Il popolo scomparso
“Il Popolo scomparso. Il Trentino, i Trentini nella prima guerra mondiale." A cura del Laboratorio di storia di Rovereto Comune di Rovereto, Museo storico in Trento, Museo storico italiano della guerra di Rovereto. Rovereto, Nicolodi, 2003, pp. 648, € 70.
Il 31 luglio 1914 l’imperatore d’Austria impartì l’ordine di mobilitazione generale a tutti gli uomini dai 21 ai 42 anni Anzi, così recitava il manifesto affisso in tutti i luoghi pubblici dell’impero: "Sua maestà I. e R. Apostolica si è degnata di ordinare la mobilizzazione generale nonché la chiamata dell’intera i.r. e r.u. leva di massa". Anche i trentini dovettero presentarsi, "entro 24 ore", alla visita di leva nel capoluogo del proprio distretto, per punire la Serbia che non si era piegata all’ultimatum dell’impero austro - ungarico.
Fra essi, a Mezzolombardo, anche F. B. Molti soldati trentini, contadini, artigiani, operai, qualche studente e maestro, racconteranno la loro storia di soldati e di prigionieri in lettere e diari straordinariamente intensi. Non lo fece, che io sappia, F. B, contadino, che aveva già sperimentato, emigrante, il lavoro nelle miniere d’America.
Egli, disciplinato, si presentò al distretto, da dove fu inviato in Galizia a fronteggiare l’esercito russo. Lasciò a casa una giovanissima moglie, Silvia, con tre bambini, Enrico di otto anni, Francesco di quattro, Aldina di uno. Dopo alcuni mesi un compaesano di F. B., ferito in battaglia, tornò a casa, in convalescenza, a ritemprarsi. Prima di ripartire per il fronte, dove lo zar Nicola II continuava a stipare le trincee dei suoi contadini destinati ad ammazzare e a farsi ammazzare da quelli di Francesco Giuseppe, si fece coraggio, e parlò. Raccontò a Silvia che il marito, suo amico, lo aveva visto cadere sul campo, dove era rimasto morente. Silvia non resse all’urto e, qualche mese dopo, nel 1915, morì di crepacuore. I suoi tre bambini, improvvisamente orfani di padre e di madre, furono divisi fra parenti generosi che si impegnarono ad allevarli, come poterono. In ossequio a "sua maestà" che si era "degnata" di ordinare la "leva di massa".
In realtà F. B. non era morto. Lo si seppe quando, finita la guerra, tornò al paese, annesso all’Italia, inaspettato da tutti. Trovò la casa vuota, la moglie morta da cinque anni, i figli sparpagliati qua e là, che non lo riconoscevano più. Se li riprese, e ricominciò un’altra vita. Con "l’allegria" di un "naufrago", come scrisse Giuseppe Ungaretti che saldò, nell’ossimoro della raccolta poetica, "Allegria di naufragi", la tragedia e lo slancio vitale di chi tentò di rincamminarsi. Fino a vedere, vent’anni dopo, un’altra più terribile guerra.
Francesco, il secondo bambino, che sarebbe divenuto mio padre, imparò con fatica, scrutandolo, a riconoscere il suo, di padre, in quel soldato tornato, dopo che era "scomparso". Ma la madre, "scomparsa", l’aveva ormai dimenticata per sempre: solo qualche lampo gliene era rimasto nella memoria, mi confidò, sottovoce, una volta, rompendo un silenzio di anni, stropicciando (o accarezzando?) una fotografia, di una nonna che il suo bambino non aveva potuto conoscere. Perché "sua maestà" si era "degnata"…
Ogni trentino sulla prima guerra mondiale ha storie
da raccontare. Raccolte fanno la storia di un popolo scomparso. Sono sofferenze subite, e date, dai soldati in trincea, in prigionia, persino in convalescenza, durante il ritorno, per un ritorno mancato, o a cui si è rinunciato. Dovute a scelte pensate, quelle dei trentini fuoriusciti in Italia, in nome dell’irredentismo, o a favore o contro la rivoluzione d’ottobre. Sofferenze degli sfollati nei campi della deportazione, "le città di legno". Sofferenze dei piccoli, che si sedimentano nell’inconscio profondo dell’anima, e poi sono trasmesse ad altri figli, in una catena senza fine.
Questo è un libro di fotografie e di scritture popolari. La "nuova storia" rompe, nel riferirsi alle fonti, la distinzione fra monumento e documento. Tutto è fonte per uno storico, ogni fonte di per sé è muta, parla solo se lo storico la sa interrogare. Ogni generazione ha il diritto di dare la prima versione degli eventi di cui è stata protagonista: lo scrisse Marc Bloch.
Nella lettera al marito al fronte, il 9 aprile 1915, Giuseppina Filippi Manfredi, di Borgo Sacco, rivela doti "metacognitive" impressionanti: "Quando sono arrivata a casa oggi ho trovato le tue fottografie: quanto mi son care! ma dimi piangevi quando ti sei fatto fottografare? Cosa pensavi? Ah lo so ben io, tel vedo in fronte! i tuoi picini, la tua sposa, i tuoi, tutti tegli vedevi dinanzi; e forse pensavi, non gli vedrò più. Povero mio Gregorio, coraggio!"
Se le fotografie sono disposte in ordine cronologico si limitano ad "illustrare" un discorso storiografico già impostato su fonti scritte. Quando invece, come qui, sono accorpate attorno a grandi nuclei tematici, (La mobilitazione, Sui campi di Galizia, Il fronte trentino, L’evacuazione, Le città di legno, Profughi, Prigionieri, La guerra in montagna, Bambini, Il ritorno, Devozioni…) riescono a "decontestualizzare l’evento", lo rendono unico. Il fermarsi su un particolare, uno sguardo, un capo d’abbigliamento, uno sfondo, accende emozioni che difficilmente emergono dai testi scritti.
La fotografia fu essa stessa un’arma: dai Comandi Supremi fu utilizzata per fini conoscitivi, tattici, propagandistici. Le immagini scomode non vennero allora mostrate, mentre oggi, dissepolte, ci mostrano gli aspetti più segreti della guerra di trincea.
All’inizio fra gli intellettuali predominava l’"incanto" della guerra: "sola igiene del mondo", "caldo bagno di sangue nero", "le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici delle loro luminose ferite", "ebbrezza di un’avventura, e…ne avevamo abbastanza della pace". Solo dopo, o nelle scritture private, emergono le atrocità, il pessimismo, il "disincanto".
Le lettere e i diari dei soldati trentini testimoniano fin dall’inizio come le luci e gli scoppi terribili modificarono gli organi di senso, la percezione del tempo, il confine tra umano e disumano: "pareva la finizione del mondo cannonate fucilate arme a macchina sparavano a fuoco accellerato le palle fischiavano da tutte le parti i morti e i feriti erano uno vicino all’altro chi senza gamba chi senza braccio chi spaccata la testa chi nel ventre che perdevano per fino le budelle" (Angelo Paoli, Galizia, settembre 1914).
Quando arriva il giorno dell’evacuazione ai profughi sembra di partire "verso l’esilio", su "un treno della morte". "Basti dire che persino i nostri animali nel suo muto linguaggio piangevano" (Francesca Mosconi, Vermiglio, agosto 1915).
Nell’incontrare la Russia e la Cina, Francesco Matteotti osserva: "Poveri paesi!…perciò non e da meravigliarsi delle genti ma di chi gli governa: invece di far guerra farebbe meglio fare scuolle, e istruire il popolo."
La storia locale è un territorio ravvicinato e perciò più coinvolgente, sul piano didattico particolarmente efficace, su cui verificare la portata di fattori già acquisiti a livello più vasto, nazionale e mondiale. Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, nei testi e nelle fotografie di questo volume si può quindi saggiare la presenza, o l’assenza, del nazionalismo, della corsa agli armamenti, dei campi di concentramento per civili, della critica al parlamentarismo e alla democrazia, del bolscevismo, del razzismo, dell’antisemitismo. Io trovo particolarmente interessante verificare le interpretazioni della guerra proposte da Scipione Guarracino ("Il Novecento e le sue storie", Bruno Mondadori 1997): compimento, rottura, compendio. La guerra come compimento delle vocazioni del XIX secolo: liberazione delle nazionalità dagli imperi tiranni, affermarsi delle democrazie liberali contro le aristocrazie militariste, realizzazione della rivoluzione proletaria mondiale. La guerra come rottura: crollo degli imperi, fine della stabilità. La guerra come compendio anticipato del XX secolo: anonimato delle masse e della tecnologia militare, atrocità sui civili, valore dell’ideologia e della propaganda, mobilitazione degli intellettuali.
Ma la storia locale può porre, dal Trentino e dal Sudtirolo, domande specifiche, anche nuove, inattese, alla storiografia generale. Alcuni testi, alcune fotografie de "Il popolo scomparso" rappresentano un surplus di conoscenza, impongono una revisione di alcuni concetti. Che ne è del contadino sudtirolese sconfitto, costretto a festeggiare durante il fascismo la vittoria italiana, schierato davanti a un monumento eretto proprio per imporre anche a lui il mito della vittoria e della redenzione? E nel contadino trentino, partito per la guerra in qualità di soldato dell’Impero Austro - Ungarico, tornato a una casa divenuta terra d’Italia, come s’intrecciano le sensazioni della sconfitta e della vittoria?
Della bella introduzione di Diego Leoni mi ha colpito un passaggio: in Trentino, dopo l’annessione, "il compito di creare un’opinione pubblica fortemente legata all’idea e alla storia della nazione italiana" se lo assume"lo stato sabaudo".