Al finire della vita
La vita delle persone si è allungata di 15-20 anni ma di questi 3-4 sono di grave inabilità. Che fare per salvaguardare la dignità della vita che finisce? Da Una città, mensile di Forlì.
Ormai, in tutte le lingue, non si parla più di buona morte, di morte accettata, ma di morte dignitosa. Ma perché il problema delle cure di fine vita è così importante? In Italia abbiamo la popolazione più vecchia del mondo. Questo è un effetto positivo dei progressi della medicina; se non che questi progressi, se hanno ottenuto di guarire o curare indefinitamente quasi tutte le malattie, non hanno ottenuto un prolungamento infinito della vita. Siamo tutti consapevoli che la vita ha un limite; potremo spostarlo ulteriormente, non saranno più gli ottant’anni ma, forse, i novanta, i cento, i centoventi, ma non è questo il problema. Il problema è che un limite certamente esiste e noi attualmente vi stiamo portando la maggior parte della popolazione italiana. Quindi per noi il problema è più urgente: abbiamo circa trecentomila malati all’anno che muoiono e che hanno o avranno sempre più bisogno di cure di fine vita, cioè di terapie del dolore e di cure palliative. E’ lì che l’intensità del bisogno diventa massima; e non stiamo parlando solo di malati di cancro; verso il limite della vita si stanno avviando i malati di tutte le altre malattie per cui prima o poi si può morire, e sono tanti quanti i malati di cancro (150.000 all’anno, mentre altri 150.000 sono i malati di altre malattie). Questo è il primo aspetto della questione, di natura prettamente epidemiologica.
Se facciamo una ricerca su Internet e digitiamo "terapia del dolore" su un qualsiasi motore di ricerca, per esempio Google, troveremo 500.000 siti; se cerchiamo "cure palliative" ne troveremo tre milioni; se invece cerchiamo "cure di fine vita" i siti saranno ventinove milioni. Questa è l’entità dell’interesse per questo specifico problema, anche in paesi più avanzati del nostro, un problema diventato addirittura assillante.
Ma perché ci assilla? Perché un uomo o una donna di sessantacinque anni, oggi, possono sperare ancora in quindici anni, vent’anni di vita (quindici gli uomini, venti le donne). Questo è positivo, certo, però, come dire, la mela è avvelenata. Perché dentro questi quindici o vent’anni, ce ne sono almeno tre per gli uomini e quattro per le donne di grave inabilità. Ecco quindi che prevedibilmente dovremo curare persone che, avvicinandosi alla fine della vita, progressivamente diverranno sempre più inabili. Questo è il problema, e ci riguarda tutti. Ma ci riguarda tutti perché non è una questione esclusivamente clinica, non è solo un problema di cure palliative; quelle le sappiamo fare abbastanza bene, il dolore ormai sappiamo come curarlo, e lo faremo sempre meglio; anzi, l’idea che le cure palliative debbano essere estese a tutta la medicina ormai è già ampiamente diffusa; si fa la radioterapia palliativa, la chirurgia palliativa. E’ solo un problema organizzativo quello di definire molto bene un ambito che sta diventando il problema numero uno almeno nei paesi occidentali. E’ che come la gente muore non ha a che fare solo con la medicina. Anzi, così come diceva un famoso generale della prima guerra mondiale, "la guerra è troppo importante per lasciarla fare ai generali", altrettanto, noi diciamo: la morte delle persone è troppo importante per lasciarla gestire ai medici.
La morte non possiede solo una dimensione clinica, non è solo il mio organo malato a morire, sono io come persona che muoio. E io come persona non sono solo la biologia degli esami del sangue o dell’organo malato, io sono anche la mia biografia. Sono la mia storia, la mia cultura, i miei desideri, i miei sogni, i miei affetti. E io sono anche portatore di interessi e, soprattutto, sono portatore di dignità.
In questi mesi e in questi anni sono state scritte biblioteche intere su questo tema, su che cosa significhi e in che cosa consista la dignità di una persona che sta morendo. Sicuramente è una dimensione etica, all’interno della quale ci sono elementi come il consenso informato: "Mi dovete comunicare che cos’ho, mi dovete dire che sto morendo, perché magari tocca a me prendere delle decisioni importanti"; e anche le direttive anticipate: "Dico adesso cosa vorrei che fosse fatto nel caso che tra un po’ di tempo non sia più in condizioni di poter decidere, perché magari sarò in coma o in uno stato di confusione".
Quindi il problema dell’accanimento terapeutico: "Non esagerate su di me"; il problema dell’autonomia: "Vorrei decidere per me stesso"; il problema del rifiuto delle cure: "Quella cosa non mi piace e non la voglio".
Ecco, questi sono gli argomenti importanti, senza entrare nei territori oscuri e un po’ fumosi dell’eutanasia e del suicidio assistito. Qui siamo in un ambito in cui le cose hanno una dimensione ragionevole, condivisa. Questa è una conquista di civiltà che in altri paesi è già legge; in Italia piano piano ci stiamo arrivando; c’è stato recentemente un convegno al Senato e persino la seconda carica dello Stato si è pronunciata in modo molto positivo rispetto a una forma di direttive anticipate.
Un altro dei problemi etici che si affrontano negli hospice è quello delle medicine alternative, non convenzionali. A questo livello, il tema delle cure palliative apre uno scenario importante, perché il malato terminale, in virtù del principio di autonomia sopra menzionato, ha il diritto di farsi curare come gli pare, di perseguire quella che secondo lui è la migliore qualità della vita.
Infatti, quando un medico non può più prolungare la vita del paziente ma, ormai, può curarne solo i sintomi, fargli, appunto, solo cure palliative, questo medico ha sciolto unilateralmente il contratto non scritto che lega medico e paziente. Il rapporto medico-paziente è basato infatti su una specie di contratto, rivolto primariamente a salvare la vita. Quando noi andiamo dal nostro medico firmiamo tutte le volte un contratto non scritto, in base al quale noi sappiamo che quel medico tenterà di tutto per salvarci o almeno per prolungare la nostra vita.
Questo contratto funziona da sempre, da quando c’è la medicina, tuttavia da 40-50 anni la medicina moderna ha creato una situazione nuova, che si verifica quando nella testa del medico si forma l’idea che quel malato sta per morire. E’ quella che noi chiamiamo condizione terminale, in cui, per così dire, la morte è annunciata, ed è una fase che può durare venti giorni, com’è nella media dei ricoveri negli hospice, ma anche mesi o anni, come ad esempio nelle malattie neurologiche. Ebbene, proprio in quel momento, quando il medico formula quella prognosi e quindi non può più ottemperare al suo dovere primario, cioè quello di salvare la vita, il contratto è sciolto e quel medico non ha più diritti sul malato: non può più tagliargli la gamba o fargli la medicina d’urgenza.
Il fatto è che il malato non lo sa. Io curo circa 500 persone all’anno fino alla morte, e la stragrande maggioranza di queste, quando arriva nel mio servizio, è convinta che le cure palliative che io applicherò siano un’altra forma di cura del tumore, come la radioterapia, l’oncologia, ecc.
A questo punto sorge un ulteriore problema: se salvare la vita, sanare, guarire, è il dovere primario di un medico, qual è il suo dovere secondario? Io credo che il dovere secondario del medico sia almeno togliere la sofferenza. Ma togliere la sofferenza, cioè curare la qualità di vita, non è più faccenda da medici, perché della mia qualità di vita il massimo esperto sono io. E quindi questo medico mi potrà offrire le cure palliative, e io volentieri mi farò somministrare la morfina, però potrei preferire rivolgermi ad altre terapie, a terapie alternative, complementari, non convenzionali, che di fatto sono anch’esse terapie palliative, e ho il diritto di farlo. Questo negli hospice già succede o dovrà succedere. Cioè proprio perché non si può più prolungargli la vita, e proprio perché ne va di mezzo soltanto della sua qualità di vita o, potremmo anche dire, della qualità della sua morte, quel paziente ha il diritto di curarsi o farsi curare come gli pare.
Ma qui scatta il problema etico: al mio diritto di essere curato corrisponde il dovere di qualcuno di darmi quello che voglio? E’ qui che casca l’asino, perché se io ho il diritto di essere felice, come tutti, non c’è però nessuno che ha il dovere di rendermi felice. Tradotto in soldoni: il malato ha il diritto di curarsi come gli pare; il medico invece deve stare ben attento a selezionare, tra tutto ciò che è possibile fare, ciò che ritiene veramente utile e appropriato, sulla base della sua esperienza e competenza.
Ecco, attorno alla fine della vita si giocano problemi etici molto delicati, terribili quasi. E non sono solo quelli dell’eutanasia o dell’accanimento terapeutico, ma sono problemi che hanno a che fare con tutti noi.
La seconda dimensione importante, dopo quella etica, è quella della comunicazione, della relazione umana. Negli hospice c’è quello che si chiama un "ambiente di verità": le cose vengono dette, nessuno scappa, e questo è sicuramente un grosso passo avanti. E’ un ambiente di verità fatto di persone che si parlano, di malati che sanno cosa sta succedendo loro, di familiari che non sono angosciati dalla necessità di fare quel famoso giochino: lui sa che io so che lui sa che io so, ovvero "l’organizzazione nobile della menzogna", la congiura del silenzio, che spero ci stiamo lasciando alle spalle definitivamente (anche se purtroppo in certi casi questi comportamenti si verificano ancora).
C’è inoltre una terza dimensione, forse ancora più importante, ed è quella antropologica. Come una persona muore ha a che fare con come ha vissuto, con com’è stata la sua vita. Tanto per fare un esempio, normalmente in un hospice canadese -e presto anche nei nostri- in quei sette-dieci letti sono rappresentate cinque-sei-sette culture, religioni, razze diverse. E lasciando passare ancora qualche anno, anche chi cura quei malati di religioni, razze e culture diverse, ossia i medici e gli infermieri, saranno a loro volta di culture, razze e religioni diverse, come comunemente già accade in Inghilterra, negli Stati Uniti o in Spagna.
Ecco allora che l’antropologia, intesa come valori, cultura, religione, spiritualità, come concezione e visione del mondo, diventa fondamentale. Mi sto riferendo a quelli che Singer chiama gli "stranieri morali". Noi infatti abbiamo la sensazione di essere tutti d’accordo perché abbiamo frequentato lo stesso oratorio, abbiamo studiato lo stesso catechismo e siamo stati educati più o meno nello stesso modo, ma io non ho la minima idea di che cosa sia la buona morte, la morte dignitosa per un buddista, oppure quale sia il significato che un indonesiano o un bantù attribuiscono alla malattia. E questo apre scenari nuovi.
E quindi si ripropone la domanda: che cos’è la buona morte? Che cos’è la dignità? Ecco, tutte queste dimensioni hanno a che fare con l’antropologia, che si porta dietro i rituali (noi viviamo di rituali, in un ospedale si fanno rituali) e quindi dobbiamo tener conto di questi aspetti, di come il malato, la famiglia e gli stessi medici e infermieri vivono questa dimensione.
Per concludere, perché ho af-frontato questo tema? L’ho detto prima, perché forse non è il caso di lasciare solo ai medici la responsabilità di decisioni che sono gravissime. Perché i medici non sanno ancora occuparsi di queste cose, e non perché sono cattivi, ma perché nessuno glielo ha insegnato.
Le facoltà di Medicina, in Italia, ancora non prevedono insegnamenti di etica, di antropologia, di comunicazione; queste cose nei libri che vengono fatti studiare agli studenti non ci sono. E se anche da domani cominciassimo a insegnargliele, i primi medici attenti, esperti li avremmo fra sette-otto anni e i primi specialisti esperti li avremmo tra non meno di dieci anni. Nel frattempo saranno morte in Italia circa tre milioni di persone senza avere accanto medici esperti.
Quindi il problema oggi non è la diffusione delle cure palliative, ma il fatto che tutti i medici e tutti gli infermieri italiani devono cominciare a interessarsi di come muore la gente, perché è una questione che certamente nell’arco della loro vita professionale li riguarderà.
L’ultimo argomento riguarda il fatto che tutti quanti noi
abbiamo il diritto, quando siamo malati, di diventare soggetti morali (diritto che ovviamente diventa un dovere per i medici e gli infermieri che lo dovranno rispettare e applicare). Soggetto morale significa portatore di interessi, ossia soggetto consapevole della propria posizione morale, del proprio pensiero e della propria visione del mondo, che però deve essere messo in grado di esprimere, argomentare e spiegare. Perché solo con questo tipo di dialogo si arriva poi a una sintesi. Però c’è anche il versante medico, e quando dico così mi riferisco alla medicina intera: il medico deve essere in grado di rispettare questo atteggiamento del malato soggetto morale.
Oggi questo non sempre avviene negli ospedali e nei luoghi di cura, all’interno del rapporto tra medico e paziente, e quindi deve diventare la scommessa per il futuro, a cui tutti noi, come cittadini, siamo interessati: la promozione di una nuova cultura, che non è una cultura della morte, ma è una cultura della morte dignitosa.
C’è inoltre un altro aspetto che riguarda il malato soggetto morale: egli ha il diritto di capire come sta evolvendo la sua situazione e come andrà a finire, questa informazione gli è proprio necessaria; non si può continuare a dire al malato: "Siccome hai questa diagnosi, adesso sei nelle mie mani e fai tutto quello che io ti dirò". Per carità, a fin di bene: nessuno vuol far del male al malato. Forse quindi è venuto il momento in cui il medico deve diventare più bravo a fare la prognosi, cioè a spiegare al malato che cosa gli succederà, affinché possa decidere in prima persona cosa vuole fare o non fare.
Questa però è una cosa quasi rivoluzionaria; in 10.000 anni i medici hanno imparato e sono diventati sempre più bravi a fare una sola cosa, la diagnosi, cioè a individuare le malattie per poi curarle. I medici però non sanno fare la prognosi, non sono capaci cioè di capire come andrà a finire. Tutti noi abbiamo esperienza di quella frase orribile: "Quanto gli hanno dato? Gli hanno dato tre mesi, gli hanno dato cinque mesi"; e poi ci si sbaglia sempre. Ecco, la medicina moderna, proprio per questo nuovo bisogno, deve attrezzarsi meglio in questo senso, perché al malato informazioni esatte e precise sono indispensabili, proprio per poter esprimere la propria autonomia. Ma, di nuovo, questo implica un processo di responsabilizzazione, perché queste decisioni, che ci riguardano, non sono più, o non sono abbastanza, competenza dei medici.