“Mio dolce paese, dove sei?”
Identità perdute da Rouault ai contemporanei Trento, Museo Diocesano, fino all’11 gennaio 2016.
Le curatrici della mostra, Domenica Primerano e Riccarda Turrina hanno progettato questo contributo al centenario della Prima Guerra mondiale, come una riflessione che parte da lì ma si rivolge poi soprattutto al presente. Un atteggiamento per certi aspetti non dissimile da quello di Cristiana Collu nella mostra del Mart, ma cercando qui, in poco spazio e con una più ristretta gamma di linguaggi, di far emergere un pensiero intorno allo sradicamento e alla perdita di identità.
Quello stesso sentimento che provarono - è l’incipit della mostra - i circa 70 mila profughi trentini, donne vecchi e bambini, allontanati allo scoppio della guerra dai propri paesi, ai quali tornarono dopo anni, trovandoli in molti casi completamente devastati: un video di Stefano Benedetti lo rievoca lavorando sulle fotografie delle rovine di chiese e paesi fatte realizzare nel 1918-19 e conservate dal Museo.
Da qui nasce un percorso che si snoda su due tracce parallele: da un lato grandi autori di fotografia “leggono” gli effetti di guerre che si sono succedute nell’arco del secolo fino ai giorni nostri, fino a questa che qualcuno definisce la terza guerra mondiale e sta provocando, da una somma di focolai, le migrazioni e le tragedie che sono sotto i nostri occhi.
L’altra traccia, una sorta di “basso continuo” che interagisce con tutto il resto, è il ciclo di 58 incisioni di Georges Rouault. Quest’opera, costituita da singole tavole realizzate nel corso degli anni Venti, ebbe una gestazione molto lunga (l’edizione definitiva vide la luce nel 1948), e si presenta nel suo complesso come un pensiero più che amaro, angosciante, sulla natura umana. Se nella pittura Rouault manifestava un evidente interesse per la marginalità sociale, oltre che per i temi religiosi, qui assistiamo ad una sorta di immersione totale nel dolore, accentuata dai toni caliginosi e dall’incisività del segno nero che caratterizza questa personale e molto elaborata tecnica di incisione. I tipi umani sono intercalati non a caso al tema del Cristo sofferente, in una visione che assegna al divino la possibilità di riscatto per l’uomo, anche se non mancano interventi di sapore polemico e grottesco contro militarismo e ipocrisia.
Tra i fotografi qui convocati figura un nome che ha fatto storia nel reportage di guerra, Robert Capa, che operò al seguito dell’esercito americano in Italia durante la seconda guerra mondiale. La guerra, almeno in queste fotografie, è però osservata non in atto ma nelle sue conseguenze sulla popolazione: gente che si aggira presso le macerie delle case, nella Napoli del 1943, che cerca acqua potabile, qualcosa da mangiare, di ritrovare il filo della sopravvivenza e della vita, riprendersi dallo smarrimento e dalla perdita. E ancora: il viso di una donna che affonda nell’abbraccio del figlio reduce dalla Russia (foto di Tino Petrelli, 1954).
Lo stesso criterio vale per parlare degli sradicamenti e delle violenze dei nostri giorni. Ugo Panella è stato reporter in Sierra Leone durante la sanguinosa guerra civile che durò dal 1991 al 2002 provocando migliaia di vittime e quasi due milioni di profughi. Sua è la foto che condensa uno degli aspetti più tragici del tema della mostra, ed è l’immagine in controluce di quattro ragazzini dietro un filo spinato: le facce quasi non si vedono, è un’immagine soprattutto metaforica, che parla dei bambini-soldato schiavizzati, spersonalizzati, marchiati sulla fronte come bestiame dai signori della guerra. Di Ugo Panella è però anche uno sguardo di speranza, la foto di una donna del Cairo col suo bambino in braccio, sullo sfondo della Città dei Morti.
I profughi e la loro assoluta precarietà tornano nell’opera del cileno Alfredo Jaar (più volte presente alla Biennale di Venezia e a “Documenta Kassel”) e di Jean Revillard, che nel 2008 fotografa gli accampamenti di fortuna dei migranti bloccati nella zona di Calais che attendono di trovare un modo per passare in Gran Bretagna: esattamente ciò che sta continuando, in numeri accresciuti, durante questa estate del 2015.
In mezzo a tutto questo, meritano di essere citate le due sole sculture del percorso, opere di Simone Turra di Transacqua, che sembrano condensare tutta la pena qui evocata, in particolare il grande corpo di un uomo disteso: mutilo in ogni arto, e quasi privo di connotati.