Un doppio diario della Grande Guerra nel Primiero
Il conflitto e le e miserie quotidiane visti dalle retrovie
Patrioti di quale patria, trentini e/o tirolesi, filoitaliani o austriacanti: il travaglio dell’identità pervade la storia della nostra regione negli ultimi due secoli e lavora ancora nelle coscienze, come constatiamo ogni volta che si apre una discussione sul nostro passato. Non si tratta solo della ricorrente agitazione del tema nel discorso pubblico, nel quale la mobilitazione dei sentimenti identitari si intreccia alla ricerca del consenso politico. Accade spessissimo di raccogliere, nelle discussioni che seguono conferenze e presentazioni di libri, le testimonianze di una lacerazione ancora avvertita. Quando poi è della Grande Guerra che si parla e delle sue ripercussioni, le antiche schematizzazioni filo e anti riemergono inesorabili. Raccomando questo libro a tutti quelli che sentono il bisogno di capire come il senso di appartenenza nazionale si manifesta e si trasforma dentro gli eventi, a chi ama indagare nel concreto delle esperienze collettive diversità, conflitti, sfumature.
Due diari paralleli si intrecciano in queste pagine, rendendo conto ciascuno a suo modo dei giorni della prima guerra mondiale nel Primiero tra l’occupazione italiana del maggio 1915 e la definitiva ritirata austriaca dei primi giorni del novembre 1918. In mezzo, la ritirata italiana del novembre 1917, il ritorno degli austriaci, un anno di agonia sotto l’incubo della fame. Gli autori sono due testimoni di un certo rilievo, nella società locale. Il settantenne Enrico Koch, di origine austriaca, ha tre figli arruolati nell’esercito imperiale e un quarto, Ugo, volontario nell’esercito italiano. Vive (e compila le note del suo taccuino) a Fiera, dove è stato a suo tempo podestà. Don Enrico Cipriani, giovane prete ventiseienne nel 1915, è cooperatore del parroco di Mezzano: la distanza tra i due paesi e le rispettive valli di per sé divarica i loro racconti, che riflettono preoccupazioni e inclinazioni politiche molto diverse. Don Enrico guarda ai “redentori” con aperto scetticismo: è irritato dalla loro retorica e dal loro stesso calendario (ignorano l’Immacolata, festeggiano il 20 settembre!), annota gli attesi segni di scarsa considerazione per il clero e sembra meravigliarsi quando, più frequentemente delle attese, deve registrare nei soldati italiani i segni di una pietà religiosa alimentata da una presenza esuberante di cappellani militari.
Koch sarebbe portato a una simpatia molto maggiore verso i nuovi venuti: ma è costretto a elencare frequentemente liste di internati in Italia per fede politica non sicura, nonché atti di prepotenza di un commissario civile che a un certo punto minaccia di internare pure lui. La paura di finire come tizio o come caio in un’affocata e quasi mitica “Manduria” aleggia spesso in queste pagine. Il tema dell’internamento degli oppositori e dei semplici sospetti, fino ad anni recenti pressoché ignorato dalla storiografia italiana sulla Grande Guerra, è oggi oggetto di sempre più consapevole attenzione (segnalo la presenza in rete di un importante saggio di Giovanna Procacci). Studi locali in area trentina sulle zone di occupazione italiana, anch’essi recenti e in attesa di pubblicazione, confermano la rilevanza quantitativa del fenomeno e l’estrema gravità delle sue ripercussioni sull’atteggiamento della popolazione.
Nei due diari c’è anche la guerra combattuta, quella dei cannoni e dei corpi insanguinati, ma vista dalla retrovia. Don Enrico registra i funerali dei soldati morti, l’ossequio della partecipazione ufficiale e il dissacrante cinismo dei commilitoni che intanto se la bevono all’osteria. Descrive con occhio affascinato i passaggi degli aerei, accorre quasi temerario a verificare gli effetti delle bombe che questi riversano sul territorio: ci ricordiamo allora che è un giovane coetaneo dei soldati a scrivere. Acidi e totalmente privi di comprensione sono invece i passaggi che dedica agli amori tra i soldati e le donne del luogo: ma neanche il testo parallelo di Koch è particolarmente amabile in questo senso, ossessionato com’è l’autore ad avere intorno qualcuna in grado di badargli, dopo che la famiglia è disgregata e la moglie morta. Sono pieni di miserie personali e collettive, questi testi, documentano insieme il degrado che la guerra comporta e la fragilità di solidarietà comunitarie spesso mitizzate. Ma anche su questi temi sociali non è lecito generalizzare alla svelta. Conviene in primo luogo far conoscere i documenti, leggerli, studiarli, confrontarli: la collana “Archivio della scrittura popolare” del Museo storico in Trento, insieme a “Scritture di guerra” e ad altre iniziative editoriali locali, configura una straordinaria risorsa culturale, anzi una risposta progettuale di lungo periodo ai problemi accennati all’inizio. Chissà se quanti agitano le bandiere delle identità se ne sono mai accorti.