Il Trentino visto da Walter Micheli
In questa intervista, una sintesi del suo pensiero su cent’anni della nostra storia.
Quella che segue è un’intervista a Walter Micheli apparsa, molto ridotta, sul numero della rivista "Carta" dell’11 maggio 2007 con il titolo di "A sinistra dell’Autonomia trentina". Rappresenta una piccola summa della storia moderna del Trentino, il significato, le radici, le potenzialità e i rischi dell’Autonomia, come visti da Walter Micheli. Rivolta ad un pubblico nazionale, l’intervista sconta la necessità di spiegare a non-trentini le nostre vicende, e quindi in alcuni passi può sembrare ovvia, o troppo semplificatrice. Ma questo può essere anche un pregio, in quanto costituisce una rapida sintesi, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, del pensiero storico e politico di Micheli. Per questo volentieri la pubblichiamo nella sua versione integrale, confidando di poter fare cosa utile proprio a chi con la recente storia del Trentino ha poca dimestichezza.
Nel tuo libro “Il socialismo nella storia del Trentino” (Il Margine, 2006) illustri con particolare attenzione le radici storiche dell’autonomia trentina, dimostrando che il discorso viene da lontano. Ce ne vuoi parlare?
"Le forze politiche storiche del Trentino si sono sempre qualificate nella rivendicazione di una alterità dei percorsi storici del Trentino, sia rispetto alle altre regioni italiane, sia rispetto all’esperienza vissuta dentro la Contea del Tirolo, durata fino al 1918 (il momento dell’annessione all’Italia conseguente alla Prima Guerra Mondiale). Si può ricordare la battaglia della miglior tradizione liberale, quella che con il deputato Giovanni A Prato portò prima alla Dieta di Francoforte del 1848, e poi nel parlamento di Vienna, la rivendicazione di una autonomia del Trentino rispetto alla Contea del Tirolo, dove una forte maggioranza etnica tedesca condizionava pesantemente lo sviluppo economico e sociale della parte italiana della contea, il cosiddetto Tirolo meridionale (l’attuale Trentino).
In questo poi è fondamentale il ruolo della presenza socialista, che fin dalle sue origini si è dovuta far carico, oltre che delle prime formazioni del movimento operaio - quindi delle tradizionali forme del riscatto operaio - anche della rivendicazione dei diritti nazionali, che sono stati espressi soprattutto dalla fondamentale, anche se contraddittoria, figura di Cesare Battisti, deputato socialista alla Dieta di Innsbruck ed al parlamento di Vienna, dove i socialisti hanno cercato, con il Manifesto di Brünn (1899) di disegnare il progetto di una riforma dell’Impero Austro-Ungarico in uno stato federale di popoli autonomi. Progetto affossato dall’approssimarsi del conflitto mondiale.
Poi, dopo l’annessione, la situazione si è rovesciata. In quel breve periodo di regime liberale pre-fascista - dal 1919 al ‘23/24 - c’è stata la rivendicazione della difesa delle tradizioni storiche di autogestione del Trentino nei confronti dello Stato italiano, molto più centralista di quello austo-ungarico rispetto agli strumenti di autogestione come comuni, usi civici, lo stesso movimento cooperativo. E queste richieste d’autonomia si confrontavano questa volta - ma questa era una bussola del solo movimento socialista e liberal-democratico - con la sottolineatura dei diritti prima di autodeterminazione delle popolazioni tedesche del Sudtirolo e poi della tutela delle loro tradizioni e radici storico-etniche-culturali.
Ma l’avvento del regime fascista ha soffocato tutto ciò, puntando all’appiattimento burocratico-autoritario e alla italianizzazione forzata della provincia di Bolzano".
Con la Repubblica democratica però una autonomia comincia ad arrivare, quella su base regionale (dove c’è una maggioranza etnica italiana). E poi, grazie alle lotte della popolazione tedesca-sudtirolese, nel 1972 c’è una revisione dell’impostazione autonomistica, che questa volta si basa sostanzialmente sulle due province autonome: quella di Trento e quella di Bolzano, dove è maggioranza etnica la popolazione di lingua tedesca.
"Intanto dobbiamo ricordare che, anche in testi usciti in questi ultimi mesi, si è considerata la realizzazione della Regione Trentino-Alto Adige - dentro quella cornice che va ricondotta all’azione politica di Alcide Degasperi - il risultato più positivo dello stesso trattato di pace del 1947, per quello che riguarda lo stato italiano. Cioè il riconoscimento dell’autonomia al gruppo etnico tedesco, anche se dentro questa cornice della Regione, che dava forti responsabilità autonomistiche anche al Trentino, in nettissima maggioranza italiano, a parte la minoranza ladina della Val di Fassa e quelle tedesche della Val dei Mocheni e di Luserna.
Questa intuizione positiva di convivenza, diciamo pure europea, è stata rapidamente sprecata dalla interpretazione che ne ha dato la Democrazia Cristiana trentina, che ha tentato di svuotare - tramite una gestione sbagliata, con forti venature nazionalistiche, dell’istituto regionale - il ruolo e la funzione dell’autonomia della Provincia di Bolzano. Portando in breve tempo, dopo il periodo degli accordi, alla spartizione fra i due partiti conservatori, quello della DC in provincia di Trento e quello tedesco della Südtiroler Volkspartei in provincia di Bolzano. E la regione su un binario morto, quello del terrorismo etnico e dei tralicci che saltavano per attentati dinamitardi. Così da ipotesi positiva, di buona sperimentazione, la Regione era diventata un elemento di contesa drammatica, un altro focolaio di forte tensione nell’Europa di fine anni ’50, fino allo slogan di Magnago (leader della Volkspartei) "Los von Trient (via da Trento)". E quindi alla reimpostazione della autonomia, che ha poi portato al secondo statuto del 1972, incardinato sulla piena autonomia delle due Province di Trento e Bolzano, e dunque sulla piena possibilità per la Provincia di Bolzano e della sua maggioranza di lingua tedesca, di esprimere le proprie rivendicazioni e di dare attuazione alla tutela etnica.
Su questo capitolo è bene ricordare l’apporto importante dato dalla sinistra italiana, nel parlamento nazionale e anche nella realtà regionale e trentina".
E così le Province di Bolzano e Trento, uniche in Italia, sono venute a trovarsi dotate di competenze primarie (legislative) e della disponibilità diretta sulle ingenti risorse destinate a farvi fronte.
"Sotto questo profilo c’è da dire che in breve tempo il discorso delle potenzialità dell’autonomia si è sviluppato in maniera contraddittoria e contrastante.
Da un lato la sollecitazione venuta dalla carica riformatrice del primo centro-sinistra nazionale ha spinto a fare qui una buona sperimentazione di quel disegno riformatore nazionale che si è espresso nei risultati del primo Piano Urbanistico Provinciale in Italia (PUP), nell’obiettivo di usare il territorio trentino per riscattare una atavica situazione di miseria e di economia di sussistenza, e nel progetto di incardinare questo anche dentro una prospettiva di forte rigenerazione culturale, vista soprattutto - in maniera non solo simbolica - nella presenza della università a Trento.
Però accanto a questi progetti, a queste intuizioni riformatrici, che ci posero per un momento al centro del dibattito politico nazionale (la fine degli anni ’60 è stato un periodo importante da questo punto di vista, con la realizzazione del PUP, del piano sanitario, del nuovo piano regolatore di Trento, ecc.), c’è stata anche una crescita a dismisura della capacità di influenza della istituzione Provincia sul terreno della acquisizione del consenso, della macchina di organizzazione politica del consenso, che ha poi dei confini molto labili con l’organizzazione di un sistema tipicamente clientelare. Pensiamo che in quegli anni la DC aveva, oltre che una maggioranza assoluta in consiglio provinciale, anche il monopolio esclusivo di tutti i centri del potere economico e sociale della provincia, se si esclude il ridotto del sindacato, inteso come CGIL, perché anche il rapporto fra partito cattolico e CISL, fino al 1968, è stato un rapporto di simbiosi.
Devo dire che su questo terreno l’influenza della prima partecipazione del Partito Socialista, come ricordo anche nel libro, è stato un risultato di scarsissima incidenza. Anzi, in molti casi il Partito Socialista si è trovato a copiare modelli che erano propri della Democrazia Cristiana, ed ha trasformato la propria battaglia politica di lotta, di analisi e di progetto, in una sorta di patronato. Pagando sia alle elezioni nazionali del 1968, che nelle elezioni regionali di quell’anno, un caro prezzo alla propria capacità di rappresentanza politico-sociale".
E difatti nel 1972 i socialisti, che avevano condiviso la gestione dell’autonomia trentina, escono dal governo provinciale chiedendo una "alternativa". Ma nel luglio 1985 avviene l’incidente di Stava: in una laterale della Val di Fiemme crollano i bacini d’un impianto industriale e travolgono 268 persone, 3 alberghi, 53 case, 8 ponti. Nel tuo libro racconti che questo crea le premesse per un ritorno al governo del Partito Socialista, e tuo personale, con un programma di riforme, soprattutto di tipo ambientale, che - dici - è stato l’ultimo guizzo riformatore dell’autonomia trentina.
"La tragedia di Stava è stato un trauma anche politico. Perché ci sono state centinaia di morti per insipienza umana, ed insipienza vuol dire una sommatoria di controlli mancati, di gestioni improvvisate, di concessioni facili, di mancato monitoraggio sul territorio. Questo ha portato ad avere nel Trentino una delle maggiori tragedie industriali del nostro paese, paragonabile solo al disastro del Vajont del 1963. Solo che la tragedia del Vajont era dovuta a pressioni economiche ed interessi lontani, mentre nel caso di Stava tutto dipendeva da noi, ed è stato un risveglio drammatico, perché avveniva proprio su terreni in cui credevamo di essere i primi della classe: la qualità della gestione del territorio e una amministrazione di stile ‘asburgico’.
Si è visto invece che c’erano crepe profonde, delle contraddizioni clamorose e delle contiguità improvvide fra il potere amministrativo e i poteri imprenditoriali. Da quel trauma, che porterà i giornali nazionali a parlare di ‘Trentino travolto dal fango di Stava’, il Trentino ha avuto una scossa di carattere anche politico, una voglia di ripresa espressa fortemente nel consenso sociale a provvedimenti che introducevano per la prima volta nel governo del territorio trentino la questione del limite, che ha trovato espressione nel nuovo piano urbanistico provinciale, nella costituzione della commissione grandi rischi, nella prima applicazione in Italia della valutazione d’impatto ambientale (VIA), nel testo unico sull’inquinamento di acqua, aria e suoli, in una legge sul ripristino ambientale che usa strumenti di ammortizzazione sociale - come l’utilizzo di lavoratori espulsi dal sistema produttivo in quegli anni particolarmente precario - quale motore del buon governo del territorio.
E’ stata una esperienza che si è manifestata positivamente, con una sua forza propulsiva, nell’arco di 3-4 anni. Ma, come spesso accade, ha avuto un periodo temporale molto limitato. Possiamo dire che questa stagione è durata dal 1985 all’89, dopo di che la forza di riassorbimento del sistema, del tran tran dei ceti politici, ma anche dei ceti burocratici, di un mondo economico che facendo leva sulle disponibilità della Provincia ha potuto prosperare senza misurarsi con la gara della tecnologia, del progresso, dell’innovazione, ci ha portati ad una situazione stagnante, dove l’esperienza della autonomia trentina, più che essere vista come elemento di innovazione è vista come elemento di privilegio".
Mentre citavi i buoni risultati della politica ambientale della giunta provinciale in cui eri vicepresidente e assessore all’ambiente, mi rendevo conto che sono proprio gli strumenti nei confronti dei quali l’attuale giunta dimostra più fastidio, il VIA in primis. E che oggi si sta progettando una riscrittura del Piano Urbanistico Provinciale nel quale, richiamandosi alla flessibilità degli strumenti di programmazione, si prospetta di svuotare dall’interno la normatività stessa degli strumenti urbanistici. Insomma, secondo te questa è una autonomia che ha esaurito le proprie energie propulsive?
"Nel corso di questi anni l’autonomia trentina è riuscita a fare tante cose. Le competenze legislative sono sempre di più, le disponibilità finanziarie consistenti. Però il fatto che non si sia più riusciti ad esprimere un’anima, un progetto di motivazione ed identificazione dell’autonomia del Trentino rispetto al resto della comunità nazionale, dovrebbe portare ad un atteggiamento più severo e critico da parte delle forze politiche locali ed anche delle altre articolazioni della società.
All’antipatia, alla autonomia vissuta come privilegio anziché come insieme di buone sperimentazioni, si è risposto cercando di avere sempre maggiori timbri, garanzie sempre più forti a livello nazionale ed internazionale sull’intangibilità delle conquiste. Ma credo che questa sia una strada velleitaria.
Alcuni dei critici possono essere disinformati sulle ragioni storiche, o soffiare sul fuoco - come fa Galan, presidente della Regione Veneto - per proprio tornaconto. Ma non credo che l’autonomia del Trentino possa vivere a lungo tranquillamente se non viene vissuta in maniera più equa e solidale rispetto al dato nazionale, e soprattutto senza dimostrare che qui risorse e competenze si sviluppano sul terreno positivo della sperimentazione di soluzioni utilizzabili anche per il resto della comunità nazionale, e non solo per consolidare una situazione che certo ha portato il Trentino da una situazione di sottosviluppo alla opulenza.
Ma una economia dell’opulenza senza progetto è destinata a deperire".