Il papa: la sofferenza paravento dei giochi del potere
La drammatica vicenda di un sovrano che si avvicina alla fine e di un apparato che pensa al futuro.
Nel giugno del 1963, sul treno che portava i pellegrini da Lourdes, io, che ero in possesso di una radiolina a pile, riuscivo a tenere informata la cabina di regìa del pellegrinaggio sulle notizie che provenivano da Roma e raccontavano la fase terminale della vita di papa Giovanni XXIII che in quei giorni stava morendo. L’allora vicario generale della diocesi monsignor Guido Bortolameotti a un certo punto commentava queste notizie con un’osservazione che ricordo e che mi sembrò rivelatrice di una grande consapevolezza di quanto delicata e manipolabile possa essere questa fase della vita: "Senti come lo fanno morir bene!".
Era un’osservazione evidentemente memore di quanto invece, cinque anni prima, l’entourage di Pio XII, con archiatri pontifici e intimi che vendevano notizie e foto a giornalisti morbosi in cerca di scoop, era riuscito a fare morire male papa Pacelli. Ma anche la fase terminale di Paolo VI, intrigata nella confusa gestione del delitto Moro, in cui non si può dire che papa Montini abbia brillato per lucidità e autorevolezza, dice come difficilmente un uomo vecchio, malato e stanco in prossimità della morte sia in grado di controllare la situazione e imporre a chi lo circonda il proprio volere e una propria valutazione delle cose che lo riguardano, se ancora si trovi in condizioni di valutare con lucidità la situazione in cui si trova e gli eventi che lo coinvolgono. Così come la morte improvvisa e un po’ misteriosa di Giovanni Paolo I ha lasciato molti punti di domanda, quantomeno sullo stress a cui la gestione di un potere decisionale così impegnativo e pressante possa sottoporre una persona fragile almeno per età e salute.
E oggi siamo in presenza di un papa che festeggia nella venerazione generale i venticinque anni di pontificato, uno dei più lunghi della storia della Chiesa cattolica, e che l’età e il morbo di Parkinson hanno reso afasico, bloccato su una sedia a rotelle, con un’autonomia di attenzione decisamente ridotta, a cui solo un massiccio sostegno farmacologico permette di reggere con attenzione vigile le ore nelle quali è esposto alla visibilità dagli impegni a cui tenacemente vuole far fronte.
In un panorama di questo genere è lecito pensare che non sia facile tenere sotto controllo la situazione e che di conseguenza i margini di azione affidati all’apparato che circonda e supporta il papa tendano progressivamente ad ampliarsi. E’ vero che l’apparato è frutto delle scelte in buona parte pregresse del papa stesso che se l’è costruito e della fiducia negli uomini di cui si è circondato. Ma è anche vero che questo stesso apparato è consapevole di avere nelle mani una fetta di potere fintanto che gode della copertura di chi glielo ha affidato e che non c’è nessuna garanzia che un passaggio di mano con un nuovo papa lo confermi nei gangli decisionali che ora occupa. Un apparato di conseguenza che farà di tutto per tenere in vita quella che è la fonte del proprio potere.
E’ un meccanismo noto e registrato in tutte quelle situazioni di assolutismo portate fino al termine anche artificialmente prolungato della vita, i cui esempi nel secolo scorso è facile ricordare da Stalin a Franco, da Mao a Salazar. Nel caso del "sovrano pontefice" poi questo potere assoluto si riveste non solo di una legittimità di origine umana, ma anche di una legittimazione sacrale che si appella direttamente a Dio per l’investitura di questa "sovranità".
C’è una certa differenza però tra quanto si racconta di papa Giovanni XXIII che a chi gli prospettava la possibilità di un intervento medico chirurgico con buone prospettive di esito positivo avrebbe risposto rifiutandolo, perché un papa o è nel pieno delle proprie forze o è meglio che muoia nel Signore, e un affidamento così palese e massiccio alla medicina, "finché il Signore mi darà vita", come quotidianamente questo papa si premura di ripetere pur nella consapevolezza che la fine è vicina. Consapevolezza che lo ha portato ad anticipare di qualche mese la convocazione del concistoro per la nomina dei cardinali che dovranno scegliere il suo successore.
Anche papa Giovanni dunque non pensava alle dimissioni, ma eravamo a concilio Vaticano II appena iniziato e non c’era ancora per nessun grado della gerarchia ecclesiastica quell’istituto delle dimissioni che negli anni successivi coinvolgerà tutti gli altri ruoli esercitati nella Chiesa cattolica: dal parroco al vescovo con l’intento di sottrarre la Chiesa alla gerontocrazia, ma che si ferma ai piedi del soglio pontificio accentrando così nel papa un’ulteriore fetta di potere di nomine anticipate.
Ma ecco qui un passaggio delicato in cui l’apparato ricopre un ruolo di potere determinante. Se è vero infatti che i criteri di selezione dei vescovi saranno espressi dal papa e che la decisione finale di nomina sarà firmata da lui, l’applicazione dei criteri e l’itinerario selettivo sono affidati a una congregazione delle tante che compongono la corte del sovrano pontefice con ampi e innegabili margini di manovra che i conoscitori che sanno muoversi nei suoi meandri sanno sussurrare, suggerire e affrontare con le dovute dritte che permettono di arrivare allo scopo. E così assistiamo e assisteremo nei prossimi mesi all’individuazione di correnti e di partiti che l’apparato ha contribuito a materializzare, su cui si giocherà la successione papale e sugli schieramenti che la nomina nel concistoro dei nuovi cardinali e la progressiva uscita di scena degli ultraottantenni (una scadenza che incombe su molti componenti del collegio cardinalizio) contribuirà a modificare e a condizionare. Non possiamo dimenticare che tra i cardinali che contano non erano pochi coloro che hanno cercato di opporsi tenacemente a uno degli atti più significativi di questo pontificato: quello di chiedere perdono nell’anno giubilare degli errori commessi nei secoli passati dagli uomini di Chiesa. E questa corrente vogliosa di ripristinare un’autoreferenzialità senza margini di errore e di riportare l’orologio della storia del cattolicesimo ai tempi dell’unica verità che salva in mano a un potere sacrale in grado di condizionarne la gestione per il tempo e per l’eternità, si manifesta, ora in termini aggressivi, ora in termini allusivi, in una prospettiva di chi lo scontro di civiltà lo vuole e lo vuole affrontare, contro una corrente che lo scontro di civiltà lo vuole evitare sottraendo le religioni alle derive dei fondamentalismi e camminando verso un ecumenismo meno di facciata e una collaborazione interreligiosa rispettosa delle identità reciproche.
In mezzo, forse come al solito, il ventre molle di chi si barcamena tra mediazioni e compromessi, tra le richieste di un radicalismo evangelico e quelle di una gestione del potere che col Vangelo troppo spesso confligge. Ma non si può neanche escludere che in futuro il limite della gerontocrazia valichi la soglia del soglio pontificio e che i margini di una certa democrazia stemperino l’assolutezza di un potere che avrà anche in futuro ampie possibilità di chiedere perdono di molti altri errori commessi.
E’ anche una questione di capacità di lettura dei segni dei tempi. Chi crede ed è abituato a percorrere la lunga storia della Chiesa sa che la fede è un dono di Dio che passa anche attraverso le contraddizioni della storia, le non infrequenti infedeltà degli uomini, le difficilissime gestioni del potere e dei suoi meccanismi omologanti.