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QT n. 2, 22 gennaio 2000 Cover story

Il Trentino che vorremmo

Perdita di identità, mancanza di cultura condivisa e di intenti corali: questi i vistosi limiti che oggi penalizzano il nostro territorio, insidiato da un agire che non si cura di cultura e bellezza. Una riflessione alla vigilia del nuovo Piano Urbanistico. E una proposta per un nuova mobilitazione collettiva.

Ferrari Enrico

In occasione del 2000, sono state dette, fatte e scritte molte idiozie, ignorando quello che Leopardi diceva a proposito del "venditore di almanacchi". Se però torniamo indietro di qualche anno, alla ricerca di qualche cosa da portare nel prossimo millennio, potremmo trovare un gioiello: le "Lezioni americane - sei proposte per il prossimo millennio" di Calvino.

Con questo alto riferimento ho cercato con molta modestia qualche cosa che, partendo dalle mie esperienze professionali in materia di urbanistica e di tutela del paesaggio, potesse idealmente accompagnarci nel nuovo secolo.

Mi pare che Identità, Bellezza, Fragilità, potrebbero costituire dei buoni compagni di viaggio.

Identità

Identità significa "complesso dei dati caratteristici e fondamentali che garantiscono l’autenticità". Se per un individuo i segni dell’identità sono noti (altezza, capelli, occhi...) per un territorio, per il nostro territorio trentino, i segni dell’identità sono profili di monti, distese di boschi, scorrere di torrenti, piccoli nuclei e case tradizionali.

Sono questi, del resto, i segni che pubblicizziamo per attirare i turisti e, curiosamente, sono questi i segni che, giorno dopo giorno, cerchiamo di cancellare, senza un’idea convincente e consapevole di ciò che dovrebbe sostituirli.

Questi segni del territorio e sul territorio possono essere principali (per esempio: l’insieme delle Dolomiti) o secondari (un piccolo rilievo montuoso), ma sono comunque legati e interdipendenti tanto che non si potrebbe, senza disastrose conseguenze, eliminarne anche uno solo: cosa sarebbe dell’identità del Trentino se sparissero le acque, le campagne, i boschi, i borghi, i monti?

Lo studio di questi temi, delle loro relazioni, delle loro compatibilità, delle loro variazioni è fatto dalla tutela del paesaggio.

Identità e tutela del paesaggio

Pronunciata con l’umlaut (tütela) o identificata (generalmente con una connotazione poco positiva) come "la paesaggistica" è un po’ un (il) tormentone che accompagna molti trentini dal 1971, anno di nascita.

Se pensiamo che mediamente 10.000 sono i progetti esaminati in un anno, si fa presto a ipotizzare che in 30 anni 300.000 trentini, quindi quasi tutti, si siano confrontati con la tutela.

A questa è più facile associare l’idea del temporale che di un sole radioso, tanto da poter affermare che il consenso che riscuote, l’utilità e le sue prospettive sono, secondo me, non molto esaltanti.

Il consenso è (diventato) scarso per diversi motivi ma principalmente per questo: per troppi anni, fino al 1987 in cui è nato il nuovo Pup (Piano Urbanistico Provinciale), la tutela ha agito come un maestro severo che correggeva dei compiti senza aver prima spiegato agli scolari le regole cui dovevano attenersi e a cui lui stesso avrebbe fatto riferimento costante. Se a ciò aggiungiamo la mole dei lavori esaminati, la difficoltà di coordinamento tra i diversi attori (componenti delle commissioni, mondo dei professionisti, esigenze dei committenti, interessi e lotte politiche) e la conseguente contraddittorietà di molte decisioni (progetti uguali valutati in modo diverso sia nel tempo che nello spazio), possiamo forse essere stupiti che tutto ciò sia arrivato fino ad oggi senza spargimenti di sangue (e questo è un riconoscimento al senso civico dei trentini)?

Occorre comunque ricordare che poiché il territorio è un patrimonio di tutti e poiché la sua costruzione è opera collettiva di tutta la società, le responsabilità della difficile situazione attuale vanno equamente distribuite fra tutti gli attori sopra elencati, nessuno escluso: dai politici che, pur avendo intuito l’importanza di una gestione del paesaggio, non hanno saputo, salvo finora qualche eccezione, gestirla con lungimiranza; piuttosto l’hanno generalmente abilmente sfruttata o subìta o via via, annacquata; ai tecnici che, ignorando o disinteressandosi della cultura del passato, dell’essenza dell’architettura, dei caratteri e delle esigenze del paesaggio e del territorio, hanno operato nel nome del solo individualismo, con la presunzione (vana, se è da tutti riconosciuta la bruttezza delle nostre periferie e della nostra architettura) di saper e poter costruire da soli il nuovo: architettura, città, paesaggio, territorio.

Non possiamo assolvere nemmeno i cittadini che, privi di un modello consolidato e condiviso (si veda, per contrasto, ciò che si riconosce all’Alto Adige), sono andati a cercarsi a nord e a sud, a est e ad ovest il loro modello edilizio che doveva, in genere, sostituire quello esistente: non amato, perché ricordo di tempi grami, non più all’altezza del benessere attuale o semplicemente nuovo, purché diverso dal "vecchio". Il popolo trentino è dunque, in contrasto con quanto in genere si afferma, un popolo che mostra di non amare molto e di non aver compreso come altri la propria terra. L’esempio più macroscopico è la distruzione della Val di Fassa che, a detta di molti, era la più bella valle delle Alpi.

Se ora dovessero chiederci dell’utilità della tutela dovremmo rispondere: "sì certo, è utile, ma così non più". Sì certo, perché si vede quanto differiscano i luoghi dove c’è stata la tutela da quelli senza. Ogni società ha costruito secondo regole, spesso non scritte ma ancora più profondamente rispettate, richiamandosi a modelli in cui si identificava e di cui era orgogliosa. Per questo tra i valori che vediamo, che conosciamo e che amiamo delle città del passato, emerge, a mio parere, l’omogeneità, l’identità.

Dai sette secoli all’incirca di formazione delle città storiche, grazie a norme comuni e condivise, deriva l’omogeneità di molte città (Parigi, Vienna, Venezia, Firenze...) e di piccoli paesi (Monteriggioni, Asolo, Termenago...). Le disordinate, rilevanti espansioni recenti hanno invece interrotto l’omogeneità originaria, creando un disordine.

E’ vero che l’entità delle trasformazioni, le disponibilità di mezzi, di materiali, di modelli diversi, il breve lasso di tempo in cui sono nate le periferie sono valide scusanti. Ma è anche vero che al punto in cui siamo, con la possibilità di confronto che abbiamo e con la capacità di comprendere dove ci porterà questa espansione, non possiamo rimanere inerti e attendere altri 7 secoli di assestamento e di riqualificazione delle nostre periferie. Bisogna dunque operare subito. E come? Delineando un nuovo modello che dovrà essere conosciuto, condiviso e conseguito con poche, semplici e chiare regole. Al cittadino che chiede l’autorizzazione di poter fare qualche cosa, si dovrebbe sostituire il cittadino che comunica di operare secondo quelle alcune regole che assicureranno l’omogeneità (e quindi l’identità) di paesaggio, territorio, architetture e città, riservandosi comunque quelle libertà e quegli adattamenti individuali sempre presenti nell’architettura tradizionale e storica.

Reinterpretata in questo modo, la tutela potrebbe ridurre carichi di lavoro, tensioni, incongruità, abusivismi e concentrarsi sulla riqualificazione delle commissioni e degli operatori, sul coordinamento, puntando agli obiettivi più prestigiosi e più generali di conservare i valori ambientali e di assicurare continuità al paesaggio (identità) e qualità a quanto di nuovo si costruisce. La tutela dovrebbe dunque dire prima come si deve costruire piuttosto che giudicare dopo quanto viene elaborato.

Per quanto riguarda le prospettive della tutela, prendiamo atto che manca una cultura di costruire nel paesaggio e con il paesaggio a cui concorrono fretta, presunzione, incapacità, incultura, regolamenti astratti e assurdi, spesso in contrasto tra loro perchè espressione di poteri diversi.

Il cambiamento è in realtà ineluttabile: cambia l’uomo, cambia la natura, cambiano le cose.

Cambiano anche le case: si pensi a tutte le costruzioni tradizionali composte da stalla, fienile, locali di deposito. Ridotto il ruolo dell’agricoltura, come si può vivere, oggi, in un fienile, in una stalla, in un deposito senza modificarlo drasticamente e senza che ciò si manifesti? Ecco un altro campo dove servono regole ragionevoli che riconoscano e riescano a equilibrare e a far convivere vecchi valori con nuove esigenze.

Una difficoltà ulteriore viene a complicare il quadro finora esposto: le variazioni del tessuto sociale e le dinamiche contemporanee. Un rilevante flusso di immigrati, provenienti da altre culture, con bisogni diversi, non potrà non lasciare anch’esso un segno sul territorio. Il modello edilizio trentino, così poco compreso, amato e difeso dagli stessi trentini, sarà ancora più estraneo a questi futuri abitanti?

Dovremo quindi decidere se il Trentino, così piccolo, poco popolato, quindi fragile, potrà essere lasciato in balìa di questi influssi o se invece dovrà impegnarsi per mantenere i principali caratteri che fanno l’identità di questa terra e che costituiscono l’omogeneità del paesaggio. A mo’ di esempio: se i dialetti, che erano diversi non solo da valle a valle ma addirittura da paese a paese, saranno destinati alla sparizione, è desiderabile un Trentino in cui si parlerà solo inglese come lingua comune a slavi, arabi e altre etnìe o non sarebbe preferibile una lingua che conservi tracce delle origini e della storia di questa terra?

Identità e pianificazione del territorio 

Possiamo paragonare la nostra urbanistica a un albero cresciuto forse troppo e con un tale groviglio di rami, molti dei quali secchi e con così pochi germogli da richiedere un’energica potatura, per garantirne sopravvivenza, significato e scopo.

In concreto ci sono troppi piani, sono inutilmente complessi, con tempi troppo lunghi di elaborazione, di approvazione; difficili da comprendere, da coordinare, da gestire e da controllare.

Un sociologo, presente nella Cup (Commissione Urbanistica Provinciale) per molti anni, soleva affermare, con arguzia e bonomia, che l’urbanistica trentina "è l’urbanistica del Toni e del Bepi". L’affermazione, nella sua apparente banalità e semplicità, è in realtà densa di significati. Quella affermazione poteva dunque significare: che la nostra è un’urbanistica popolare, che è legata a esigenze e a proprietà con tanto di nome e cognome; che è riferita a una realtà molto piccola e modesta; che è il prodotto di piani modesti.

Leonardo Benevolo ha detto, qualche anno fa: "Se guardate il Trentino dall’alto vedrete che i trentini ci hanno dato dentro a costruire".

In effetti, se osserviamo come si sono dilatati quasi tutti i paesi, l’urbanistica trentina è stata la continua, sistematica aggiunta di nuove aree al centro originario, senza un disegno, senza una forma pensata. Come succede con il domino dove ogni pezzo può essere accostato ad un altro solo secondo una logica ferrea; ma il disegno finale, pur rispettando questa logica interna, può essere di moltissimi tipi: chiuso, aperto, contorto, lineare...

Questa incessante aggiunta di nuove aree ha comportato l’abbandono dei centri storici e il consumo del territorio senza alcuna consapevolezza della sua scarsità. Per questo, per non aver pensato a una struttura viaria rigorosamente diversificata come supporto agli insediamenti, ai collegamenti interni e a quelli internazionali, ci si trova sempre più senza spazio per passare con nuove strade, per allontanare il traffico da altre strade ormai tra le case.

Questo spiega perchè si ricorra tanto alle gallerie come unica soluzione possibile.

Se paragoniamo il piccolo Trentino a un’isola suddivisa in 223 isolette (che sono i comuni), ci rendiamo conto che le nostre risorse territoriali sono molto ridotte. Per questo vanno utilizzate con la massima cura e responsabilità. Un grafico molto eloquente (vedi pagina a fianco) rappresenta l’asta dell’Adige, da Trento a Rovereto, i comuni presenti e il loro territorio.

Su ogni linea il primo quadrato corrisponde alla superficie del centro storico, il secondo alle espansioni recenti, il terzo alle zone agricole pregiate, dette primarie, il quarto alle disponibilità residue, il quinto al bosco.

Se consideriamo, come detto all’inizio, l’identità come un valore, possiamo stabilire che il territorio destinato al bosco, quello destinato all’agricoltura e quello occupato dai centri storici siano, in un certo senso, segni dell’identità trentina, quindi da conservare nei loro caratteri.

Togliendo dal totale anche le espansioni recenti non rimane come utilizzabile che l’area contenuta nel 4° quadratino (bianco), molto ridotta, in certi casi modestissima.

Nel corso degli anni, come si diceva, l’urbanistica ha profondamente modificato la sua struttura: da disciplina ambiziosa che organizzava il territorio e le molteplici attività, spesso contrastanti che vi si svolgono, l’urbanistica è ora divenuta una sorta di semplice e modesto cestino, dove vengono buttati piani settoriali di ogni tipo che pianificano tutto ma che nessuno sa quale disegno complessivo produrranno; sfalsati tra loro, appartenenti a gerarchie diverse, non leggono il territorio e i suoi caratteri nel loro insieme.

Si può paragonare questa situazione all’insieme dei pezzi di un puzzle di cui nessuno però conosce il disegno finale.

A fronte di questa realtà e di questi dati sia pur sintetici, mi sembrano urgentissimi alcuni punti:

Coordinamento: impostare insieme un progetto (o un piano urbanistico) significa individuare i valori da conservare, i problemi e i conflitti, le soluzioni e le modifiche da apportare; significa semplificarne l’esame e l’approvazione; significa creare obiettivi comuni, creare una solidarietà armoniosa, eliminando contrasti e contenziosi.

Verifica dei limiti: per ogni comune e per l’insieme dei comuni (provincia) vanno misurate le disponibilità di suolo residue, distinguendo tra il territorio costruito e quello aperto.

Interventi sull’edificato: dovrebbero riguardare i centri storici (da recuperare integralmente, anche ripensando certi vincoli, più che altro apparenti che reali); quanto costruito di recente, spesso più esteso dei centri storici, è da riqualificare con priorità, secondo criteri nuovi e coraggiosi, demolendo e completando l’edificazione in cambio di un miglioramento architettonico e degli spazi di relazione. Occorrono decisioni chiare e definitive sulla "città invisibile" delle baite, dei ruderi, delle seconde case.

Semplificare la struttura dei piani: la continua suddivisione del territorio in aree e subaree non si traduce né in un piano migliore o più flessibile, né garantisce un organismo urbano vivibile. Occorre ribaltare questa tendenza puntando alla sintesi, individuando priorità e principali punti di riferimento ambientali, infrastrutturali e zonizzativi, permettendo flessibilità e modifiche al resto del tessuto urbano. In questo modo si potrà favorire anche l’integrazione delle destinazioni, rendendo le città più vivibili e riducendo il traffico generato dalle specializzazioni unifunzionali.

Normativa: vanno rivisti gli indici che, se favoriscono il controllo sull’edilizia, non producono buona architettura e belle città. Bisogna semplificare linguaggio e testi e stabilire le qualità del paesaggio che la progettazione deve rispettare.

Decentramento: su questo tema, di particolare attualità, occorre una grande chiarezza. Se esso significa arricchimento, allora è positivo; ma se consistesse in un impoverimento, in una dequalificazione, allora è inaccettabile.

Il decentramento si scontra con l’elevato numero (223) dei comuni, con le loro dimensioni contenute (1.500 abitanti di media), con l’impossibilità dunque di dotarli tutti di apparati tecnici completi, preparati ed efficienti. Poichè beni ambientali straordinari possono ricadere in comuni piccolissimi e per questo scarsamente attrezzati per la loro corretta gestione, il livello provinciale deve garantire il coordinamento e il controllo sulla qualità della pianificazione e sulla sua attuazione.

Anche in questo caso l’innovazione deve essere un dialogo preliminare Provincia-Comune per impostare il piano urbanistico insieme, stabilendo compatibilità e incompatibilità, evitando l’attuale esame-correzione che non può ribaltare un piano mal fatto o fuori tema ma solo tentare di migliorarlo.

Pianificare dovrebbe significare riproporre in forme attuali gli straordinari paesaggi urbani e rurali del passato, perfezionando lo scenario fisico, rallentando le tumultuose trasformazioni, stabilizzando il quadro insediativo e intervenendo su tutta la città. I centri storici, che nascondono i segreti di un metodo da emulare, fanno risaltare ancor più i difetti delle odierne periferie.

Bellezza

Se è vero che l’architettura è una delle massime espressioni della civiltà, quello che abbiamo prodotto non può essere certo avvicinato alla Bellezza. E’ questo il nostro secondo ipotetico compagno di viaggio, nel nuovo millennio che sta per cominciare; un compagno che viene da lontano e che ci sarà finché esisterà l’uomo.

Il ponte di Bilbao: utile e bello.

Pur senza definirla la inseguiamo, la cerchiamo e la amiamo. In questa occasione vogliamo parlare non di quella che, pur minacciata, c’è, ma di quella che manca: nell’insieme di opere infrastrutturali che a quanto pare, sembra, possano o debbano essere esenti da connotati di bellezza. Eppure ci può essere un bel ponte, un semplice ponte e un brutto ponte.

Nel passato, prossimo o remoto, alcune epoche o alcuni movimenti sono stati caratterizzati da una particolare coralità di intenti e da una straordinaria qualità dei risultati: pensiamo subito al Rinascimento, ma potremmo spingerci nella Magna Grecia o, tornando a tempi più recenti, al gotico, al liberty, al neoplasticismo che hanno permeato interi settori e attività umane.

Oggi, e questa è la caratteristica del Novecento, tutto è frammentario e discontinuo, con una inarrestabile perdita delle identità e con una dilagante tendenza alla globalità.

Mancano soprattutto obiettivi comuni a tutta la società, manca il disegno per raggiungerli, manca la consapevolezza stessa dei cittadini.

Se nel passato tutta la società collaborava alla costruzione di una cattedrale, opera che molti non avrebbero mai visto conclusa, oggi noi non sappiamo a quale cattedrale stiamo lavorando ma la vogliamo comunque subito: la rapidità al posto della qualità, l’obsolescenza al posto dell’eternità.

Non siamo più riusciti a creare un grande parco, dopo quelli di fine ‘800, perché lo vorremmo vedere subito e non riusciamo ad accettare l’idea che lo utilizzeranno semmai i nostri bambini.

Far riemergere questa consapevolezza collettiva, di operare insieme alla costruzione di una sorta di nuova cattedrale, è certamente un compito non privo di difficoltà, né operazione programmabile a tavolino, né definita nella sua conclusione. Pare però che non ci siano alternative migliori. E quindi anche per un politico che guardi al domani, diviene questo l’obiettivo di fondo.

Fortunatamente, applicare questo discorso al Trentino può essere, in un certo senso più agevole, per le dimensioni territoriali contenute, per l’autonomia provinciale, per le risorse disponibili.

Quello che finora è mancato è il programma, la volontà di realizzarlo e la capacità di coordinarlo, interessando tutta la società. Il progetto che segue viene esposto in forma incompleta e sintetica, ma sufficiente a delinearne i contorni e i contenuti; è ben consapevole dei limiti e delle difficoltà (specialmente di modificare o di intaccare consuetudini e forme di potere), ma è mosso dalla speranza, dall’ambizione, dalla volontà e dalla consapevolezza che occorra una mobilitazione nuova e collettiva, corale e appassionata per far rinascere il Trentino. Questo non significa dunque coinvolgere solo urbanisti, architetti, ingegneri, artisti, ma anche artigiani, educatori, studiosi e quanti vedano come giusta e opportuna la costruzione di una nuova "cattedrale".

In linea di principio nessuno dovrebbe essere escluso da questa costruzione collettiva; però è possibile individuare alcuni ambiti prioritari, o alcuni territori, o alcune opere.

Per essere concreti sarà opportuno partire da ciò che può essere controllato e coordinato con maggiore facilità come le opere pubbliche.

Opere pubbliche

E'il campo che più si presta per impostare i nuovi concetti prima esposti, per verificarne la fattibilità e i risultati. Le opere e i manufatti pubblici previsti non solo sono di straordinario rilievo quantitativo ma anche qualitativo se solo pensiamo come una strada, un ponte, una ferrovia incidono il territorio, strutturandolo in modo duraturo. Se per molti edifici recenti è ormai quasi una consuetudine parlare di sostituzione dopo 20 o 30 anni, ciò non avviene per le strade: la rete della viabilità romana rimane, ancora oggi, significativa e determinante per molti centri italiani e stranieri.

Nelle opere pubbliche del passato, forse per la consapevolezza della loro importanza, del loro ruolo simbolico anche, della loro durata, del loro coinvolgimento pubblico e della loro rilevanza monumentale e paesaggistica, grande spazio era dato anche alla componente artistica e decorativa. Oggi, al contrario, prevale l’aspetto funzionale e, in certi casi, quello tecnologico.

Eppure si avverte il bisogno di un valore aggiunto, come testimoniano certi flussi di persone per ammirare e studiare, per esempio, un particolare ponte: anche bello, non solo utile.

Pensiamo quanto sia esemplare ciò che avviene nel mondo mitteleuropeo (Sudtirolo, Austria, Svizzera, Germania), ma anche in paesi come Francia, Olanda, Danimarca dove questa cura delle opere e del paesaggio si esprime ad alto livello.

Nel caso del Trentino la densità delle antropizzazioni, la delicatezza del paesaggio, le modeste disponibilità di spazio, e la quantità delle opere previste dovrebbero imporre comunque una ricerca per aggiungere, per dare questo "di più" alle opere previste nei prossimi anni senza oneri finanziari rilevanti (un colore brutto costa come un colore bello), estendendo successivamente l’intervento a quanto già è stato fatto senza questi elementi di valore, secondo priorità e direttrici che tengano conto del flusso dei viaggiatori (e quindi della maggiore o minore visibilità) e dell’importanza ambientale dei luoghi attraversati; così un’opera nella valle dell’Adige sarà certo più osservata di un’altra in Val di Fassa che però ricade in un ambiente più delicato.

Coniugare l’arte con la tecnologia dovrebbe essere l’obiettivo principale del nostro agire.

Con criteri simili bisogna affrontare i desolati piazzali dei parcheggi, sempre più vasti e disumani, tutte quelle costruzioni (capannoni, depuratori...) e quegli spazi esistenti e futuri dove la bellezza viene non ricercata ma bandita, come inutile; mentre è possibile a volte con risorse e sforzi modesti.

I luoghi più frequentati e meno curati

Un altro tema mi preme da tempo: l’attenzione che dobbiamo a luoghi come ospedali, case di riposo (luoghi di dolore) ma anche alle strutture come asili, scuole (dove si trovano i deboli cioè i bambini), carceri (dove si trovano gli sconfitti) o luoghi non curati da nessuno perché, paradossalmente di tutti.

Pensiamo a come sono desolate e deprimenti le sale di aspetto di ospedali, stazioni, i corridoi di uffici, di scuole, dove migliaia di persone passano o sostano senza stimoli visivi, senza qualità di nessun tipo.

Possibile che nessuno riesca a comprendere l’importanza per una città migliore di qualificare anche questi luoghi? Decoratori, artisti, designer, nuove professioni, potrebbero operare ed esprimersi, ricordando ciò che dicevano i greci: ciò che è bello è anche buono.

Dovrei parlare anche di fragilità, il terzo dono da portare dopo identità e bellezza. Ma mi rendo conto che nel caso del Trentino questi sono per così dire sinonimi, in quanto compenetrati l’uno nell’altro: la bellezza di certi nostri paesaggi costituisce l’identità del Trentino ed è contemporaneamente fragilità.

Forse anche per questa integrazione il compito che ci aspetta è gravoso ma esaltante.

Questo articolo è una sintesi della relazione svolta da Enrico Ferrari (direttore dell’Ufficio Centri Storici e Tutela del Paesaggio della Provincia Autonoma) per conto dell’Osservatorio dell’Ambiente nell’ultimo convegno "Il territorio trentino: l’ora di un nuovo patto", tenutosi il 13 dicembre 1999 presso il Museo di Scienze Naturali di Trento.