La storia che emoziona. E su cui non si ragiona.
La mostra sulle Grande Guerra alle Gallerie di Piedicastello.
La storia vista attraverso le esperienze, il vissuto e soprattutto le emozioni del popolo. Questo l’assunto della mostra, ormai al termine, sul popolo trentino nella Grande Guerra, allestita a Trento nello spazio, insolito e ardito, delle gallerie della dismessa circonvallazione di Piedicastello.
Un progetto innovativo, come si può capire, non solo per l’utilizzo di uno spazio inconsueto; ma per l’idea di fondo di utilizzare, anche in una seriosa mostra storica, la forza delle suggestioni, dei sentimenti, per illustrare con efficacia il rapporto tra grandi eventi e singoli destini individuali. Una metodologia su cui molto si punta, e che verrà senz’altro riproposta, a giudicare dai propositi delle istituzioni coinvolte, a iniziare dal Museo Storico di Trento, per bocca del suo direttore Giuseppe Ferrandi.
Questa delle Gallerie di Piedicastello, insomma, è stato un primo esperimento,e proprio per questo è importante giudicarlo. Allora, come è andato?
Diciamo subito che la prima parte è entusiasmante. Delle due canne del percorso della vecchia tangenziale, la prima, in direzione sud-nord, ribattezzata Galleria Nera dal colore con cui è stata ridipinta, è dedicata al momento emozionale. Nel nero e nel buio, interrotto da faretti a illuminare una fotografia o un filmato, si levano le voci del popolo di allora: testimonianze di soldati, di sopravvissuti, ma più spesso di civili, di donne, di profughi, la cui vita fu sconvolta dalla guerra. Sentire nel buio quei ricordi appassionati e dolenti, di tanta gente sradicata e oppressa, suscita una partecipazione emotiva fortissima. Il lessico, l’inflessione, il timbro delle voci sono quelle popolari, la sapienza delle registrazioni ti fa credere che a parlarti siano proprio loro, i sofferti protagonisti di quelle vicende, le cui immagini vedi emergere dal buio sulle pareti.
Ci sono visitatori, soprattutto anziani, che si commuovono. Tutti sono rapiti. Vogliono sapere di più.
E qui, ahimé casca l’asino. Perché quando si passa dalla Galleria Nera alla Bianca, che dovrebbe inserire le emozioni testé suscitate in un discorso razionale, a spiegare i fatti, i perché, qui la mostra si perde.
Diciamolo pure, parlarne diventa semplicemente imbarazzante: mai ci saremmo sognati di vedere una tale insieme di povere idee ammassate alla rinfusa, proposte a un pubblico (a quel punto) assetato di spiegazioni.
Si inizia con le casette (la Galleria Bianca è suddivisa in tante piccole costruzioni di legno, che ospitano ognuna un tema) dedicate ai Musei e alla loro storia. Pessima idea: non si parla della Grande Guerra, ma delle istituzioni che se ne occupano, come quando al (altrimenti ottimo) Festival del cinema archeologico non ti parlano dei popoli scomparsi, ma dei problemi degli archeologi. Si passa poi, con un triplo salto mortale, alla casetta dedicata ai monumenti ai caduti. Ma come? La gente vorrebbe sapere cosa è davvero successo in quegli anni, e tu gli illustri come quegli anni venivano ricordati (sarebbe meglio dire mistificati, ma l’anticonformismo non è il forte della mostra)?. Quindi, altro salto: la reinterpretazione della Guerra operata dal ‘68. Ripetiamo: la gente, se a quel punto non si è scoraggiata, chiede ancora un’illustrazione dei fatti; e invece già si passa alla contestazione di un’illustrazione che non c’è stata. In ogni caso, niente paura: probabilmente per mantenersi nella palude del conformismo, la pavida mostra accenna all’esistenza di una contro-interpretazione sessantottina, ma ben si guarda dall’illustrarla; la casetta del ‘68 contiene almeno cinquanta ciclostilati, manifesti e documenti vari, (sulle lotte studentesche, sull’antimperialismo, sull’unità operai-studenti...) ma non uno, dicesi uno, sull’interpretazione storica della Grande guerra. E sì che il Museo Storico ha vasti archivi proprio sui movimenti sessantottini: a che servono?
Poi anche la Galleria Bianca ha qualche punto forte: come quando espone il commovente contenuto del bagaglio di un soldato e di un ufficiale; o il carico (solo 5 chili!) che ogni profugo poteva portare con sé. Ma se un giovane si chiede chi erano questi profughi, da dove venivano e dove andavano e perché e che fine hanno fatto, ebbene, non trova risposta alcuna. Forse perché, a veder illustrata la durezza austroungarica si sarebbe inalberato qualche esponente pattino (dei quali oggi uno è assessore alla Cultura)? Non sappiamo.
Di certo si vede la gente assieparsi attorno all’unico momento esplicativo, un’installazione che a comando proietta dei filmati che illustrano gli anni di guerra del periodo prescelto. Sono documentari chiari, realizzati con buona professionalità, secondo una visione storiografica molto tradizionale (avanzate e ritirate, generali e corpi d’armata...) che poco ha a che spartire con l’assunto più innovativo sotteso al progetto delle Gallerie. Della società Asteriaz multimedia, sarebbe un oggetto estraneo al contesto; ma nel vuoto totale di altri momenti di informazione diventa l’ancora cui si aggrappa il visitatore in cerca di qualche spiegazione.
Conclusione. Un ottimo assunto di base. Molto ben realizzato (tralasciamo alcune pecche secondarie, si è dovuto fare tutto in tempi strettissimi, affinché la mostra potesse fungere da spot elettorale) nella sua prima parte, quella più innovativa.
Ignominiosamente franato nella seconda. Paradossalmente, quella in cui le competenze dovrebbero essere, anzi sono, più consolidate.
“È vero, forse si potevano fornire più informazioni, che d’altronde sono fornite da altri luoghi a ciò deputati, come i Musei - ci risponde il direttore del Museo Storico Gieseppe Ferrandi - Questo è stato un evento culturale dal carattere sperimentale. Terremo conto delle critiche”.
Speriamo. Perché ci preoccuperebbe molto se il “nuovo corso” della divulgazione storica trentina consistesse nell’emozionare la gente, ma nello stare bene attenti a non farla ragionare.