“67° Trento film festival”
Più umanità che eroismi
Il comunicato stampa del palmarès del 67° Film Festival di Trento 2019 elenca l’assegnazione di diciotto premi a sedici film diversi. Solo due film hanno ricevuto due premi. Se ne può dunque dedurre la presenza di una grande quantità di lavori meritevoli. E poi ci sono film che non hanno ricevuto premi, e invece a mio avviso meritavano, come ad esempio: “Return to Mount Kennedy” di Eric Becker. Nel 1965 Jim Whittaker, primo scalatore americano a conquistare la cima dell’Everest, condusse Robert Kennedy, che in montagna non era mai salito, sui 5000 metri di un picco dello Yukon che il governo del Canada aveva intitolato in omaggio al fratello JFK. Cinquant’anni dopo, i rispettivi figli, molto meno epici, tornano su quella montagna. Una storia piuttosto banale e non così avventurosa, ma l’intreccio di politica, alpinismo, diritti umani, ecologia, amicizia, rispetto e ricordo è così struggente ed evocativo da toccare profondamente. I colori dei super 8 degli anni Sessanta, il rosso della giacca a vento di Robert sul bianco della neve e l’azzurro del cielo sono il riflesso di un’epoca della sua gioventù, delle speranze, degli ideali e delle sue intense passioni.
Niente premio nemmeno per “Piano to Zanskar” di Michal Sulima, che racconta di Desmond O’Keffe, accordatore di 65 anni che, come ultima consegna prima della pensione, decide di portare un vecchio pianoforte da Londra nel cuore dell’Himalaya indiano per regalarlo ad una scuola elementare. Una sfida con se stesso e con la natura vinta in un mix di coraggio, follia, fatica ed ironia. Bel racconto con finale molto commovente.
Riguardo ai premi, la Genziana d’oro è andata al film francese “La grand-messe” di Valéry Rosier, Méryl Fortunat-Rossi, un curioso ritratto di pensionati tifosi di ciclismo che si posizionano in camper, con due settimane d’anticipo, sul Colle dell’Izoard, mitica salita del Tour de France. Un film di persone più che di montagna e di sport, un film di varia umanità, memorie e rituali, mangiate e confessioni. Un premio piuttosto irriverente.
Dell’austriaco Nikolaus Geyrhalter è il documentario “The Border Fence”, girato a cavallo del passo del Brennero, che ha ricevuto il Premio della Giuria, della quale condividiamo le motivazioni: “Un saggio preciso sul presente. Un forum di confronto tra opinioni, che accoglie la voce dei cittadini, li osserva al lavoro, costruisce un possibile popolo e ascolta un coro discordante di parole e impressioni sul tema dei migranti. Un grande film politico, complesso e contraddittorio, che si contrappone al discorso politico semplificato trasmesso dai media”. Memorabili le ultime due sequenze. Nella penultima un allevatore tirolese nella sua stalla esprime concetti etici e politici profondi con disarmante limpidezza e semplicità, mentre col forcone foraggia le sue vacche. Nell’ultima tre doganieri austriaci controllano in alcuni container lo stato del materiale (reti metalliche, pali…) inviato due anni prima per fronteggiare la supposta invasione di immigrati transitanti dall’Italia. Rappresentazione lampante delle paure manipolate dai politici e artificiosamente ingigantite dai media, cui la maggior parte della popolazione è avulsa.
Menzione Speciale della Giuria per “Beloved” del regista iraniano Yaser Talebi, che ritrae un’ottantenne allevatrice sulle montagne dell’Iran. Sola ed isolata, la straordinaria Firouzeh vive l’alpeggio con le sue mucche alle quali è legata come fossero suoi figli. Notevole la capacità del regista di mantenere ritmo e curiosità, pur mostrando solo le semplici pratiche quotidiane di lavoro e sopravvivenza della protagonista. Ancora un inno all’umanità che in questo caso prende pieghe poetiche.
Sarà stato forse un caso, una serie di coincidenze nella selezione dei film visti, ma la mia impressione complessiva è quella di un’edizione più centrata sugli uomini e le donne comuni della montagna che sugli eroici sportivi, su riflessioni e fatiche reali, piuttosto che su quelle competitive. Beh, meglio così.