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QT n. 20, 21 novembre 1998 Servizi

Gli intellettuali e la Grande Guerra

Ci sono studiosi italiani e austriaci. americani e tedeschi, anche finlandesi e polacchi, al convegno internazionale "Gli intellettuali e la grande guerra ". A Trento, città allora catapultata nella tragedia, disorientata, lacerata, e oggi, mai come in questa occasione, crocevia di intellettuali appartenenti a nazioni in quegli anni nemiche. Su un tema, la prima guerra mondiale, che non riesce ancora a passare, nessuno lo sa meglio di noi trentini, e sul quale la memoria è ferita, divisa, e spesso malamente trascinata sul terreno scivoloso della politica.

Anche all'inizio del secolo, prima della "catastrofe", il clima fra gli intellettuali pareva sereno, di confronto e di collaborazione. Gli storici soprattutto, ma anche i sociologi, i fisici, i medici, i letterati, si conoscevano, polemizzavano certo, ma si stimavano, al di là delle nazioni di appartenenza.

Bastò nel ' 14 il colpo di pistola di Sarajevo perché quelle comunità franassero e si dissolvessero, e incrociassero anzi le armi senza esclusione di colpi in una "guerra degli intelletti ", di "Krieg der Geister", di "spiritual War". Si dissolse quindi non solo, come già sapevamo, la solidarietà operaia, dei partiti socialisti della seconda Internazionale. Il male deve essere stato profondo, se a fallire furono quelli che lavoravano in fabbrica, quelli che maneggiavano idee, da affollare così le trincee di contadini delle campagne.

Quale fu il ruolo degli intellettuali in quella guerra? E quale fu, in senso inverso e complementare, l'incidenza della guerra sugli intellettuali, come persone, e sulle discipline che praticavano?

Queste le due domande a cui il convegno, a più voci, ha cercato di dare risposta, con analisi provenienti da discipline che solitamente faticano a dialogare. Gli intellettuali di tutti i paesi si schierarono a favore dell'intervento: sottoscrissero appelli, partirono per il fronte, fecero il proprio mestiere, dai medici ai giornalisti, perché il proprio paese vincesse. La storia fu reclutata a dimostrare le ragioni della propria nazione, e i toni degli avversari. Se la propaganda degli Stati dell'Intesa accusò la "barbarie" del militarismo tedesco, per le crudeltà commesse nell'invasione del Belgio neutrale, gli intellettuali tedeschi risposero che la Germania era stata costretta alla guerra: "Non è vero che sulla Germania ricade la responsabilità della guerra. Senza il militarismo tedesco la cultura tedesca sarebbe sradicata da un pezzo. L'esercito e il popolo tedesco sono una cosa sola." - si afferma nell'appello più noto, quello dei 93, promosso dal filologo classico Wilamowitz. E Thomas Mann interpreta il conflitto come contrapposizione fra la Kultur tedesca, profonda, vitale, radicata nello spirito del popolo, e Zivilisation occidentale, razionalista, utilitarista, mercantilistica.

Ognuno percepisce la guerra come in "difesa", addirittura degli stessi valori, dello spirito, dell'anima. del cristianesimo, da parte degli intellettuali russi contro il materialismo tedesco, e da parte di quegli austriaci contro il primitivismo slavo. I francesi Bergson e Durkheim, l'americano Dewey sostengono che la guerra è contro l'autocrazia e contro la guerra: la vittoria della loro parte avrebbe portato la democrazia e la pace nel mondo.

Idissenzienti rispetto a questa impostazione nazionalistica manichea, di reciproca demonizzazione, sono pochi, e pagano con l'emarginazione, la censura, l'accusa di combutta con il nemico: sono Romain Rolland in Francia, Heinrich Mann e Albert Einstein in Germania, Thorstein Veblen negli Stati Uniti, Karl Kraus in Austria, Mikhail Bulgakov (di ispirazione tolstoiana) in Russia. I docenti universitari perdono la cattedra, con il che la libertà d'insegnamento, cardine della civiltà illuministica, si rivela, nel momento della stretta patriottica, un'illusione. Qualcuno subisce anche il carcere: Rosa Luxemburg in Germania, Bertrand Russel in Inghilterra, Eugen Debs in Francia, o affronta l'esilio, come Lenin in Russia.

Qual è l'origine dell'entusiasmo diffuso, perché la ragione pacifista di ascendenza illuminista è travolta, e l'amor di patria diviene militarismo bellicoso? Le spiegazioni si ripetono, quasi ossessive, in ogni relazione: è la frustrazione il male oscuro che permea la coscienza nazionale italiana post risorgimentale (Alfredo Galasso); l'euforia è ovunque liberazione da un'attesa spasmodica di qualcosa di nuovo (Georg Iggers); la guerra è antagonismo vitale mentre la pace è inerzia stagnante (Fausto Curi); c'è energia morale nella guerra (Hans Joas), e rivoluzione contro la bonaccia (Klaus Amann). Quasi una "linea d'ombra" al di là della quale si diventa adulti e uomini autentici.

Sono i letterati e gli artisti ad esprimere con maggiore efficacia questo clima infuocato e virile. Fra gli italiani, Gabriele D'Annunzio al "grigio diluvio democratico" contrappone la forza e la violenza come "unica legge della natura". Filippo Tommaso Marinetti glorifica la guerra come "sola igiene del mondo", Giovanni Papini inneggia al "caldo bagno di sangue nero". Persino Giovanni Pascoli, il poeta del "fanciullino", che non potrà vedere la guerra mondiale, appoggia, inatteso, almeno quella coloniale di Libia, in cui l'esercito appare come la più amata e la più seria delle istituzioni, vero fattore di unità nazionale: sono "le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici delle loro luminose ferite " che cancellano la vergogna di un'Italia fin allora soltanto "espressione geografica". E poi, a guerra scoppiata, le parole di due grandissimi nemici che poi si ricrederanno: per il russo Vladimir Majakovkij "la guerra non è uno sterminio assurdo, ma il poema dell'anima emancipata e esaltata", mentre l'austriaco Robert Musil scrive che "la guerra rappresenta l'ebbrezza di un'avventura, e...ne avevamo abbastanza della pace."

Certo in molti, ma non in tutti questi interventisti, di fronte agli orrori della trincea, subentreranno il disincanto e il rifiuto. Ma intanto, la capacità di opporre all'euforia dilagante il pensiero critico è di pochi. Le amicizie fra storici, sociologi, scienziati, diventano inimicizie. Solo Sigmund Freud e Emest Jones continuano durante la guerra, fra Vienna e Londra, a scambiarsi lettere su temi psicoanalitici, ma sono un'eccezione.

Ma la letteratura e l'arte ci introducono al secondo problema, in quanto ci consentono di vedere l'influsso esercitato dalla guerra sugli intellettuali, e sullo statuto delle discipline. John Dewey, il sociologo wilsoniano favorevole all'intervento in guerra degli Stati Uniti per attuare così una riforma del mondo in senso democratico e sovranazionale, ne sarà così deluso, che in occasione del secondo conflitto mondiale, pur in presenza del nazismo hitleriano, si dichiarerà contrario alla partecipazione americana.

In economia la guerra segnerà la crisi irreversibile del capitalismo di mercato fondato sull'imprenditore singolo, e chi si ostinerà ad analizzare il mondo con i vecchi strumenti del liberismo marginalista, si condannerà ad una "evasione dalla realtà": è questo il senso del contrasto fra Schumpeter e Keynes ha affermato Michele Cangiani. La sociologia si imbatterà nella massa, la psicoanalisi nelle nevrosi di guerra, e nel più generale disagio della civiltà: nessuna disciplina sarà più la stessa.

Quella fu la prima guerra mediatica della storia: Robert Musil nei diari avverte che la nuova tecnologia militare modifica nel soldato la percezione psichica, ma è soprattutto il cinema, attraverso le inquadrature e il montaggio, l'accelerazione e il rallentamento, che è chiamato a rappresentare un corpo frammentato e ricomposto, a creare una realtà iperreale, a dire l'indicibile dell'inconscio (Siegfried Matti).

La ragione che ci spinge oggi, alla fine del secolo, in un'epoca di crisi delle identità delle nazioni e degli individui, a riesaminare la grande guerra è l'interesse per l'enigma delle origini: è da lì che prende avvio la coscienza de "l'animo nostro informe", secondo le parole di Eugenio Montale. E anche se sappiamo che non esiste "la parola che squadri da ogni lato", non ci arrendiamo all'oscurità.

Il convegno di Trento è stato un momento importante di approfondimento, e gli studiosi stranieri sono stati un esempio di franchezza nel consentire e nel contestare.

Qualche osservazione critica: la presenza dei relatori per l'intera durata dei lavori è necessaria perché sia reale il dibattito fra posizioni diverse. Sul rapporto fra intellettuali e politica, ad esempio, Galasso e Isnenghi hanno sostenuto tesi diverse: più orientato ad affermare l'autonomia della politica il primo, più disposto a valorizzare il protagonismo e l'incidenza degli intellettuali il secondo. Essendo mancato un confronto diretto fra i due studiosi, il problema, decisivo, come appare dal passo di una lontana conferenza di Norberto Bobbio, è rimasto irrisolto.

Solo in qualche fuggevole passaggio, nelle relazioni di Isnenghi e Conci, è parso visibile il legame con l'attualità: è dai problemi più urgenti del presente che siamo mossi a studiare il passato, per tornare più ferrati e consapevoli al presente, e capire meglio i problemi dell'oggi e noi stessi. Di questo legame, i giovani soprattutto. numerosi e attenti nell'aula dell'Itc, devono essere resi consapevoli, non nel significato riduttivo dell' historia magistra vitae che fornisce precetti, ma in quello più profondo che l'azione sociale è contemporaneamente scelta e costrizione, una mescolanza di ragioni ed emozioni, di condizionamenti sociali e risorse personali. Dal convegno sono venuti stimoli nuovi. Sulla guerra innanzitutto. L'Italia quella guerra l'ha vinta perché la borghesia delle professioni ha saputo fare con impegno il proprio mestiere, senza incanti e disincanti: di quella guerra dobbiamo essere oggi orgogliosi è la parola conclusiva, e inattesa, di Mario Isnenghi. Ecco, che quella guerra sia riassunta nel nome della vittoria non mi convince, e l'ho detto allo storico: siamo rimasti su posizioni diverse, ma la storia è fatta anche di sorprese che fanno riflettere.

Ma il secondo conflitto mondiale, la resistenza, la bomba atomica, su su fino alla guerra del Golfo e a quelle etniche più recenti, riproporranno il problema della violenza in termini nuovi. L'anatema contro "il patriottismo, ultimo rifugio delle canaglie", come si afferma nel film "Orizzonti di gloria " di Stanley Kubrick, appare un antidoto insufficiente. Occorre scavare più in profondità, nella costruzione paziente di quell'"uomo inedito", auspicato da Ernesto Balducci. e come, ci ha informati Marco Conci, è impegnato a fare lo psicoanalista Luigi Pagliarani attraverso una proposta di "nuova educazione alla pace ".

Stimoli sulla scienza infine. Il convegno ha confermato, mi pare, la concezione di Thomas Kuhn, secondo il quale è la storia, dello scienziato e della società, con i suoi valori, le sue irrazionalità, le sue tragedie, a modificare anche i paradigmi scientifici. Abbiamo saputo, recentemente, dalla biografia scritta dalla moglie, che la motivazione a criticare la storia degli eventi di superficie, in nome di una storia più profonda, collettiva, delle strutture, venne a Femand Braudel, storico delle Annales, dall'esperienza di prigionia nei campi tedeschi, quando, all'annuncio delle avanzate della Wehrmacht, si esclamava con speranza: "Ma è un avvenimento, nient'altro che un avvenimento!"

E' questa la 'verità' a cui approda la scienza storica, fragile forse, ma che ci fa uomini, limitati, impegnati. contraddittori. Anche le scienze esatte, la fisica, la chimica, la biologia, che indagano la natura, sono costrette, nel corso della grande guerra, a trasformarsi: dalla ricerca pura e disinteressata per il bene dell'umanità alla scoperta del valore anche delle scienze applicate al servizio della nazione. C'è in questo passaggio un guadagno, e c'è una perdita, contraddizione che Roberto Malocchi non è disposto, mi pare, a riconoscere. Anche questo è un dissenso però sul quale il vostro cronista, mai come in questa occasione inadeguato al compito, si sente di insistere.