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QT n. 2, febbraio 2021 Seconda cover

Covid, i costi sanitari

Due brevi calcoli “economicisti”: abbiamo davvero risparmiato a voler stare a tutti i costi in zona gialla? E i conseguenti costi sanitari, non è che sono stati finanziati con risparmi sulle cure alle altre malattie?

Alessandro Dal Rì

Fino ad oggi tutto il tema della pandemia è stato giocato nella dialettica pubblica tra due fronti contrapposti. Quello economico e quello sanitario. È stato un confronto/scontro che ci ha accompagnati fin dalla comparsa del virus nella primavera 2020. Sgarbi contro Burioni, destra contro sinistra, Regioni contro Stato: aprire, per permettere alle attività economiche di prendere fiato, allontanando così la minaccia di chiusure e licenziamenti a tappeto, o chiudere quanto necessario per evitare il più possibile decessi e scongiurare il collasso delle strutture sanitarie, così da poter garantire a tutti l’adeguata copertura sanitaria. Ci troviamo di fronte al classico caso della coperta troppo corta: in qualsiasi direzione la si tiri, si finisce per lasciare scoperta (e causare danni da far tremare le vene nei polsi) nella direzione opposta.

In realtà, ci sarebbe stata anche una terza opzione, quella di allungare il più possibile quella coperta. Attraverso un forte potenziamento, in preparazione della seconda ondata, delle strategie di tracciamento, del numero dei tamponi da poter impiegare, e delle strutture sanitarie. Questo fattore, molto meno preso in considerazione dall’opinione pubblica, è stato di conseguenza fortemente sottovalutato anche dai decisori politici.

Ma quello che vogliamo provare a fare qui, in modo molto parziale perché purtroppo, ad oggi, risulta difficile fare una ricostruzione precisa, è un’analisi di tipo “economicista” che deriva da questo gioco del tirare la coperta da una parte o dall’altra. Perché se è vero che le chiusure causano dei buchi nella nostra economia, anche le cure negli ospedali sono estremamente onerose per le finanze pubbliche, benché gratuite al cittadino.

Per provare a fare questo calcolo ci siamo basati su uno studio condotto dall’Università Cattolica sulle stime di costo regionalizzate. La base dello studio è la tariffa DRG (Diagnosis Related Group) per il coronavirus calcolata dal Sistema Sanitario Nazionale, ossia il costo medio di un ricoverato per coronavirus in un ospedale italiano.

Lo studio, fatto per la prima volta a maggio 2020 e il cui ultimo report è del 19 novembre 2020, calcolava per quanto riguarda il Trentino, per 9.372 dimessi guariti e 377 deceduti in ospedale, una spesa totale di circa 83 milioni, cifra che include ricoveri, medie intensità, alte intensità e terapie intensive. Questo è un dato grezzo, che riguarda solo l’aspetto strettamente sanitario e che non tiene conto delle spese organizzative extra, come ad esempio nuove assunzioni, DPI per gli operatori sanitari, riorganizzazione dei reparti, centro organizzativo anticovid, approvvigionamento di medicinali molto richiesti sul mercato, eccetera. Queste spese sono difficilmente ricostruibili ed il calcolo preciso lo potrà fare solo l’Azienda Sanitaria Provinciale, facendo il conto reale delle spese effettuate.

Quello che possiamo stabilire con un certo grado di tranquillità, è come essendo questo report fermo a novembre e mancando dentro di esso, come detto, il surplus di spesa organizzativa, il covid al Trentino è costato sicuramente più di 100 milioni di euro in termini di assistenza sanitaria, escludendo le spese legate al tracciamento e ai tamponi.

Volendo fare un paragone su ordini di grandezza, va tenuto presente che il bilancio della Provincia di Trento previsto nel 2019 per il 2020 era di circa 4,4 miliardi (con spesa per la sanità di 1,3 miliardi circa) a fronte di un PIL trentino di circa 19 miliardi, che ha subito nel 2020 un poderoso rallentamento (-11%).

Pur con questi numeri alla mano, risulta in ogni caso molto complicato - se non impossibile - stabilire con esattezza, da una parte, il costo sanitario effettivo di quei ricoverati in più scaturiti dalla mancata zona rossa (o arancione) di novembre e dicembre e, dall’altra, il beneficio economico di avere tenuto aperto i bar fino alle 18 per qualche settimana in più in quello stesso periodo. Quello che salta all’occhio e che deve stimolare la nostra riflessione è un’altra cosa.

Considerando infatti che nei primi giorni di dicembre 2020, l’assessora alla Salute Stefania Segnana ha finanziato il sistema sanitario provinciale con 65 milioni in più rispetto al preventivato, capiamo che qualcosa non torna, a fronte delle spese che il solo coronavirus è venuto a costare alla nostra Azienda sanitaria nel corso dell’anno appena concluso.

Se dalle stime contenute nello studio della Cattolica, molto serie e in linea con diversi altri approfondimenti sulla questione, viene fuori che le maggiori spese per la nostra sanità causa Covid-erano di 83 milioni solo a novembre e solo considerando la parte esclusivamente sanitaria, mentre noi abbiamo finanziato la nostra APSS con soli 65 milioni, da che cosa abbiamo “tolto” le risorse che mancano?

La spiegazione, che sembra suffragata anche dalle segnalazioni che arrivano da molti cittadini e anche da qualcuno che lavora nella sanità trentina, sembra questa: da diversi servizi, controlli, esami e cure per patologie non correlate con il coronavirus.

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