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“Trento Film Festival 2018”: tre film

"Mountain", "Iceman"e "Il grande silenzio"

“Iceman”

Dopo la visione del primo documentario, al Trento Film Festival 2018 potevo anche non andarci più. Non tanto perché il film, dall’iconico titolo “Mountain”, fosse così eccelso da rendere immeritevole di visione qualunque altro, e nemmeno il contrario, così brutto da far perdere qualsiasi interesse. Piuttosto perché il film è una sintesi esaustiva di tematiche e riflessioni da diversi anni frequenti al Festival. Diretto dall’australiana Jennifer Peedom, il documentario è un montaggio di sequenze tratte da tanti altri lavori, per un percorso che ricostruisce la percezione e il rapporto dell’uomo con la montagna negli ultimi tre secoli. Prima luogo sacro di mistero e pericolo, poi attraente territorio di avventura e sfida con avversari da sconfiggere. Infine oggi: teatro di svago, enorme parco di divertimento dove mettere alla prova il proprio egotismo quasi mortale. In sintesi estrema: da mystey a mastery.

Ma la montagna è indifferente all’uomo, conclude il film, al nostro animismo, alla sensibilità estetica, alle sfide, all’adrenalina, alla ricerca di identità e filosofie esistenziali nell’impresa di conquista. La montagna è esistita e esisterà anche dopo di noi. La sua natura, la sua forza permangono nella loro magnificenza ben oltre le nostre riflessioni e i nostri sentimenti. Questo ci dicono le sequenze finali di una natura potente: agenti atmosferici, ghiacciai e vulcani.

Un excursus denso, spettacolare tra immagini contemplative e vertiginose, ralenti affascinanti e accelerazioni alla “Koyaanisqatsi” di Godfrey Reggio. Efficace e imprevedibile nella combinazione di sequenze e colonna sonora di Richard Tognetti (originali), Vivaldi, Beethoven, Arvo Pärt... Ma soprattutto oltre la solita retorica il testo dello scrittore inglese Robert Macfarlane, con narrazioni e riflessioni recitate fuori campo dalla voce dell’attore Willem Dafoe. Certo, non mancano contemplazione estetica, sequenze vertiginose e tutti i sentimenti umani per la montagna. Quindi da che pulpito questo eterno ritorno… non a caso ha poi vinto il Premio del pubblico Miglior Film di Alpinismo.

Ma il festival è vario e vale la pena esplorarlo in altre sezioni.

Per chi ama il cinema, ancor più della montagna, ci sono ad esempio le anteprime. Tra queste è passato piuttosto inosservato “Iceman” del regista tedesco Felix Randau, ma di produzione italo-austro-tedesca. Forse perché non era un’anteprima vera e propria, in quanto già proposto a Bolzano nel novembre scorso. Il film, scritto dallo stesso regista, porta sul grande schermo un possibile racconto degli avvenimenti che hanno portato alla morte di Ötzi, la mummia ritrovata 26 anni fa nel ghiacciaio del Similaun in Val Senales. Quindi un film d’avventura in cui, molto più degli accadimenti, contano la curata e credibile ricostruzione del neolitico: i possibili comportamenti degli abitanti, i costumi, la ricostruzione degli ambienti dell’epoca (cosa rarissima nel cinema di finzione). Privo di dialoghi intellegibili, le vicende del film sono animate da autentiche e crude scene d’azione che trasportano lo spettatore nel mondo preistorico ricostruito nei panorami delle Alpi altoatesine. Con le giuste aspettative il film funziona.

Tra le proiezioni speciali, anche queste più per cinefili che montanari, valeva la pena andare a vedere “Il grande silenzio”, spaghetti-western sessantottesco di Sergio Corbucci.

A mio avviso, nel genere, ci sono la trilogia del dollaro di Leone e poi, molto molto distanziati, tutti gli altri, per qualità cinematografiche, per sceneggiature, recitazioni, costumi, colonna sonora, e mille altri elementi. Questo film però, rispetto ad altri, presenta svariati elementi curiosi e originali: anzitutto è ambientato nelle bianche montagne al confine tra Messico e Stati Uniti (in realtà del Cadore). Il protagonista Jean-Louis Trintignant non dice una parola, perché è muto e, soprattutto, viene ucciso nel finale. Vincono i più cattivi (rappresentati da Klaus Kinski) e comunque di buoni non ce ne sono. La protagonista femminile è afro-americana e la colonna sonora, di Morricone, particolarmente urticante. Per il resto la solita enfasi e crudeltà del genere, ma senza spacconate e un pessimismo che ricorda il crepuscolarismo di certe opere di Sam Peckinpah. Non è poco.