La Storia si è rimessa in marcia
Il 15° vertice dei paesi BRICS a Johannesburg
Questo agosto 2023 sarà ricordato come un punto di svolta nelle relazioni internazionali a livello planetario. Una sigla non nuova, BRICS, acronimo dei cinque paesi (Brasile Russia India Cina Sudafrica) che tra il 2009 e il 2010 diedero la luce a una ennesima organizzazione internazionale, si sono riuniti il 22-24 agosto a Johannesburg per il loro 15° vertice con grandi programmi e alcune novità preannunciate sui media internazionali con toni improntati a speranze oppure a inquietudini.
Che qualcosa di grosso stesse per succedere si intuiva proprio dalla divisione netta dei commenti dei media: quelli filo-atlantici mostravano spesso malcelato fastidio e un evidente tentativo di ridurre la portata dell’evento. A titolo d’esempio, ancora nel primo giorno del vertice di Johannesburg, i tg italiani riportavano brevemente la notizia in quarta o quinta posizione nella scaletta delle notizie, dopo quelle sulle sparate del generale Vannacci e le vacanze della Meloni. Al contrario sui media dei paesi BRICS e di tanti altri paesi asiatici, africani e sudamericani l’attenzione era vivace e le aspettative enfaticamente sottolineate, per non parlare poi dei numerosi siti internet di orientamento alternativo alle narrazioni dominanti. In ballo, a questo 15° vertice BRICS, erano essenzialmente due progetti:
1. la promozione di una marcata de-dollarizzazione del commercio internazionale tra i paesi BRICS e tra questi ultimi e altri paesi dell’ex-Terzo Mondo;
2. l’allargamento dell’organizzazione a nuovi stati (una ventina le domande di adesione pervenute di cui sei accettate, più una ulteriore ventina di paesi in lista di attesa). I sei nuovi partner, che saranno membri BRICS a pieno titolo dal 1° gennaio 2024, sono: Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia, Argentina. L’allargamento dei BRICS da 5 a 11 paesi è forse l’aspetto più eclatante di questo vertice che sancisce l’evidente ambizione a rappresentare tutti i continenti e soprattutto i paesi emergenti, oltra a quelli di riconosciuta potenza economico-finanziaria come l’Arabia Saudita e gli Emirati.
Ma vediamo gli altri nuovi membri: Egitto e Iran rientrano nella lista delle prime dieci economie non occidentali, l’Etiopia è il secondo paese più popoloso (126 milioni di abitanti) dell’Africa subsahariana e quello col maggior tasso di sviluppo economico; l’Argentina, fortemente voluta nei BRICS dal Brasile nonostante le difficoltà finanziarie in cui si dibatte da decenni, è la terza economia dell’America Latina e possiede i maggiori giacimenti di shale gas di quest’area oltre ad essere il primo esportatore di carne al mondo. Con l’Argentina e il Brasile il cuore del Sudamerica ha scelto di aderire ai BRICS e ciò avviene a dispetto degli USA che da sempre la considerano il loro “cortile di casa”. E altri importanti paesi, come Messico e Venezuela, sono in lista di attesa. Ma indubbiamente è l’adesione dei paesi mediorientali, i signori del petrolio e del gas, Iran e Arabia Saudita in testa (ex nemici di recente riconciliati grazie ai buoni uffici della Cina, il loro primo cliente), a segnare una vera svolta. L’Arabia, fino a poco fa con Israele un alleato di ferro degli USA, ha in sostanza cambiato campo abbracciando per così dire non solo l’ex nemico Iran ma anche Russia e Cina, i due rivali sistemici degli USA. Ma c’è di più: con l’Arabia gli Emirati e l’Iran (e non si dimentichi l’Egitto che grazie anche all’ENI ha recentemente scoperto in mare enormi giacimenti di idrocarburi) i BRICS passano dal 20 a oltre il 43% della produzione mondiale di petrolio. E qui si inserisce un forte motivo di allarme per il cosiddetto Golden Billion (quel “miliardo dorato” di uomini bianchi che vivono i privilegi del primo mondo). Infatti a livello di narrazione il vertice BRICS è stato dominato dal progetto di porre fine al “furto” delle materie prime perpetrato da due secoli di dominio coloniale e postcoloniale. D’ora in poi, è il messaggio di Johannesburg, i prezzi del petrolio e del gas, delle derrate alimentari e quant’altro, non si faranno più solo in dollari, ma anche in rubli, in yuan, in rupie. E soprattutto la massima organizzazione del settore, l’OPEC+ che comprende tutti i grandi produttori mediorientali più la Russia, diviene, dopo la defezione dei Sauditi dal campo filo-atlantico, impermeabile alle influenze del primo mondo a guida USA. La conferma data poi dalla Russia che i paesi africani in difficoltà otterranno gratis il grano di cui hanno bisogno completa la narrazione di questo vertice, che ha in sostanza annunciato il nuovo verbo riassumibile in uno slogan: basta furti, le materie prime sono nostre e i prezzi d’ora in avanti li faremo noi. Ciò vale anche per le terre rare e i metalli rari (uranio, litio, cobalto ecc.), di cui i paesi BRICS detengono ingenti riserve. A partire per esempio da quell’uranio che tuttora, nonostante le sanzioni, gli USA continuano discretamente a comprare dalla Russia e che il Niger invece ha negato all’odiata Francia che se ne riforniva per i propri reattori elettro-nucleari.
Questa nuova situazione rovescia il tavolo da gioco: ancora fino a qualche mese fa certi personaggi dell’establishment industrial-militare atlantico (legati per esempio alla Rand Corporation americana), vaneggiavano sul progetto di smembrare una Russia isolata umiliata e sconfitta nella guerra ucraina, per meglio sfruttarne le immense risorse agrarie ed energetiche; pubblicavano persino cartine geografiche del paese degli zar suddiviso in un dozzina di staterelli in balia delle multinazionali. Per eccesso di zelo l’austriaco Gunther Fehlinger, presidente di un comitato europeo per lo sviluppo della NATO verso est, è arrivato a dichiarare che occorrerebbe spezzettare e balcanizzare tutti i “vecchi imperi”, non solo la Russia ma persino la Cina e l’India, giungendo a dichiarare i BRICS “il nuovo asse del male”.
Ora, dopo Johannesburg, questi folli disegni di mediocri burocrati - forieri di ulteriori tensioni internazionali - sbiadiscono. E non solo e non tanto perché la Russia appare tutt’altro che isolata e quasi nessuno crede più a una sua sconfitta in Ucraina, ma piuttosto perché si è creata ed è stata per così dire ufficializzata al vertice di Johannesburg una contro-narrazione che non si limita a condannare il passato colonialista dell’Occidente, ma criminalizza” anche il presente neo e post-coloniale dominato tuttora dai grandi predatori di Wall Street, i banchieri della City e le multinazionali.
La “de-dollarizzazione”
Sul piano della realtà economica tale contro-narrazione - che fa perno sulla forte denuncia del “furto” delle materie prime - è perfettamente funzionale al progetto BRICS di de-dollarizzazione progressiva del commercio internazionale, il vero spauracchio delle élites atlantiste e dell’alta finanza.
Molte aspettative, prima del vertice BRICS, si concentravano sulla imminente creazione di una “moneta BRICS”, per la quale era stato persino coniato il nome 5R (dalla iniziale delle monete ufficiali dei 5 paesi fondatori: real, rublo, rupia, remimbi-yuan e rand). Ma la scelta dei BRICS ha sorpreso tutti: nessuna nuova moneta all’ordine del giorno, non se ne è neppure discusso, e per due buone ragioni:
1. la sua realizzazione è stata giudicata tecnicamente (e politicamente) prematura e si parla al più (e sottovoce) di una futura R5 come unità di conto o come criptomoneta di là da venire;
2. ma soprattutto una moneta comune “pro tempore”, e realissima, i BRICS ce l’hanno già: è lo yuan cinese. Non a caso la Russia, che ha dirottato in India il petrolio che prima vendeva in Europa, si fa pagare in yuan; la Cina ha ottenuto dall’Arabia Saudita (suo primo fornitore) di poter pagare appunto in yuan; di recente anche il Brasile ha proposto all’Argentina di usare lo yuan al posto del dollaro nel commercio tra i due paesi. Insomma, un po’ di soppiatto, il remimbi o yuan cinese è di fatto divenuto l’alternativa al dollaro e tutto lascia prevedere che quest’ultimo perderà crescenti quote di mercato in tempi relativamente brevi.
La questione della detronizzazione del dollaro, pur non in agenda a Johannesburg, è stata come si intuisce una sorta di sottile e nascosto filo conduttore dei lavori che hanno preceduto il vertice. Ma essa va inquadrata in un altro grande tema affrontato, quello del ritorno ai principi fondativi della Carta delle Nazioni Unite, che volevano fare dell’ONU quello che poi non è mai diventato: il luogo di un concerto tra nazioni poste su un piano di pari dignità che orientano di comune accordo le soluzioni ai problemi del pianeta e promuovono lo sviluppo dei paesi più svantaggiati.
Com’è noto, non è stato così, e non solo perché esiste un Consiglio di Sicurezza con 5 paesi che hanno diritto di veto, e dunque sono più uguali di tutti gli altri, quanto piuttosto perché le due principali istituzioni finanziarie dell’ONU, ossia il FMI - Fondo Monetario Internazionale e la BMS - Banca Mondiale dello Sviluppo - sono in sostanza controllate dall’élite finanziaria anglo-americana, e fanno il bello e il cattivo tempo, concedendo o negando i prestiti secondo criteri più politici che strettamente finanziari-economici. Giova ricordare che la Cina, oltre dieci anni fa, aveva chiesto inutilmente all’ONU di cambiare la struttura direttiva di queste due fondamentali istituzioni, perché venisse rispettato maggiormente il peso dei paesi non atlantici, ovvero dell’ex Terzo Mondo. Ecco, i BRICS sono nati e si sono sviluppati anche in risposta all’ostinato e arrogante rifiuto di modificare lo statuto e la direzione del FMI e della BMS. Ora, la notizia che come si dice in inglese è game changing (ossia che cambia il gioco) è che nel 2022 il volume dei prestiti erogati dai paesi BRICS e dalla loro nuova Banca per lo Sviluppo ha superato per la prima volta il volume dei prestiti concessi dal FMI. Notizia dagli effetti non sottovalutabili, perché questo significa che i paesi più poveri di Asia Africa e America Latina hanno ora una valida alternativa all’FMI che di solito eroga i suoi prestiti in dollari a tassi di mercato e con forti condizionamenti politici di segno intuibile, mentre i prestiti di marca BRICS sono erogati anche in yuan e altre valute minori, a tassi bassissimi (talora persino a fondo perduto) e senza altre condizioni capestro.
Integriamo questa breve disamina dell’impatto del vertice di Johannesburg con qualche dato. Anche senza i nuovi sei stati membri, i cinque paesi BRICS originari con il 26,3% del PIL mondiale già superavano sia pure di poco il PIL dei sette paesi del G7 (USA, Canada, Giappone, Italia, Germania, Regno Unito Francia) e ora, con i nuovi sei membri, arrivano a circa il 30%. Mentre la popolazione del G7 non raggiunge un miliardo di individui, la popolazione dei BRICS (ossia in termini economici: il mercato potenziale di consumatori) supera i 3,7 miliardi, pari al 46% della popolazione mondiale, come a dire: potenzialità di sviluppo enormi. E con i futuri ulteriori nuovi membri (si parla di prossimo ingresso di Indonesia, Messico, Turchia, Congo ecc.) la popolazione dei BRICS dovrebbe superare il 50% di quella planetaria. Della quota di produzione di petrolio dei BRICS-11 si è detto più sopra, un altro dato che giova ricordare è la quota di produzione di grano che, sommando il prodotto cinese indiano e russo ammonta a 300 milioni di tonnellate sui 750 milioni della produzione mondiale (ossia oltre il 40%).
L’unico dato relativamente basso riguarda la quota nelle esportazioni complessive a livello mondiale che, con il BRICS a 11 paesi, sale al 25% (di cui il 15% attribuito alla Cina), cifra importante ma ancora relativamente contenuta, e che tuttavia la dice lunga sulle potenzialità di crescita nei prossimi anni anche di quest’ultima voce, nel nuovo quadro delle relazioni internazionali disegnato a Johannesburg.
Qualcuno ha detto, con qualche evidente esagerazione, che l’ordine mondiale vigente è finito a Johannesburg. Quel che è certo è che le élites atlantiste sono inquiete e preoccupate: la grandezza e la profondità anche teorico-strategica della sfida posta dai BRICS si è evidenziata a Johannesburg come mai prima d’ora. L’Europa e gli USA hanno scoperto che quasi metà del mondo riunito a Johannesburg pensa e in parte già attua concrete alternative al dollaro nel commercio e nei finanziamenti interstatali. Non solo, metà del mondo si fa beffe della NATO, non riconosce né applica le sanzioni alla Russia che, contrariamente alla narrazione dominante sui media occidentali, è risultata a Johannesburg tutt’altro che isolata. Anzi, giocando in contropiede con i suoi alleati, lo zar russo ha messo il mondo di fronte alla nuova realtà di una potente organizzazione alternativa al G7 e all’FMI che rischiano di apparire ormai residuati storici.
A parte le reazioni isteriche di qualche euroburocrate, a parte la miopia o il riduzionismo di tanti commentatori superficiali o scopertamente organici agli interessi atlantici, il governo degli Stati Uniti ha compreso perfettamente la portata della sfida. E ha già dato segno di voler reagire a un evento che ha messo in crisi l’idea di un mondo uni-polare guidato da Washington e che propone al suo posto la costruzione di un mondo multipolare, più giusto nella ripartizione delle risorse e più fedele allo spirito originale della Carta delle Nazioni Unite. La stessa ONU, a ben vedere, è stata implicitamente chiamata in causa a Johannesburg e messa di fronte al suo storico fallimento nell’attuazione dei suoi principi fondativi: giustizia e pari dignità tra le nazioni. Valori spesso calpestati dal dopoguerra a oggi e che i BRICS, forse con qualche eccesso di ottimismo, si propongono di restaurare nell’ottica della cooperazione tra i popoli, non della subordinazione a una potenza egemone. Gli Stati Uniti, pragmaticamente, si stanno rendendo conto ora delle conseguenze deleterie di certe scelte politiche, come il rifiuto di riformare in senso più democratico le istituzioni finanziarie dell’ONU e, soprattutto, la politica suicida di militarizzare (weaponize, alla lettera: rendere o usare come un’arma) il dollaro e le sanzioni. Una delle ragioni profonde della fuga dal dollaro e persino dai buoni del tesoro americani in atto nel mondo, e in particolare tra i paesi BRICS, è stata in effetti lo shock prodotto dal sequestro dei conti correnti e depositi russi in dollari in Europa e America agli inizi della guerra ucraina - non il primo sequestro in verità, avendo patito un trattamento simile anche l’Iran, la Siria, il Venezuela che tuttora subiscono questo genere di vessazioni finanziarie. I paesi grandi e piccoli del mondo hanno cominciato a chiedersi: perché depositare dollari in banche europee e americane se, da un giorno all’altro, ci possono sequestrare i depositi? E se lo hanno fatto con la Russia oggi, perché non potrebbero farlo domani con un qualsiasi altro paese la cui politica estera non garba a Zio Sam? Il vecchio Biden, correndo ai ripari, ha già annunciato una inedita disponibilità a riformare in senso più democratico l’FMI e la Banca Mondiale di Sviluppo e, persino, si parla di sblocco dei fondi iraniani sequestrati da decenni in varie banche dalla Corea del Sud agli Stati Uniti. Iniziative opportune, ma drammaticamente tardive e insufficienti: non bloccheranno certo il flusso crescente dei paesi dell’ex Terzo Mondo (oltre 40 al momento) che aspirano a entrare nei BRICS: ormai i buoi sono scappati dalla stalla.
E la Storia si è rimessa in marcia, mentre l’Occidente è rimasto indietro: il mondo di domani lo stanno facendo i BRICS, non il vecchio G7 del privilegiato Golden Billion. Con buona pace dei teorici della “fine della storia”.