Trento al tempo dei locali
Poche (e difficili) iniziative meritorie, vicini arrabbiati e una vacua politica dei proclami da parte del Comune.
“Le menti delle persone sono come paracaduti: funzionano solo se aperte”. La frase è attribuita talvolta a Frank Zappa, talvolta ad Albert Einstein. Pare invece che l’aforisma appartenesse a James Dewar, fisico e chimico britannico. O forse all’omonimo Thomas Dewar, suo contemporaneo produttore di whisky scozzese. Poco importa, in fin dei conti.
È certo invece che Albert Einstein sosteneva che solo due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana; e si diceva non troppo sicuro della prima. Appunto. Così, spesso si dice dei trentini che sono “chiusi”. E se il problema fosse un altro, e non riguardasse solo i trentini? Non ci è dato di sapere. Ciò che invece sappiamo è che da qualche anno, a Trento, esiste un problema piuttosto serio riguardante i locali.
I buoni e i cattivi
Non passa settimana, infatti, che sui quotidiani non si legga di una polemica, più o meno accesa, tra gli abitanti del centro storico e i gestori di qualche bar. L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto la Cantinota, locale storico al quale verso la metà di dicembre sono stati posti i sigilli (poi levati, almeno per quanto riguarda il ristorante, quindi messi nuovamente e di nuovo tolti). Ora, va detto a scanso di equivoci che chi scrive ha una consolidata (e ahimè motivata) antipatia per la recente gestione della Cantinota. Ciò premesso, sulla sua chiusura c’è forse qualcosa in più da dire. Infatti, al di là della grottesca levata di scudi da parte di varie autorità pubbliche, che hanno manifestato il loro dispiaciuto stupore e vagheggiato di bei tempi andati, non è ancora stata fatta chiarezza in merito: è possibile che i sigilli al locale, ristorante compreso, siano stati messi esclusivamente per i menzionati problemi di rumore nella tromba delle scale? Questo è ciò che il proprietario ha più volte sostenuto sulle pagine dei giornali locali (compiacenti in questa occasione, mentre in numerose altre si sono ben guardati dal reggere le parti del barista); ma sarebbe interessante avere qualche ragguaglio da parte delle autorità sulle ragioni della serrata forzata.
Se le motivazioni dei sigilli fossero squisitamente di carattere acustico, allora ci sarebbe di che discutere. Magari senza sentir tirare in ballo ancora una volta gli sfortunati lavoratori (una ventina) che rischiano il posto: questi sono sfortunati (e incolpevoli) per davvero, ma il posto lo rischiano - semmai - per la presunta cattiva gestione del locale (e dunque per responsabilità dell’imprenditore), non per la spietata malvagità della Procura, che di solito si limita a seguire le regole. A questo proposito: il rischio di impresa prevede per il padrone oneri, non foss’altro morali, che riguardano anche i lavoratori dipendenti e la loro sopravvivenza lavorativa; e non solo il possibile lucro.
D’altronde negli ultimi anni la Cantinota ha imperversato, tenendo banco fino alle prime ore del mattino, senza che venisse creato un casus belli. Esistono in effetti locali di Trento che l’hanno sempre fatta franca. È il caso, ad esempio, del bar Fiorentina, i cui fatui happy hour richiamavano centinaia di giovani universitari che occupavano letteralmente la strada, vuotavano bicchieri di plastica che andavano poi a comporre una pavimentazione modernista e dopo una certa ora, data l’angustia della toilette messa a disposizione, irroravano i muri circostanti. Niente di grave, ma nemmeno un piacere. Si ha memoria in effetti di lamentele dei vicini, più che altro per gli effluvi lasciati a imperituro ricordo. Eppure, nonostante tutto, il locale è riuscito a sopravvivere (per amicizie in Comune, secondo alcune malelingue: vogliamo credere che non fosse così).
Non è andata così bene a molti altri, che nello scontro con i vicini hanno avuto la peggio. Il Soultrain - è storia di qualche anno fa - è stato costretto a chiudere. Bookique e Cafè de la Paix hanno avuto ben note restrizioni sull’orario di chiusura, da cui sono riusciti ad affrancarsi, ma solo parzialmente, a suon di firme, assemblee e appelli pubblici. Il centro sociale Bruno, che aveva ottimi rapporti con i vicini di Via alla Dogana, è stato accolto con le barricate a Piedicastello. L’Accademia è stata, dopo ripetute lamentele, trincerata dietro un’orrida cancellata che poco azzecca con piazzetta Lainez (alla faccia della tutela delle belle arti; e della ragionevolezza).
Il concetto di “degrado”
Quello del Cafè de la Paix, oltretutto, è l’esempio eclatante di una visione, se non ottusa, per lo meno poco lucida: passaggio Teatro Osele, dove il locale situato, era abituale meta di pellegrinaggio di tossicodipendenti che lasciavano a terra, forse a scopo votivo, le siringhe usate. Usanza venuta meno da quando il locale anima le serate della piazzetta. Ora, agli abitanti del luogo viene naturalmente da domandare: un venefico e silenzioso corteo oscuro è davvero preferibile ad un’animata socialità?
Anche l’Angolo dei 33, distributore di deliziose birre artigianali e di ottima musica (in vinile e dal palco), ha dovuto affrontare lo stesso beota problema. Ospitato inizialmente in un palazzo di corso Buonarroti, già casa di accoglienza di numerose prostitute e appartato luogo di spaccio, è stato scacciato, nonostante la chiusura avvenisse ben prima della mezzanotte, per la confusione generata da qualche decina di persone che, con la bella stagione, stazionava nella terrazza antistante il locale. Inizialmente, appena aperto, i vicini frequentavano pure il bar e parevano tranquilli; poi sono iniziati gli happy hour, e con essi le chiacchiere sul plateatico comunale di fronte alla vetrina: in breve tempo si è giunti alle minacce e alle lettere degli avvocati. E così il locale si è spostato alla Vela, in una zona sostanzialmente isolata, senza arrivare allo scontro: evidentemente chi lavora dietro il banco tutto il giorno non ha molta voglia di imbarcarsi in lotte che richiedono tempo ed energie. O per lo meno, non la stessa voglia di chi alza lamentela. A tale riguardo, è bene ricordare che i locali rappresentano per chi li gestisce e ci lavora un’attività - appunto - lavorativa, e non un dolce svago. Questo a volte sembra essere dimenticato, a maggior ragione quando i gestori hanno una certa freschezza anagrafica, quasi che il sollazzo fosse la cifra unica delle generazioni future.
Il dritto e il rovescio della medaglia
Tutto viene spesso ricondotto allo scontro tra diritti: quello (dei vicini) a dormire, da una parte; e quello (dei gestori) a lavorare e (degli avventori) a divertirsi, dall’altra. La faccenda merita però meno semplicismo e maggiore obiettività.
Nei miei tempi liceali, non v’era sera nella quale, dopo le 23, si trovasse per le strade del centro anima viva. Neppure il venerdì o il sabato. Era la fine degli anni ‘90. Da allora, Trento è cresciuta rapidamente; specialmente per l’arrivo di tanti studenti da fuori città, che hanno portato usanze “foreste” e contestualmente rappresentano una larga fetta della popolazione, caratterizzata da esigenze specifiche. È quello che si può forse definire “diritto allo studio allargato”: la necessità di cultura anche fuori dalle aule accademiche. Una porzione di cittadinanza caratterizzata, al contempo, da una disponibilità economica la cui portata non è sfuggita agli esercenti cittadini. Negozianti ed esercizi commerciali fanno cassa, e lo stesso, a maggior ragione, vale per chi ha stanze da affittare (magari in nero; ma questo è un altro discorso). Se da un lato la città sembra essere più che ricettiva, dall’altro pare non voler accettare il rovescio della medaglia: quindicimila studenti (circa un decimo della popolazione) che passano la settimana a Trento, studiano e frequentano le lezioni, la sera escono di casa e generano quella che con orrido termine è stata definita “movida”. O se preferite “gli schiamazzi”, nei cosiddetti “locali fracassoni”.
Una questione di qualità
A nessuno è venuto il dubbio che sia la mancanza di offerta di qualità a generare il problema. Di fatto, però, pochi locali a Trento hanno un’offerta adeguata non solo a quella di una città che ha l’ambizione di definirsi universitaria, ma anche solo a quella di un qualsiasi centro dell’Europa continentale che abbia più di qualche decina di migliaia di abitanti. Una mancanza endemica: chi prova ad uscire dalla consuetudine viene castrato (vedi la lista di cui sopra), e probabilmente pochi hanno voglia di investire in attività non sostenute dall’ente pubblico e osteggiate dalla cittadinanza.
Vista la mala parata, viene talvolta il sospetto che possa addirittura essersi creato un “cartello” di esercenti che ha adottato un modo di lavorare standard (ossia offerta a basso costo, sia di investimenti che di energie) e che ha tutti gli interessi a mantenere lo status quo e dunque a “sabotare”, sollevando la presunta questione della quiete pubblica, chi prova a muoversi diversamente.
Di fatto chi cerca, ad esempio, di organizzare e offrire una proposta musicale con una certa cadenza viene stroncato: dai regolamenti comunali, dalla SIAE (discorso a parte, ma non trascurabile), dalle chiamate ai vigili urbani. “Negli esercizi pubblici e nelle attività commerciali gli apparecchi di diffusione vocale e sonora, con o senza amplificazione, sono utilizzati in ambiente chiuso”, così recita il regolamento di polizia urbana. “L’Amministrazione comunale può autorizzare in deroga a questo criterio un massimo di quattro appuntamenti mensili all’esterno degli esercizi pubblici nelle fasce orarie dalle ore 9 alle 12 e dalle 15 alle 23, da svolgersi a mezzo di strumentazione acustica senza alcun tipo di amplificazione o diffusione sonora”. Nessun tipo di amplificazione o diffusione, a meno che l’amministrazione non autorizzi in deroga “la diffusione sonora di musica di sottofondo attraverso impianti elettroacustici di moderata potenza all’esterno degli esercizi pubblici all’interno della fascia oraria tra le 18 e le 23”. Non un concerto dei Black Sabbath, insomma. E chi decide di organizzare più di quattro concerti al mese deve chiedere (dietro pagamento) una specifica autorizzazione.
La Trento da bere e l’esigenza di alternativa
Sarebbe però ora di squarciare la cortina di ipocrisia, ben conservata da una nutrita schiera di benpensanti, e chiamare le cose col loro nome. In Trentino si beve. Come le spugne. Esistono bar storici, in pista da ben prima che Trento diventasse universitaria e frequentati dall’apertura alla chiusura da attempati, forti bevitori. E pure nelle valli il ricorso sistematico all’alcol è cosa nota, per tutte le fasce di età. Perciò rilevare ora la questione del bere è come scoprire il segreto di Pulcinella: e cadere maldestramente dalle nuvole non nasconde né attenua le responsabilità, dirette o indirette che siano. Se un locale non offre nulla al di là dell’alcolico, gli avventori bevono. E basta. Fino a chiusura. Più tarda è la chiusura, più bevono. Per parte sua, chi scrive è un assiduo, e attento frequentatore di bar e non ha mai visto, in vita sua, gli avventori violentarsi di bicchieri vuoti e poi schiamazzare sgradevolmente in locali che offrissero qualcosa. Qualsiasi cosa: concerti, spettacoli, letture: insomma, qualcosa di diverso dal fondo della tazza. Il problema serio si presenta quasi esclusivamente dove l’alternativa manca. Proprio perché è un problema culturale, di significato più ampio di quello che l’amministrazione pubblica attribuisce alla “movida”.
D’altra parte, va considerato che tante persone concentrate in un luogo, a maggior ragione in presenza di musica, alzano per forza di cose i decibel rispetto al silenzio assoluto (anche solo parlando). Questo è un dato di fatto e come tale andrebbe affrontato, in una discussione seria sui diritti della cittadinanza, a dormire o a fare altro. Andrebbe allora definito cosa è tollerabile. Cosa, in altri termini, può essere classificato come “vocio” o “chiacchiericcio”; e cosa come “schiamazzo”. Oggettivamente, e non in base ad arbitrarie sensazioni. A questo proposito, non risulta che siano previsti di prassi controlli fonometrici che determinino la reale entità del rumore.
Il Comune, nel bene e nel male, sembra fare il gioco di chi fa la voce più grossa. Non sarebbe piuttosto educativo, per la cittadinanza, porre un confine netto tra il caos gratuito e la salutare aggregazione, e farlo rispettare sia da un lato che dall’altro?
Non si può infatti fare d’ogni erba un fascio e bisogna imparare a distinguere, per il bene di tutti, tra avventori e vandali, tra urlatori e amici che chiacchierano, tra un concerto ed un rito tribale. Possiamo sostenere, senza presunzione, che non sia poi così difficile farlo. Beninteso, avendone la volontà. Il Comune di Trento l’avrà?
E i vigili cosa fanno?
Intervista al comandante Lino Giacomoni
Comandante Giacomoni, quali sono i criteri di intervento della Polizia Locale in caso di rumore?
“Vanno distinti gli interventi su segnalazione o di routine. I primi, quando i vicini protestano, vanno effettuati con urgenza. Con i secondi invece si verifica se le licenze sono in ordine e se vengono rispettati gli orari; come da legge, vengono effettuati secondo una programmazione”.
C’è però chi dice che alcuni locali sono tartassati e altri invece trattati con benevolenza.
“No, il fatto è che noi interveniamo, dobbiamo intervenire, in presenza di rimostranze. Poi certo, ci sono gli esercenti che non seguono le regole e non ottemperano alle nostre indicazioni, e allora noi li controlliamo con più rigore”.
Come e quando vengono eseguiti i controlli fonometrici?
“Il Servizio Ambientale contatta un perito, il quale effettua la verifica installando l’apparecchio all’interno dell’abitazione del residente che protesta. Si confronta la differenza del rumore tra quando l’esercizio è in attività e quando non lo è, e per ogni zona della città è prevista una soglia di accettabilità. Se la si supera, si emette una diffida e si fanno eseguire gli opportuni lavori, dopo di che si ritorna a misurare il rumore”.
L’esercente, dal canto suo, ha la possibilità di chiedere una misurazione nel suo locale?
“Senz’altro. Ma la misurazione viene in genere fatta nell’abitazione del residente”.
Come vengono distinte le chiacchiere dagli schiamazzi?
“La valutazione tra chiacchiericcio e schiamazzo viene fatta dalla pattuglia allertata, che stende una relazione, cui poi segue una nostra comunicazione all’esercente. Il quale porta le proprie controdeduzioni e prende contromisure, come incaricare una persona che inviti gli avventori alla moderazione”.
In centro ci sono anche gruppi che a notte fonda sciamano rumorosamente dai locali. Chi interviene in questi casi?
“Se sono in gruppo è difficile approcciarli, può essere pericoloso; va valutato se intervenire assieme ad altre forze, ed attrezzati”.