Ultime dalle Acciaierie di Borgo
Hanno versato mezzo milione di euro per salvaguardare la fedina penale. Ma i problemi rimangono.
Il 9 novembre di quest’anno l’Acciaieria Valsugana ha deciso di avvalersi del diritto di oblazione, arrivando quindi ad una sostanziale ammissione di colpa, per quel che riguarda il reato di getto pericoloso di cose. Ne usciranno tutti puliti, con un esborso di mezzo milione di euro, e la loro fedina penale non sarà infangata dal temibile reato (unica imputazione per quanto riguarda l’inquinamento dell’acciaieria). Rimane aperta la questione circa il reato di falso, comunque non da poco, la cui udienza è fissata per il prossimo 26 gennaio. Eppure le questioni da risolvere sono molte, e riguardano ancora l’inquinamento.
Sulla prima pagina del sito dell’Acciaieria Valsugana c’è un’immagine che ritrae una bambina innocente che soffia un dente di leone in un bellissimo prato, mentre alla sua sinistra campeggia la scritta “A green steel factory”, un’acciaieria ecologica. Certo, metterci la foto di una bimba in lacrime che fugge da un nuvolone di particolato cancerogeno non sarebbe stata una grande operazione di marketing, ma sarebbe stato più onesto.
Dopo le poco sincere rassicurazioni dell’APPA (Agenzia Provinciale per la Protezione dell’Ambiente), che sottoponeva l’acciaieria a controlli preannunciati alla fabbrica, cosicché non c’era mai traccia di irregolarità (e quando venivano rilevate, l’azienda faceva finta di niente, vedi accusa di falso), sono stati apportati degli adeguamenti agli impianti, che però appaiono insufficienti, tali da non consentire all’acciaieria di autodefinirsi una fabbrica “verde”.
Eppure, in linea teorica, va tutto bene, anzi più che bene.
Tutto va ben, madama la marchesa
Innanzitutto, la legge prevede l’obbligo da parte della fabbrica di abbattere il 98% delle emissioni primarie (e cioè, nel caso dell’acciaieria, i fumi captati dai filtri durante la fusione, quando il forno è chiuso). Questo limite viene ampiamente rispettato dalla fabbrica, e per fortuna, perché rilasciare il 2% delle emissioni nell’aria significherebbe inondare gli abitanti di Borgo Valsugana di una tonnellata di polveri nocive ogni due-tre giorni.
Appurato dunque che la normativa vigente è inadeguata, va riconosciuto che l’acciaieria abbatte circa il 99,6% delle sue emissioni primarie, avendo tecnologie a disposizione superiori a quelle degli anni Ottanta, previste per legge.
In secondo luogo, anche durante i controlli più recenti, l’acciaieria parrebbe quasi a norma persino per quanto riguarda le emissioni secondarie, e cioè quei fumi che “scappano” a forno aperto, o magari durante altri processi che non prevedano l’utilizzo del forno. Diciamo “quasi” perché qualcosa da aggiustare c’è, ma niente di critico, almeno secondo la scrupolosa relazione di Angelo Borroni, consulente tecnico del Giudice per l’Udienza Preliminare. Purtroppo i sopralluoghi di Borroni venivano largamente preannunciati, stavolta secondo le regole di un’inchiesta giudiziaria.
Veniva fuso rottame pulito, le emissioni erano ridotte al minimo, e tutto filava liscio. Nonostante questo, Borroni evidenzia più volte come, in caso di guasti al sistema che isola il forno (dog-house), l’impianto non sia in grado di smaltire le emissioni secondarie e rilasci quindi sostanze altamente inquinanti tanto nella fabbrica quanto nell’atmosfera, ma che tuttavia, avendo i guasti una bassissima incidenza statistica, con qualche accorgimento il problema si risolve. Per quanto riguarda invece quei due-tre chilogrammi l’ora di polveri sotto forma di emissioni diffuse, come scrive lo stesso Borroni, “sono da ritenere per nulla critiche, ma potranno risultare mitigate con l’intervento impiantistico di ottimizzazione della captazione dei fumi secondari previsto per il forno”.
Detto questo, la spensieratezza con cui la bambina soffia sul suo dente di leone sembra più che giustificata.
Purtroppo però, non lo è. Le emissioni secondarie (o diffuse) dipendono in maniera significativa dalle condizioni di operatività della fabbrica. Più nel dettaglio, dipendono in modo diretto dal tipo di rottame ferroso che si va a colare (se impuro, inquina di più), e in modo indiretto dalla quantità di rottame che gli operai devono fondere, visto che, per aumentare la velocità delle operazioni di carica, il forno può rimanere aperto a lungo, permettendo così ai fumi tossici di invadere il capannone e fuoriuscire poi nell’ambiente senza prima passare per i filtri. Alla luce di ciò, risulta evidente come una perizia giudiziaria programmata non possa registrare le condizioni in cui la fabbrica abitualmente opera. Basta fare i bravi per un giorno, e poi tornare placidamente a inquinare.
Insomma, tornando alla perizia di Borroni, quelli che egli poteva vedere soltanto come guasti e che causavano una prolungata assenza di “isolanti” tra il forno e il resto della fabbrica, diventano in realtà la norma quando la direzione decide di ridurre i tempi di produzione o i costi, come testimoniato da alcuni operai. In quelle condizioni, la già deficitaria aspirazione “secondaria”, va completamente in crisi. Tutto questo è anche rilevabile dalla semplice osservazione sia della fabbrica durante il giorno, sia di alcuni video presenti sul blog di Trento Attiva (www.trentoattiva.it), in cui vengono riprese grandi fumate che fuoriescono dal capannone e non dal camino predisposto.
Le conseguenze
I primi a subire le conseguenze di tutto questo sono ovviamente gli operai. La continua presenza di fumi altamente inquinanti dentro la fabbrica non può che ricadere sulla loro salute. Da uno studio svolto dal dottor Cappelletti su 35 cartelle cliniche appartenenti a soggetti che hanno lavorato all’interno dell’acciaieria per almeno un anno (nel periodo che va dal 1984 al 2009), emerge che su ventidue decessi degli operai di cui si conosce la causa di morte, ben dieci erano causati da tumore (45%) a fronte di una percentuale provinciale del 33%; e ben sei decessi per tumore polmonare (27%), a fronte di una media provinciale dell’8%.
Questi dati, tuttavia, sembrano trascurabili persino ai diretti interessati. Gli operai dell’Acciaieria Valsugana percepiscono stipendi superiori alla media, e difficilmente potrebbero trovare un lavoro che richieda una bassa qualifica ma che garantisca al contempo un lauto salario, come dimostrano le lotte sindacali svoltesi nel 2001 contro la chiusura della fabbrica. Il rischio è ben remunerato, e gli operai, che pure conoscono bene i problemi circa le emissioni all’interno dello stabilimento, accettano la loro condizione per non vedersi costretti a lasciare il posto di lavoro per trovarne un altro (se va bene) sicuramente peggio retribuito.
Ma non sono solo gli operai a sciropparsi il particolato cancerogeno emesso dalla fabbrica. Un recente studio condotto sui muschi della zona da Pierluigi Iobstraibizer, professore di Geochimica all’Università di Padova, mostra come nei dintorni della fabbrica, e sino a ben quattro chilometri da essa, si possano rilevare tracce di particolato riconducibile all’acciaieria. Se è vero che le sferule di acciaio depositatesi sui muschi studiati dal professore potrebbero anche riferirsi a periodi antecedenti alle ultime modifiche nell’impianto (e quindi non più prodotte allo stato attuale), questo non si può dire per le misurazioni condotte da settembre a novembre di quest’anno, che hanno dimostrato come forme di particolato prodotte esclusivamente dall’acciaieria siano tutt’oggi presenti nell’atmosfera. E si tratta di un particolato particolarmente nocivo (PM10), la cui presenza nell’aria è scientificamente correlata ad un aumento delle malattie respiratorie nelle popolazioni soggette.
Mentre quindi possiamo dire con certezza che l’Acciaieria, nonostante tutte le modifiche all’impianto, inquina ancora, meno si può dire circa l’entità del danno provocato all’ambiente, essendo difficilissimo stimare in modo preciso le emissioni secondarie.
Non rimane altro che attendere, quindi, l’udienza fissata il 26 gennaio per il reato di falso, in cui sono coinvolti anche quattro funzionari dell’APPA. Fortunatamente per questo tipo di reato non è prevista la possibilità di oblare.