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Il gigante isolato

La grave ferita terroristica dell’11 settembre 2001 ha provocato negli Stati Uniti un forte intreccio emotivo: stupore per il mito caduto dell’invulnerabilità; frustrazione per l’inefficienza dei servizi segreti e per la invisibilità del nemico; dolore, collera e desiderio di vendetta per i 3.000 morti e i simboli colpiti, fra cui il Pentagono.

L’apparato militare-industriale statunitense, guidato dall’amministrazione Bush, ha reagito d’impeto con la guerra all’Afghanistan, dagli effetti quasi nulli per il terrorismo: Osama bin Laden e il mullah Omar sono vivi e ancora imprendibili. La rete di Al Qaeda è quasi intatta e ancora in grado di colpire. Bush si è ritrovato dopo quasi un anno come un pugile barcollante che colpisce a vuoto, aumentando così la sua frustrazione. Ha cercato allora, questa volta a freddo, un nuovo nemico da colpire, e l’ha trovato nell’Irak, per corposi interessi economici e strategici: dominio dell’intera area medio orientale, col disegno di mutare gli assetti politici e di impadronirsi delle ingenti risorse petrolifere. Il piano è stato condotto con rozzezza e brutalità. Bush ha dichiarato fin dall’inizio che avrebbe attaccato l’Irak con o senza l’approvazione dell’ONU, mettendosi fuori del diritto internazionale e disegnando per gli USA un profilo imperiale, anzi imperialistico. Due le giustificazioni addotte:

1. disarmare Saddam, che costituirebbe un pericolo per il mondo a causa dei suoi arsenali chimici, batteriologici e missilistici (obbiettivo, questo, che può rientrare nei compiti dell’ONU);

2. rimuovere Saddam, abbattere le dittatura, sostituire il regime interno (questo obbiettivo non può essere coperto dall’ONU perché violerebbe il diritto internazionale).

Queste due opzioni hanno determinato una grande confusione diplomatica, la reazione dell’opinione pubblica internazionale, la ferma posizione della Francia e della Germania, la divisione degli Stati europei, il voto contrario del Parlamento turco, l’opposizione della Russia e della Cina, il no compatto della Lega Araba, la dura risposta del Papa e di tutte le Chiese mondiali.

Gli USA credevano di essere una iperpotenza cui tutto fosse lecito, cui tutte le porte si sarebbero aperte con deferenza. Scopre ora con stupore e irritazione che non è così. La scena internazionale è assai più accidentata del previsto, piena di trabocchetti, di delusioni e di sorprese. Bush sente con crescente fastidio i "lacci e lacciuoli" che frenano la sua arroganza: un gigante isolato, bersaglio di critiche e condanne.

La responsabilità è sua, perché si è mosso come un elefante in una cristalleria. Ciò non gli impedirà di fare la guerra che ha deciso da tempo. Se ciò avverrà (ci vorrebbe un miracolo per impedirlo), l’America sarà e apparirà diversa, priva di quell’alone di libertà e democrazia che la circondavano: al suo posto ci saranno la corazza e il gladio del guerriero pronto ad ogni guerra preventiva.