Alla voce “eutanasia”…
I cattolici e la “dolce morte”.
La parola "eutanasia" di per sé indica solo una morte
dolce o buona. Ma nell’uso comune di oggi, in tutte le lingue di origine europea, essa comprende molte realtà diverse tra di loro e un gran numero di problemi concreti sul piano medico e su quello morale. La novità, poi, di alcune conoscenze scientifiche, di trattamenti terapeutici e, anche, di situazioni umane mai prima analizzate nel profondo, di nuovi rapporti tra medico e paziente, hanno reso il dibattito ancor più vasto e complicato, difficile da riferire in un articolo di giornale.
Si può, comunque, partire da un’analisi tradizionale, che distingue tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva.
La prima indica un’azione mirata direttamente a far morire una persona, spesso per pietà verso una situazione di grave sofferenza (o anche per motivi meno nobili), la seconda indica un comportamento mirato a lasciar morire una persona, tralasciando o interrompendo terapie o altre forme di assistenza concretamente disponibili.
Ma già questa distinzione pone di fronte a un’obiezione importante: lasciar morire una persona quando si hanno i mezzi per mantenerla in vita, ha un significato morale diverso dal far morire? E viceversa: quando si ritenga lecito lasciar morire, perché non dovrebbe essere lecito far morire, evitando spesso così sofferenze grave, prolungate e inevitabili?
E’ significativo, d’altra parte, che l’esperienza umana abbia sempre mantenuto distinto l’omicidio dall’omissione di soccorso, almeno quando l’omissione non sia dolosa, cioè non avvenga con l’intenzione precisa di far morire l’infortunato.
Le cose, poi, si complicano riguardo a due problemi: quello che distingue la responsabilità dell’infermo da quella di chi lo assiste e quello che si riferisce ad un malato che non è in grado di esprimere con chiarezza il suo pensiero sulla situazione che sta vivendo. In questo caso chi decide? Costui, nell’uso internazionale viene chiamato "il procuratore", in termini abbreviati "il proxy".
In ogni modo, per la coscienza credente l’eutanasia attiva (o diretta) non è moralmente accettabile: "Ogni vita umana è un progetto di Dio, e in esso deve essere vista anche la malattia e la sofferenza… A noi non è lecito eliminare il dolore eliminando una vita, ma è lecito e doveroso mettere in atto tutti i mezzi disponibili per ridurre il dolore, ricercarne di nuovi e di più efficaci, e infine provvedere a una seria assistenza psicologica di sostegno del sofferente" (Enrico Chiavacci).
In questo contesto si tratta soprattutto di mettere a disposizione della persona sofferente quei mezzi potenti che sono disponibili oggi per alleviare il dolore.
Quanto, poi, all’eutanasia passiva (o indiretta), il discorso è tutto diverso. Il rapporto fra omicidio e omissione di soccorso - tra far morire e lasciar morire - acquista di fronte ad un infermo caratteristiche del tutto particolari, che richiedono un’attenta e differenziata valutazione etica. Scrive Enrico Chiavacci: "Tutta la tradizione morale cristiana conosce la distinzione fra mezzi terapeutici ‘ordinari’ e mezzi ‘straordinari’: vi è il dovere morale di tutelare la propria salute con mezzi ordinari, non invece con mezzi ‘straordinari’.
Sul piano tecnico mezzi che potevano apparire straordinari - per esempio, la rianimazione, il trapianto - oggi sono trattamenti di routine. Ma il concetto di mezzo straordinario nella riflessione teologico-morale non riguarda soltanto la tecnica, ma anche - e primariamente - le condizioni soggettive dell’infermo. Un trattamento può essere inaccettabile per uno ed accettabilissimo per un altro: si pensi a trattamenti ad alto rischio, ad amputazioni degradanti gravemente la qualità della vita, a prescrizioni religiose (e quindi supreme nella mente del soggetto). In simili casi la sensibilità dell’infermo può dare risposte differenziate. Ma si deve anche pensare al problema economico" (Enrico Chiavacci, Lezioni brevi di bioetica).
Per ovviare all’impossibilità di una normativa rigorosa in materia di eutanasia passiva si è, poi, introdotto recentemente il concetto di "accanimento terapeutico", che è, però, sempre un confine incerto, legato alla condizione soggettiva dell’infermo da un lato e, dall’altro, alle condizioni oggettive in cui l’infermo e chi lo assiste vengono di volta in volta a trovarsi.
Ciò mantiene aperto il dibattito e lo rende certamente problematico, lasciando però alla coscienza dei vari interlocutori di poter trovare singole vie d’uscita.