Vivere a tutti i costi?
Il tema dell’eutanasia, oltre alla razionalità muove l’emotività del Paese.
La vicenda drammatica di Piergiorgio Welby ha toccato nel profondo l’opinione pubblica e rimandato le coscienze ad interrogarsi sui temi dell’eutanasia, del rifiuto delle cure, del testamento biologico. Le sue parole rappresentano un’istanza morale che chiede di mettere fine ad una vita costretta, partendo dal presupposto che vivere è un diritto e non un obbligo.
Il rifiuto delle cure è lecito, ammesso dalla legislazione italiana e anche dal Codice di Deontologia Medica. Welby, nel pieno possesso della lucidità mentale, esercita quindi un suo diritto che è quello del rifiuto delle cure, perché nel caso contrario da un diritto alla vita si passerebbe ad un dovere alla vita.
Il rifiuto dei Testimoni di Geova, per esempio, delle trasfusioni di sangue è insuperabile e fa capire che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La cronaca ha riportato casi di persone che non volendo subire l’amputazione di un arto sceglievano liberamente di morire.
Quindi appare chiaro come la vicenda di Welby, che rivendica un suo diritto, sia giustamente enfatizzata diventando un caso nazionale, dove entra in campo, oltre alla razionalità, anche l’emotività, per indurre l’opinione pubblica ad un necessario dibattito sui temi dell’eutanasia, dell’accanimento terapeutico, del testamento biologico.
Il consenso al rifiuto delle cure, per essere rilevante, dev’essere espresso da una persona capace di intendere e volere o mediante un testamento biologico (living will) che dia le indicazioni da seguire se sopraggiunge una grave malattia che impedisce al soggetto di manifestare la propria volontà. Prassi comune e raccomandata negli Stati Uniti, Canada, Danimarca, Belgio, Olanda, Spagna.
In attesa di una legge che ne regoli l’istituzione è possibile scaricare da Internet il modulo per il testamento biologico (www. fondazioneveronesi.it/).
Per quanto riguarda invece l’eutanasia attiva, essa è vietata nel nostro Paese, e paragonata all’omicidio volontario (art. 575 del codice penale); se si riesce a dimostrare il consenso del malato, ci sono attenuanti (art. 579). Il suicidio assistito è pure considerato reato ai sensi dell’art. 580. Quanto all’eutanasia passiva, pur essendo proibita è più difficilmente dimostrabile.
Per approfondire ulteriormente il problema eutanasia abbiamo intervistato il Prof. Pier Giorgio Rauzi, docente di Sociologia della conoscenza e autore di pubblicazioni sul tema.
Il tema dell’eutanasia, tornato prepotentemente alla ribalta, ha implicazioni umane e sociali che lei ha analizzato.
“Alla base di tutto c’è una tecnologia sempre più sofisticata che ha cambiato il corso naturale della vita. Mi piace fare quest’esempio: fino a qualche decennio fa la morte avveniva tra le pareti domestiche e quando all’ammalato, in fase terminale, spesso succedeva di non riuscire più a deglutire, il medico di famiglia constatava il limite delle sue possibilità scientifiche e passava la mano al prete, che spesso era compresente. Oggi una tecnologia minima, banale, ovvia, impone la flebo per idratare e in tal modo si procrastina tecnologicamente il momento della morte. Se il paziente continua a non deglutire dopo alcuni giorni, si passa alla Peg per la nutrizione forzata utilizzando una tecnologia più sofisticata e procrastinando ancora la morte.
Facciamo ora il caso di un anziano con demenza senile, arteriosclerosi totale, privo di qualsiasi capacità relazionale, che se si vedesse si vergognerebbe di com’è ridotto: a chi spetta la decisione di non applicare le tecnologie, sapendo che una volta ricorsi ad esse arriva un dominio dal quale è difficile sottrarsi?”
Ma chi può prendere una decisione così grave, definitiva?
“E’ necessario che sia una responsabilità condivisa. Dal punto di vista etico e dal punto di vista giuridico io sostengo che non si possono dare risposte edite a domande inedite. Prima di queste cose il mondo andava diversamente, nella storia dell’umanità nessuno ha posto queste domande perché non c’era bisogno.
Allora quando il Papa afferma che la vita va rispettata dal momento del concepimento alla morte naturale, io mi chiedo cosa intendiamo per naturale. Ma è naturale la flebo, l’alimentazione forzata? La tecnologia è sì frutto della natura dell’uomo, ma stento a chiamarlo progresso quando penso per esempio alla bomba atomica.
Dopo essermi occupato della morte, ora mi sto interessando agli aspetti connessi alla nascita, e anche qui appare chiaro che le indagini genetiche per accertare la sanità del feto si avvicinano all’eugenetica. Ma la pressione sociale rende quasi obbligatorie le ricerche prenatali, che diventano sempre più sofisticate. Ed anche in questo caso assistiamo allo sbilanciamento tra le capacità diagnostiche, sempre più avanzate, e quelle terapeutiche, non sempre capaci di risolvere”.
Sul termine eutanasia si fa, soprattutto in questo periodo, grande confusione, vogliamo dare una definizione?
“Per eutanasia si può intendere: l’eutanasia diretta e volontaria (attiva), ad esempio l’iniezione di una sostanza letale nel paziente consenziente. Oppure l’eutanasia indiretta volontaria, quando il paziente allontana chi lo assiste per attendere da solo la morte che avviene cessando di combatterla. O infine l’eutanasia indiretta involontaria (passiva), quando medici e familiari decidono di sospendere i trattamenti per tenere in vita un paziente non lucido.
L’eutanasia non si può paragonare al suicidio. Il suicidio crea sensi di colpa irrisolvibili, mentre l’eutanasia vuole la condivisione e non lascia sensi di colpa nei familiari. Oggi nessuno muore perché è mortale, perché è arrivato alla fine dei suoi giorni, ma muore perché non è stato operato bene, muore perché non è stato soccorso in tempo, muore perché non è stata scoperta la cura alla sua malattia... Quello che voglio sottolineare è la negazione della morte come evento naturale e di conseguenza la rimozione sempre più massiccia del pensiero della morte che crea delle vere e proprie patologie sociali.
Ciò va di pari passo con la stigmatizzazione della vecchiaia come dramma insostenibile da combattere, da nascondere, da evitare. Dire ad una persona che non vedi da un paio d’anni che la trovi invecchiata è scatenare un dramma che è meglio evitare mentendo.
Il vecchio con la pensione resta spesso privo di mezzi economici, non ha niente più da trasmettere, né da dare, è inutile e insignificante. E’ vero che la vita si è prolungata, ma ciò non ha portato certamente una migliore qualità: viviamo più a lungo ma non siamo più felici.
Il prof. Rauzi non ci dà delle risposte, ci rimanda dubbi e interrogativi che ancora una volta rimarcano come il concetto di eutanasia apra un dibattito non solo sociale ma etico, morale, religioso; l’importante è comunque è l’aver messo in luce come il concetto di morte venga continuamente rimosso nella nostra società e come l’uomo con la tecnologia pensi di poter avere il controllo di ogni cosa.
Un tema come questo non può esaurirsi in poche pagine, richiede approfondimenti, e pertanto consigliamo alcune letture in proposito:
- Philippe Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi. Laterza, Bari, 1997
- Norbert Elias, La solitudine del morente. Il Mulino, Bologna, 1988
- Edgar Morin, L’uomo e la morte. Newton Compton, Milano, 1980
- Max Scheler, Il dolore, la morte, l’immortalità. Elledici, Torino, 1983.