i giovani, alle celebrazioni del giubileo.
Ma anche l’attentato dell’81, i ricoveri al Policlinico Gemelli (primo papa a farsi curare fuori del Vaticano), i prodigiosi recuperi, l’incapacità di muoversi autonomamente, le difficoltà respiratorie e, in ultimo, la forzata afasia e la serenità con cui ha affrontato la morte sono diventati eventi fondamentali. Certamente tutti questi momenti furono vissuti cristianamente da Giovanni Paolo II come accettazione della volontà divina fino in fondo, anche attraverso prove dolorose. Il pontefice voleva con tutte le forze dimostrare la dignità dei malati e dei sofferenti in un mondo giudicato materialista ed edonista.
Nei numerosi commenti di questi giorni spiccava il paragone con la figura di Paolo VI: anche papa Montini aveva nella sua vita sofferto, il suo fisico era debole e malfermo, pure lui era stato vittima di un’aggressione. Eppure le sue difficoltà non furono mai esaltate, anzi rappresentavano visivamente una Chiesa giudicata in una crisi irreversibile, un pontificato tremante e indeciso. Giovanni Paolo II invece, anche nella sofferenza, è stato sempre esaltato come un vincitore, come un esempio sovrumano, come chi ha visto e sperimentato tutto, come un eroe, un santo. I funerali non saranno altro che il sigillo di questo trionfo, la beatificazione a furor di popolo, la gloria mondana di tutta la Chiesa cattolica.
E’ possibile domandarsi se la situazione sia ancora sotto controllo, se non sia il successo mediatico a dettare i tempi, e quanto in tutto questo vi sia di genuino spirito cristiano. L’attesa della morte del Pontefice è stata l’apice di quello che Michele Serra ha giustamente chiamato "accanimento mediatico". Scrive ancora il giornalista di Repubblica: "Ci si chiede se questa necessità (di informare sulle condizioni del Papa, n.d.r.) dovesse obbligatoriamente portare alla ripetizione agghiacciata e spesso agghiacciante delle stesse parole e delle stesse immagini su tutte le reti, per ore, per giorni, fino a dare la sgradevole impressione che la fine dell’agonia potesse essere un sollievo non solo per la sofferenza del Papa, ma anche per quella dei responsabili dei palinsesti che non sapevano più come ingannare l’attesa".
Paradossalmente la morte del Papa ha riportato la situazione nel solco della tradizione e degli antichi riti ecclesiali che da secoli prevedono la pubblica esposizione della salma, il corteo funebre e l’omaggio dei fedeli in basilica. Avvenimenti toccanti ma comprensibili rispetto ai terribili due mesi di morboso reality show sulla sofferenza di Giovanni Paolo II.
E qui giungiamo alla seconda parte del problema: il rapporto che i mass-media hanno avuto con questa figura.
Il lunghissimo pontificato ha coinciso con l’iperbolico sviluppo della tecnologia della comunicazione a livello globale, con la rincorsa alle notizie in tempo reale, con la nascita dei network internazionali collegati 24 ore su 24. Si vive oramai di notizie, ci si ciba di immagini, si cerca l’evento e se non esiste, non si esita a crearlo: mai come ora i mass-media fanno vivere e morire. E così se non sei sotto i riflettori, ormai non esisti più. Per questo, in questi mesi in cui la malattia del Pontefice si aggravava sempre di più, la sua presenza era garantita da fiction, rievocazioni, pettegolezzi, filmati inediti, blob papali, opinioni contrastanti, polemiche (che comunque servivano a tenere alta l’attenzione), in un turbinìo di sollecitazioni che finivano per stordire.
Lasciamo per un attimo perdere gli avvenimenti degli ultimi 10 giorni, e torniamo indietro con la memoria. Un assaggio del livello a cui la Rai (presa qui solo come un esempio) era giunta negli ultimi mesi, si incontra nelle peripezie verbali e nelle iperboli semantiche di un noto giornalista da diciotto anni vaticanista principe del Tg1: Giuseppe De Carli.
De Carli è avvezzo alle definizioni pompose e ad effetto. Per lui i giornalisti sono "gli storici dell’istante" che però, di fronte alla grandezza mediatica di questo pontefice, devono inchinarsi in religiosa ammirazione. Così il giornalista racconta l’apertura del Giubileo: "Inizialmente il Papa sembrava rabbuiato. Ad un certo punto, mentre si protendevano verso di lui le mani dei fedeli, comincia a sorridere e la sua camminata diventa spedita e leggera. In quel momento era un Papa che, diventato popolo, aveva portato effettivamente la Chiesa nel terzo millennio. Si può parlare quasi di un’ecologia dello sguardo… Durante le cinquasette dirette del giubileo, mentre eravamo in mondovisione, abbiamo in un certo senso dato la prova che le apparizioni del Papa non fanno calare gli ascolti ma che, in realtà, li creano".
Ma è in questo ultimo periodo che i toni di De Carli diventano mistico-epici: "Il Papa vive con un aratro nelle sue carni, è un viandante su un marciapiede sempre più stretto. Prima era chiamato il Maradona della Chiesa, ora è il servo sofferente, il disabile che continua sulla sua carrozzella, l’uomo della fragilità fisica… la gente lo avvicina cercando di toccargli il lembo del mantello con una mano".
E nell’ultima per certi versi inaudita e quasi blasfema telecronaca della Via crucis dal Colosseo, De Carli trasformava il Pontefice, inquadrato di spalle, in un nuovo Gesù Cristo, presente in ispirito grazie alla televisione: al termine della liturgia, "una pietra è stata rotolata su Giovanni Paolo II… ma il terzo giorno anche per lui ci sarà una Pasqua di Resurrezione." Morire e risorgere virtualmente come solo la televisione è in grado di fare.
De Carli non è un esempio isolato, anzi è il capofila di una schiera di giornalisti plaudenti e ossequiosi, se non deliranti, che hanno imperversato per settimane su radio e televisioni pubbliche e private. Un coro monomaniaco dove preghiera, dolore, spettacolo, retorica, falsa devozione, esaltazione acritica o solamente voglia di apparire in TV (come le persone in posa dietro ai giornalisti collegati in diretta) si sono fusi in un cocktail certamente poco cristiano.
Il fenomeno, che in Italia assume livelli parossistici, sembra aver fatto breccia anche sui network internazionali, che tuttavia sobriamente cercano di dare un bilancio sensato senza caricare eccessivamente i toni. Inoltre molte televisioni, come per esempio la CNN, trasmettevano ininterrottamente le immagini e i suoni senza gli insopportabili commenti dei giornalisti italiani.
Desta comunque impressione il fatto che alla notizia della morte del Papa, il mondo sembrava si fosse fermato come neanche accadde per la caduta delle Torri Gemelle. Da Bush a Pechino, dal Dalai Lama al partito di Dio Hezbollah, da Israele ai talebani (pure loro si sono fatti sentire!) il coro è stato unanime: non si esclude a questo punto un video di Bin Laden. Qualcuno addirittura ha fatto notare come il pontefice ci abbia lasciato un sabato, "in prima serata", ora italiana, nel momento di maggior audience…
Un’attenzione destinata comunque a scemare, anche perché il circo mediatico ha bisogno di sempre nuove vittime, di alzare continuamente i toni, di provocare gli utenti, che si abituano in fretta ad ogni tipo di immagine. Persino i video delle decapitazioni in diretta passano in secondo piano, perché ormai l’abitudine ci ha fatto digerire anche questo. E sta qui, il problema: pensare che l’attenzione mediatica sia la prova incontrovertibile che il Papa, e il messaggio da lui veicolato, abbia rappresentato una guida per le concrete scelte quotidiane dei telespettatori è un’illusione. L’esempio di Giovanni Paolo II potrebbe quindi diventare ben presto solo una testimonianza effimera che provoca entusiasmi superficiali, deliri istantanei come di fronte a una star. E’ dovuto intervenire Enzo Biagi per dire che Karol Wojtyla è stato il papa più esaltato ma meno ascoltato dai potenti: dall’opposizione alla guerra al problema delle radici cristiane dell’Europa; dalla bioetica, alle denunce contro il capitalismo. E a livello ecclesiale non si può giudicare la salute della Chiesa dall’esposizione mediatica della sua guida: visibilità che ha offuscato i temi veri, non a caso usciti allo scoperto nell’imminenza del conclave.
Quale nuovo papa reggerà l’eredità di Giovanni Paolo il Grande? Sicuramente nessuno, ma questo, forse, non è un problema. La questione di fondo è, piuttosto, in che modo la Chiesa reggerà il dopo-Wojtyla, soprattutto dal punto di vista dell’immagine: già alcuni cardinali hanno insistito sulla prima caratteristica che dovrebbe avere il nuovo Pontefice: essere simpatico.