Libertà d’inquinare
La giustizia condanna definitivamente inquinatori “avvezzi ad ingannare” la pubblica amministrazione; e la Giunta Rossi li rifinanzia per un “progetto di ricerca”. L’Appa non effettua controlli seri, e ancora la Giunta si oppone alla legge nazionale che impone direttori di “elevata professionalità e qualificata esperienza”. E’ la politica della clientela e del profitto più importanti di salute e ambiente.
Mettiamo in fila alcuni fatti accaduti nel corso di questi ultimi mesi, tra Roma, Trento e la Valsugana. E vediamo come l’amministrazione provinciale sembra aver perso del tutto la bussola in termini di protezione ambientale: e attenzione, non parliamo di paesaggio, su cui magari le sensibilità possono essere diverse, ma di salute. In merito alla quale, una volta stabilite le basi scientifiche, si dovrebbe essere tutti d’accordo (a parte beninteso gli speculatori, quelli che “ridono nel letto” quando sentono la notizia di un terremoto, e in questo caso quando si parla di ripristino ambientale).
Dunque, prima notizia: la Corte di Cassazione ha confermato e reso definitiva la sentenza di condanna di Boccher Franco e Luciano, rei di aver effettuato in località Visle in Valsugana un ripristino ambientale (in parole correnti, una bonifica) utilizzando materiale di scarto dell’acciaieria di Borgo, gravemente inquinato (in particolare dal cromo in quantità superiore al 750% del massimo ammesso dalla legge), senza adeguate opere di salvaguardia, scaricando quindi gli inquinanti addirittura “a contatto con l’acqua di falda, che nell’area è affiorante” recita la sentenza.
Il Tribunale è particolarmente severo con i Boccher, “avvezzi ad ingannare” la pubblica amministrazione, attraverso “tecniche di aggiramento dei controlli” come “doppie bolle di consegna da usare in caso di controlli”, “miscelazioni non consentite di rifiuti” spacciati come terre residuate e “cedute ad ignari privati” (quindi con ulteriore diffusione degli inquinanti). Non solo: i Boccher “‘addomesticavano’ le analisi” avendo “piena consapevolezza delle reali caratteristiche delle scorie” e quindi ponendo “in essere ogni stratagemma possibile per occultarle”. E per di più sono recidivi, essendo questa la seconda condanna per reati ambientali.
Bene, si dirà, la magistratura almeno funziona. Gli enti pubblici, che si sono fatti turlupinare da siffatti “operatori ambientali” sapranno trarne le conseguenze.
E qui invece casca (forse sarebbe meglio dire, ricasca) l’asino.
Perché la Giunta Rossi, che fa? Da’ una strigliata all’Appa, l’Agenzia di Protezione dell’Ambiente che non si era accorta di niente (o peggio, come vedremo)? Rivede in qualche maniera i meccanismi di controllo?
No, niente di tutto questo. Anzi – e questa è la seconda notizia - fa l’esatto contrario. Premia i Boccher. Quelli “avvezzi ad ingannare” a “aggirare i controlli” ad “addomesticare le analisi”, che infilano una condanna dopo l’altra.
Possibile? Purtroppo sì. Con delibera 1297 del 2015 (quando, è vero, non c’era ancora la definitiva sentenza della Cassazione, ma già c’era stata la condanna del Tribunale) l’assessore Alessandro Olivi concede un contributo di oltre mezzo milione (524.830 euro, per la precisione) alla Boccher Luciano srl, rappresentata da Boccher Franco (sono padre e figlio, entrambi condannati) perché conduca un progetto di ricerca denominato “Recupero ed inertizzazione di rifiuti industriali con studio e messa a punto di nuovi prodotti ecocompatibili”.
Incredibile.
Si potrebbe pensare: siamo di fronte a un caso di evidente dabbenaggine. La giunta Rossi si fida dell’assessore, l’assessore Olivi si fida dei suoi tecnici, qualcuno tra questi non ha fatto le opportune, minimali verifiche, ed ecco spiegata la sciocchezza di finire con il finanziare gli inquinatori, peraltro “avezzi ad ingannare”, perché studino nuovi metodi di disinquinamento, anche se, finora, il disinquinamento lo hanno fatto spargendo veleni nella falda.
Se fosse così, se la colpa fosse tutta addebitabile a qualche tecnico pasticcione dell’amministrazione, sarebbe pur sempre una cosa grave. Perché vorrebbe dire che Rossi, Olivi & C non sanno quello che sottoscrivono. In poche parole, sono degli incapaci.
Per noi invece le cose stanno diversamente. Perché, purtroppo, c’è del metodo in questa follia.
E il metodo consiste nel tenace, costante “atteggiamento negazionista” di fronte ai segnali di inquinamento, e “protettivo nei confronti delle aziende inquinanti” (come recita un documento dei Medici per l’Ambiente) da parte della Provincia e delle sue strutture.
In otto anni infatti, abbiamo avuto da una parte proteste dei cittadini e inchieste ambientali della magistratura, tutte finite con sonore condanne, dall’altra la costante inerzia, minimizzazione da parte della Provincia, sia nei suoi organi politici che in quelli tecnici, sbugiardati dagli esiti processuali.
In mezzo c’è la popolazione della Valsugana, la cui salute non è stata adeguatamente protetta.
Ricordiamole queste inchieste.
- L’ex cava di Monte Zaccon, sito di ripristino ambientale divenuto di fatto discarica di rifiuti non conformi tra cui scorie provenienti dalla vicina Acciaieria Valsugana nonché terre provenienti dalla bonifica di siti contaminati da prodotti petroliferi, ad opera dell’Ing. Simone Gosetti titolare della Ripristini Valsugana, condannato in via definitiva a un anno e due mesi.
- Illeciti legati all’attività della stessa Acciaieria Valsugana, autorizzata dalla Provincia Autonoma di Trentoad emissioni fino a 1000 volte quelli imposti dai limiti europei di riferimento oltre ad altri reati quali sversamento di inquinanti nelle acque pubbliche, emissioni diffuse non controllate, falsificazioni di analisi, autorizzazioni accondiscendi, smaltimenti illegali di polveri d’abbattimento fumi.
- Inchiesta Ecoterra a carico di Boccher Franco e Luciano per sversamento di materiali inquinanti provenienti da attività industriali (sempre l’acciaieria) in tutto il territorio della valle in siti privati (orti, abitazioni, discariche abusive etc)
Tutte queste inchieste (giunte tutte a sentenza di condanna a vario titolo) sono state condotte per conto della procura di Trento tramite le indagini del Corpo Forestale dello Stato, Stazione di Enego, quindi un organismo extra provinciale, a seguito della assoluta immobilità del corpo forestale provinciale e dei dipartimenti ambientali della PAT.
Si è anzi giunti a una preoccupante divaricazione. Da una parte l’attività di comitati di privati cittadini fra i quali la locale sezione dell’ISDE (Medici per l’ambiente), l’associazione Valsugana attiva, il comitato 26 gennaio, che con mobilitazioni e dibattiti, ma anche con studi scientifici (pubblicati su autorevoli riviste scientifiche e sottoposti al giudizio di revisori terzi, i referees) e con analisi indipendenti, facevano emergere i dati sull’inquinamento doloso del territorio e i danni per la salute che ne derivavano (ad esempio uno studio sulla mortalità e morbilità degli operai dell’impianto di Borgo). E dall’altra il muro di gomma dei dipartimenti ambientali della PAT, sempre sordi alle pur numerose segnalazioni e soprattutto inclini, in un’ottica per cui qualsivoglia attività produttiva è da salvaguardare sempre e comunque, a ricondurre ogni atto amministrativo a difesa degli interessi degli imputati. Imputati che poi il giudizio della magistratura ha dichiarato essere degli inquinatori. Per cui il paradosso: l’attività ambientale della Pat è consistita nel proteggere l’inquinamento.
Ci rendiamo conto della gravità di questa affermazione.
Che però è sacrosanta, visti gli avvenimenti, ed è tutta politica. Nel senso che non affermiamo che politici e dirigenti abbiano favorito gli inquinatori perché abbiano intascato mazzette o altre utilità; ma perché nella loro cultura il profitto (e l’occupazione anche in lavori insalubri) viene prima della salute e dell’ambiente.
È in questa cornice che va inserita la terza notizia. A Roma è stato istituito un Sistema Nazionale di Protezione dell’Ambiente, di cui fanno parte tutte le agenzie ambientali regionali e pure delle province autonome, e vengono stabiliti standard di funzionamento e politiche di trasparenza e di assunzione. Contro queste norme insorge la Giunta Rossi, che ai primi di settembre deposita un ricorso alla Corte Costituzionale in quanto lesive “delle prerogative dell’Autonomia”. In successive interviste l’assessore all’ambiente Gilmozzi spiega meglio il suo pensiero: “nessuno nega la validità dei principi generali della norma e gli obiettivi di uniformare e mettere a sistema le attività delle Agenzie”. Quello che Gilmozzi contesta è che la legge entri “nei campi delle modalità organizzative e finanziarie dell’Agenzia” in soldoni che Roma vorrebbe che le varie Arpa e Appa, tra cui quella trentina, non siano una dependance della Giunta provinciale, ma enti autonomi. Qui Gilmozzi gonfia il petto: “Noi non siamo un ente decentrato del governo, siamo una provincia autonoma! È una questione di principio!”
La tirata gilmozziana vuol dire che il governo provinciale non vuol rinunciare a tenere sotto stretta osservazione, con briglia cortissima, l’Agenzia del controllo provinciale. È da anni che in tanti, tra cui QT (vedi “Controlli ambientali: la riforma che non può più aspettare” del settembre 2014) sostengono che il sostanziale fallimento della politica di prevenzione dell’Appa, certificato da tutte le inchieste giudiziarie qui menzionate e altre (da cui tra l’altro è emerso, attraverso illuminanti intercettazioni telefoniche, che è uso di siffatti controllori preavvisare telefonicamente il controllato: “Guardate che domani veniamo ad effettuare i controlli”) è dovuto alla totale subordinazione dell’Agenzia alla politica, che mal sopporta che questioni ambientali incrinino i rapporti con elettori e clienti. Di qui la richiesta, di scienziati, ambientalisti, medici, di sciogliere questo vincolo, e rendere l’Agenzia autonoma.
A Roma il governo procede in questa direzione; e allora a Trento la Giunta si oppone. In nome dell’Autonomia, naturalmente; ma chi è che la calpesta?
Se poi qualcuno avesse dei dubbi, basta leggere le ulteriori motivazioni di Gilmozzi. Il quale protesta perché “il legislatore nazionale declina i requisiti di imparzialità dei direttori generali delle Agenzie ambientali”. E addirittura “la norma richiede, per i direttori generali, un’elevata professionalità e la qualificata esperienza nel settore ambientale.” Ma a Roma sono pazzi a pretendere cose del genere? “Queste disposizioni sono in contrasto con le competenze delle Province autonome a disciplinare la propria organizzazione amministrativa.”
Insomma, Gilmozzi, voce dal sen sfuggita, dice senza pudore la verità: noi vogliamo poter nominare degli incompetenti, che siano costretti ad ubbidirci. Questa è l’Autonomia.
E allora il cerchio si chiude. Se mettiamo insieme i vari tasselli vediamo che proteggere gli inquinatori, rifinanziarli, impedire controlli seri, non è una serie di casi sfortunati, ma un metodo di (sotto) governo.