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QT n. 7, 9 aprile 2005 Servizi

I lunghi anni di Giovanni Paolo II

Bilancio di un pontificato troppo esaltato eppur importante.

Piergiorgio Rauzi

Non è facile scrivere qualcosa sul papa appena defunto sotto l’incalzare di uno tsunami mediatico dove la retorica, la glorificazione, la beatificazione seduta stante, le dichiarazioni di grandezza, l’ipocrisia dei potenti, le prostrazioni degli atei devoti, si mescolano alla sincerità di una devozione popolare per un papa morto, fino a travolgerla in papolatria e a strumentalizzarla per ragioni che poco hanno a che fare con la fede.

Chi scrive ha memoria sufficiente per ricordare che cose analoghe si sono scritte e dette alla morte degli altri papi che dalla seconda metà del secolo scorso si sono succeduti in questo ruolo. Lasciando alla storia una valutazione pacata dall’emotività che l’evento morte porta sempre con sé, ritengo si possano fin da subito raccogliere dei pensieri sparsi quali spunti di riflessione che richiederanno ponderati approfondimenti e valutazioni meno soggettive per il prossimo futuro e forse anche per un futuro più remoto.

Papa Giovanni Paolo II, forse per le modalità stesse in cui lui lo ha esercitato in questo lungo pontificato, s’è accorto che il cosiddetto ministero petrino, o primato di Pietro e dei suoi successori quali vescovi di Roma, era e resta un ostacolo per non dire l’ostacolo più pesante sulla strada dell’unità della Chiesa e dei cristiani, quell’unità tanto raccomandata da Gesù Cristo ai suoi apostoli prima di separarsi da loro. Una consapevolezza che nell’enciclica "Ut unum sint" ha spinto questo ennesimo vescovo di Roma a chiedere ai vescovi della Chiesa ortodossa di procedere assieme a una valutazione circa le modalità di esercizio di questo primato di Pietro.

Quali furono le risposte di questi vescovi delle Chiese d’oriente che a buon diritto si ritengono successori degli apostoli? Men che tiepide, se pensiamo che il suo sogno di una visita papale a Mosca, pur in presenza di una benevola condiscendenza del potere politico, ha ostinatamente cozzato contro il no e l’ostilità ribaditi del patriarcato di Mosca. Eppure si direbbe che le Chiese ortodosse dell’ex impero sovietico avrebbero dovuto essere riconoscenti a questo papa a cui la retorica di questi giorni vorrebbe attribuire un ruolo determinante per la caduta di un regime ateo e materialista che certo non amava la religione e le Chiese di nessun tipo.

Perché non hanno voluto accogliere riconoscenti questo liberatore?

Evidentemente i patriarchi delle Chiese ortodosse ritengono che il papa vescovo di Roma, e questo papa polacco poi in particolare, non si presenti come "primus inter pares" e men che meno come "unus inter pares", è l’"inter pares" che essi non vedono in un vescovo di Roma che non fa il vescovo della sua città con l’intento di farlo in modo esemplare, ma che, delegando la sua diocesi ad un avventizio, vorrebbe governare tutta la Chiesa e non solo quella cattolica con un apparato giuridico/istituzionale e una curia accentratrice autoreferenziale che non lascia margini di libertà e di autogoverno a nessuno e che crea e controlla a propria immagine e somiglianza tutti gli altri successori degli apostoli ridotti al rango di funzionari di periferia.

L’indubbio merito di Giovanni Paolo II è di aver posto il problema. Per risolverlo ci vorranno altri papi, altro tempo, altra globalizzazione.

Altro grande merito di Giovanni Paolo II ritengo sia quello di aver dato dignità alle altre religioni presenti nel mondo e questo non solo per evitare quel catastrofico scontro di civiltà che altri poteri fomentano, ma per dare atto che le strade che conducono a Dio elaborate dagli uomini sono molteplici e che le vie del Signore per rivelarsi agli uomini sono infinite. Gli incontri di preghiera di Assisi con i rappresentanti delle religioni mondiali sono stati certamente tra i punti più alti di questo lungo pontificato, accanto alla successiva richiesta di perdono per i peccati degli uomini di Chiesa commessi nel corso della storia anche nei confronti delle altre religioni.

Ma se è anche troppo facile l’osservazione di molti che chiedere perdono per i peccati degli altri e del passato può essere un comodo alibi per non vedere o per nascondere i peccati propri del presente, non si può certo negare né passare sotto silenzio che il comportamento di questo papa e della sua curia con i teologi che su questo rapporto con le altre religioni hanno lavorato in apertura e in reciprocità sia stato un rapporto inquisitorio secondo modalità persecutorie e spesso di condanna all’emarginazione e al silenzio. Sarà anche questo: l’aver tarpato le ali alla libertà di ricerca dei teologi, uno dei peccati di cui qualche papa del futuro chiederà perdono.

L’importante però è che questo papa abbia aperto una breccia nella via della salvazione alla preghiera in comune con tutte le religioni. Sarà attraverso questa breccia, ora presidiata dagli impauriti custodi del monopolio della salvezza, che potranno passare i non ingabbiabili doni dello spirito.

Sul fronte della pace, specie gli ultimi anni di Giovanni Paolo II hanno segnato un aspetto profetico raro in ruoli istituzionali e – come tutti i profeti – destinato all’incomprensione e alla sconfitta. E’ vero che Marcello Pera, (uno dei più alti esponenti di quell’ateismo devoto che nella religione civile, con la copertura dei Baget Bozzo e dei Giussani con relativi discepoli ed eredi, cerca rifugio per un avallo di credibilità il cui venir meno mette a repentaglio le loro posizioni di potere) s’è precipitato a prelevare il papa dal novero dei "pacifisti" per trasferirlo in quello dei "facitori di pace" in cui per il signor Pera è evidentemente più facile collocare, per fargli compagnia, almeno Berlusconi con la sua missione di pace in Iraq, ma anche il cardinal Ruini con le sue omelie funebri patriottarde, qualche riformista bipartisan e tutti coloro che esaltano la guerra se non proprio come igiene dell’umanità (secondo gli schemi dei vecchi futuristi della prima guerra mondiale) almeno come esportatrice di democrazia.

Ma a parte queste appropriazioni indebite, resta il fatto che Giovanni Paolo II ha cercato di porsi come baluardo contro la guerra che con la forza delle armi e senza la forza della ragione potrà vincere sul terreno militare, ma su quello della pace sta scavando solchi che rendono lo scontro di civiltà sempre più incombente, e legittimano tragicamente e addirittura religiosamente il terrorismo quale unica forma possibile di resistenza secondo l’archetipo biblico di Sansone.

Ma il papa, anche da morto, ha il merito di smascherare l’ipocrisia di quei grandi della terra che non lo hanno ascoltato, che hanno voluto la guerra e che adesso accorrono al suo funerale nell’illusione di omologarlo a sé anche su questo terreno.

Il rapporto di Giovani Paolo II con la modernità è stato un rapporto contraddittorio. Ne ha assunto in pieno alcuni caratteri, primo fra tutti l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, senza forse valutare a sufficienza l’effetto logorante che una sovraesposizione mediatica può comportare. Affidare infatti a questi mezzi il carisma vuol dire correre il rischio di fare del carisma un bene di consumo usa e getta di durata limitata, come un fermo immagine che diventa diaframma anziché rimando alla realtà che lo trascende.

Per il resto, con la modernità questo papa è entrato in conflitto e forse ne ha avuto paura.

Il suo "non abbiate paura" ha funzionato efficacemente per un comunismo ormai logoro diventato una tigre di carta, mentre per altri portati della modernità con i quali il concilio Vaticano II aveva cominciato a confrontarsi, ivi compreso l’effetto secolarizzante che la modernità inevitabilmente porta con sé, il timore e la diffidenza hanno prevalso sul confronto coraggioso e sulla fiducia. Non certo per mutuarne acriticamente tutto, ma almeno per non rischiare di combattere contro i mulini a vento.

La democrazia, che il concilio aveva provato a declinare all’interno della chiesa secondo le modalità della "collegialità", è stata ridotta a larva priva di contenuti e mai seriamente praticata; così come al popolo di Dio (altro accenno conciliare almeno nominalistico alla democrazia) e alla sua componente femminile non si è mai voluto dare ascolto, anche lì dove in materia di etica sessuale avrebbe avuto qualcosa da dire autorevolmente, a partire dal proprio vissuto e dalla propria corporeità.

E così lo si è costretto, questo popolo di Dio, ad una prassi ragionevolmente peccaminosa da cui si è progressivamente autoassolto, con una conseguente caduta di autorevolezza del magistero, un’esasperazione della soggettività individuale ed un passaggio in tempi rapidi (spesso anche nei confessionali, per chi ancora li frequenta) da una morale sessuale nella quale "non datur parvitas materiae", ("non si dava materia leggera"/veniale), ad una morale vissuta in cui "non datur gravitas materiae" ("non c’è materia grave"/rilevante), in grado cioè di indurre qualche magari ancor opportuno senso di colpa.

Per affrontare poi la problematica di una vita di fede in un mondo secolarizzato, anziché prendere coraggiosamente sul serio le crisi d’identità indotte e la conseguente anomia che la secolarizzazione porta con sé, si è preferito fare appello sia ai meccanismi di alienazione popolare sempre facilmente manovrabili, sia agli integralismi di varia intensità dei movimenti, che con la moderna mobilità sociale contribuiscono a svuotare quanto ancora resta dell’organizzazione territoriale della Chiesa con le rispettive strutture gerarchico/istituzionali.

Il venir meno di un carisma molto personalizzato, esibito e centralizzato sulla figura del papa, animatore episodico di folle, costringerà forse nell’evolvere futuro della Chiesa a porsi il problema di modalità diverse, molteplici e articolate per offrire alla fede e alla pratica religiosa individuale e comunitaria la possibilità di esprimersi anche al di fuori dei recinti del sacro e al di fuori delle reti protettive dei movimenti autoreferenziali ed escludenti.

Come si vede da questi rapidi accenni, le riflessioni suscitate dalla morte di questo papa e dal successivo passaggio del testimone nelle mani del successore sono molte e si presentano ricche di suggestioni.

Si conclude un pontificato che nella sua lunga durata si è caratterizzato secondo modalità interpretative del ruolo forti e significative, ma che possono anche aver esasperato le contraddizioni e in buona parte portato a esaurimento la sua spinta propulsiva. Lascia sicuramente eredità preziose accanto ad ampi spazi di incompiuto e di possibilità alternative. Sì, perché il detto noto che suona: "morto un papa se ne fa un altro", se include in sé una certa dose di cinismo clericale che trascura la persona per privilegiare il ruolo (e gli ultimi giorni di sofferenza e di agonia ci hanno provvidenzialmente restituito e fatto amare la persona di Karol Wojtyla liberata dai condizionamenti pesanti del ruolo) indica anche che "altro" significa pure "diverso".

Chi sogna o addirittura auspica un clone, per dare continuità a questo papato, conosce poco della storia della Chiesa e ignora quanto sia prezioso l’avvicendamento di personalità diverse alla sua guida. Oggi più che mai forse nel passato l’avvicendamento può essere provvidenziale, in un mondo globalizzato, multiculturale e multireligioso, carico di squilibri che generano sofferenze, con problemi inediti che richiedono risposte inedite, alla ricerca delle quali non solo la gerarchia e i suoi vertici, ma tutta la Chiesa in tutte le sue componenti dovrebbe essere ascoltata e chiamata a collaborare con senso di generosa e libera responsabilità.